martedì 20 dicembre 2011

Diego De Silva, “Sono contrario alle emozioni”.

Chi ha già letto “non avevo capito niente” e “mia suocera beve”, di Diego De Silva, avrà piacere di ritrovarsi a tu per tu con l’avvocato Vincenzo Malinconico, a sentirsi il destinatario dei suoi racconti, delle sue storie e dei suoi aneddoti, condotti sempre con fare critico verso tutto e verso tutti, in modo sfacciato e a volte sboccato, specie quando nel mirino ci sono le ipocrisie, i mezzucci ed i luoghi comuni. Questi ultimi caratteri della società, infatti, provando a sintetizzare il pensiero di Vincè (come anche io ormai mi prendo la licenza di chiamare Vincenzo Malinconico), finiscono per spiazzarti, se il tuo modo di fare segue più l’istinto che non una ragione forgiata al tavolo delle convenzioni.
Ma in “sono contrario alle emozioni” l’autore supera sé stesso: l’atteggiamento sfrontato e distaccato del protagonista cede il passo, infatti, ad un male oscuro, apparentemente ingestibile, che rischia di sopraffarlo, perché - le strade del Signore sembrano essere infinite - persino lui, che fin’ora aveva mostrato di tenere alla sua integra essenza sopra ad ogni altra cosa, sembra scivolare nel vortice delle sue stesse critiche e a non saperne più riemergere. E per ciò non bastare ancora, per cercare di venire fuori dalla situazione di stallo in cui si ritrova, compie il gesto che più di tutti da lui non ci si sarebbe immaginato: si affida ad uno psicoanalista.
Naturalmente, conoscendo il tipo, da principio, l’approccio con l’altro ha tutta la parvenza di una disputa polemica, di una battaglia in cui, senza giudicare quello che fa il suo mestiere, il caro Vincè si sente costantemente sfidato e para i colpi e di rimando gli lancia continue provocazioni. Ma qualcosa non sembra andare per il verso giusto: o il dottore ne sa una più del diavolo o forse c’è qualcosa veramente in Vincenzo che non va come dovrebbe andare.
L’intero libro, che ha pochi tratti del romanzo, mancando prima di tutto dell’aspetto narrativo, è il dialogo, anzi sarebbe più corretto dire, il monologo del protagonista che si rivolge direttamente al lettore per parlare di sé stesso. Del resto, il lettore, proprio come in una seduta psicoanalitica, non potrà che limitarsi ad ascoltare i fatti che hanno dato vita e godimento al paziente che ha appena posto in dubbio sé stesso, salvo esprimere il suo verdetto alla fine, dopo che ha voltato l’ultima pagina. Nel mio caso, se proprio lo volete sapere, il soggetto è ben sano, ma farebbe bene a non preoccuparsi troppo delle conseguenze dei suoi gesti.
Un’ennesima brillante, prova di coraggio per De Silva che affida all’avvocato Malinconico il ruolo, certamente non facile, di dissacratore. Entusiasmante per lo stile, ricorrente nei tre libri che sono dedicati all’avvocato napoletano, in cui persino un pensiero che ci può occupare la mente per un tempo non superiore al centesimo di secondo viene analizzato al rallentatore, scandendolo in ogni suo passaggio, sul quale viene poi calato il microscopio della mente di un personaggio geniale (provare per credere).
L’unica pecca, perché una almeno gliela devo trovare, è che il libro sembra destinato unicamente a chi conosce già le traversie di Vincenzo Malinconico. Anche se sono convinto che a ciò si possa facilmente trovare rimedio

mercoledì 7 dicembre 2011

Goce Smilevski, “La sorella di Freud”.


La letteratura internazionale ha conosciuto un nuovo grande autore: Goce Smilevski. C’è addirittura chi (come Joshua Cohen) lo ha già definito “erede di Gunter Grass e José Saramago”. Ma a parte la lungimiranza del commento, quel che rimane certo è che il suo primo romanzo, “la sorella di Freud”, oltre ad essere stato già un successo in mezza Europa, ha tutte le credenziali per essere annoverato come una vera grande opera.
La narrazione ha inizio con la fine della vita di Adolfine, una delle quattro sorelle di Freud, l’unica che non ebbe figli e che non si sposò. La morte di Adolfine è annunciata, dato che si trova reclusa in un campo di concentramento e ha da poco varcato la soglia delle ormai tristemente famose “docce” con cui il regime nazista ha inteso ripulire il mondo dagli ebrei. Da quel momento, prende piede la rievocazione della sua intera vita.
Ma la vita di Adolfine, da lei narrata in prima persona, non è altro che l’imbastitura dell’intero romanzo. E nemmeno alcuni eventi storici e drammatici, come la grande guerra e la deportazione ebraica che, da principio, sembrano dover occupare la scena, ne costituiscono il leitmotiv, recedendo presto ad elementi indispensabili e determinanti, ma non decisivi. Il vero scopo dell’opera, infatti, è di meditare sulla complessità della psiche umana. Ciò che vien fatto, peraltro, riuscendosi a portare a termine, con indiscutibile successo, il difficilissimo compito di mettere in chiaro i fondamenti delle scienze che la studiano, come la psicologia e, non a caso, la sua più nota corrente, ossia la psicoanalisi, illustrandone al lettore le prime sensibili conquiste. Facendolo altresì calare nella mentalità dell’epoca in cui esse furono ottenute, non senza sottrarlo alle difficoltà che le stesse incontrarono, a causa delle ritrosie e ai retaggi culturali dovuti, finanche, ad una scienza fondata su credenze popolari.
Non è una lettura leggera. Lo si comprende subito, sin dalle prime pagine. Ma proprio per questo, si apprezza maggiormente la scioltezza del linguaggio adoperato, pur dove vengano affrontati argomenti affatto complessi.
Accanto alla rievocazione storica di una vita singolare, dalla quale peraltro trapelano, non di rado, spunti di riflessione che la portano ad essere paragonata a quella di tanti altri, se non altro per coglierne le differenze, poi, trova spazio anche l’ideologia d’una società borghese che si forma e si sviluppa a dispetto delle guerre e delle convenzioni incancrenite dalla paura di guardare oltre le abitudini conclamate e mai contestate.
Personaggi rimasti illustri nella storia viennese a cavallo fra l’800 ed il ‘900 si alternano ad altri che hanno vissuto al loro fianco e ad altri ancora frutto della fantasia dell’autore, in un andirivieni che ha come unico filo conduttore, come epicentro d’interesse, l’origine della loro personalità. Del loro “io”. Fra gli altri, inutile dirlo, un ruolo, anche se non fondamentale, o meglio, non diretto, è lasciato al padre della psicoanalisi, il quale, peraltro, non sempre è rappresentato come affidabile e integerrimo. A volte, anzi, l’autore sembra volerlo persino deridere, lasciando sfuggire un sorriso amaro a chi ne ripercorre le gesta. Ma anche questo non è che un modo, io credo, per non far dimenticare che sulla psiche umana non vi è, né vi può essere, alcuna certezza.
Un libro da non perdere. Un autore da tenere d'occhio.

venerdì 2 dicembre 2011

Benedetta Cibrario, “Lo scurnuso”.

Di Benedetta Cibrario ho letto tutto. Almeno, tutto quel che di lei sembra essere stato pubblicato. Ossia, tre romanzi. Tutti editi Feltrinelli. Uno più bello dell’altro. L’ultimo è “lo scurnuso”, uscito in sordina nel mese di novembre.
Lo scurnuso in napoletano è “chi tiene scuorno”, ossia prova vergogna, per sé stesso, per quello che ha fatto. E’ la persona che si identifica col sentimento che prova. Nel romanzo, lo scurnuso è anzitutto una statuetta. Una creazione meravigliosa di un giovane artigiano, che in essa ha voluto rappresentare la persona che si è presa cura di sé nella fase più critica dell’infanzia, ma che, strano a dirsi - specialmente in queste righe - non ha provato apparentemente vergogna quando l’ha mandato via di casa, non avendo più i mezzi per poterlo sostentare. Ma lo scurnuso del romanzo è anche una persona, Tommaso Jannacone, un “figuraro” napoletano che alla fine del ‘700 modella pastorelli per il presepe e altre statuette per la parte nobile e meno nobile della città, morto povero a causa della malattia che non gli ha più consentito di lavorare la creta. E’, dunque, l’uno e l’altro insieme.
La trama vuole che, quando nella vita di Jannacone l’avanzare della malattia cominciava a impedirgli di lavorare, si era fatto avanti l’orfanello Sebastiano, il suo apprendista, avuto come ricompensa per un lavoro fatto alle monache di Caserta, dimostrandosi subito capace dell’arte dei figurari. Dopo pochi anni, però, sebbene fra i due si fosse creato un rapporto stretto, paragonabile solo a quello fra un genitore e il proprio figlio, Sebastiano era stato dato come garzone in una bottega molto più avviata, in cui il suo estro e la sua bravura sarebbero servite molto di più. Di punto in bianco. Senza vergogna. Perché diceva Jannacone a Sebastiano che lì avrebbe imparato meglio il mestiere e, in quel tempo di carestia, col suo lavoro avrebbe guadagnato di più lui e avrebbe dato da mangiare anche a sé.
Il fatto è che Jannacone in realtà si era vergognato, e aveva provato dispiacere per il distacco, avendo dovuto solo recitare la parte di chi non presta ascolto ai sentimenti, per non intimorire il giovane e non fargli perdere l’occasione della sua vita. Sebastiano, dal canto suo, se ne sarebbe accorto tardi, troppo tardi, quando ormai quello era morto. Per ricordarlo, però, lo rappresentò come sapeva, con la sua arte, in una statuetta, afflitta dal dolore, con le mani fasciate e lo sguardo triste e chiuso in sé, appunto, come chi prova vergogna di ciò che ha fatto.
Dopo più di un secolo e per la sua bellezza, la statuetta passa per le mani di collezionisti di presepi, gente colta e sensibile che lo tiene, se non come il pezzo più pregiato, certamente come il più espressivo e bello della collezione. In pieno secondo conflitto mondiale, si afferma che, di sicuro chi lo aveva confezionato doveva avere avuto un gran talento, mentre il mistero sulla bottega da cui fosse giunto ne incrementa l’interesse. Nell’ignoranza sulle origini e la provenienza della statuetta, gli si attribuisce un nome, che non guarda al suo mestiere o alla sua condizione fisica, ma all’espressione del suo volto. Ed è per questo che sarà chiamata lo scurnuso.
Giunti ai giorni nostri, nel finale del libro, lo scornuso finisce nelle mani di un ricco cittadino, che pensa di fare cosa gradita regalandolo alla figlia, mentre lei sembra rimanere totalmente indifferente alla cosa.
Nonostante la sua brevità, il libro si lascia apprezzare, soprattutto per la sua eleganza e lo stile sopraffino di cui, oramai, l’autrice ci ha dimostrato essere capace. Fra le sue pagine, che corrono veloci come i piaceri più sublimi ci sfiorano la fantasia, si coglie un sincero omaggio ad un popolo antico e meraviglioso, singolare ed originalissimo, come quello napoletano, con le sue tradizioni, le sue leggende e la sua atavica vitalità, che attraversa le strade delle viuzze fino ad arrivare davanti ai cancelli di maestose dimore storiche reali.
Il posto d’onore, però, è lasciato alla bellezza e all’arte in generale, la sua scoperta, il fremito che sa generare, le invidie e il pizzico di follia che accompagna chiunque ne rimanga affascinato. Tutto ciò, forse, con l’unico rammarico di assistere, al giorno d’oggi, alla decadenza di una società in cui persino il bello viene assorbito dal concetto di ricchezza.

martedì 29 novembre 2011

Marcello Simoni, “Il mercante di libri maledetti”.

Quand’ero ancora a metà lettura del “mercante di libri maledetti”, mi sono imbattuto, per un caso fortuito, nelle voci di alcuni lettori che lo avevano già terminato e che storcevano non poco il naso, scambiandosi commenti fra di loro. Il mio dispiacere è stato grande, perché, arrivato al punto in cui ero, vivevo ancora nell’illusione di vedere intensificare gli eventi e complicare la trama, fino al punto da aspettarmi di veder divenire l’opera così come viene presentata (nella quarta di copertina): “enigmatica come Il nome della rosa” e “avvincente come I pilastri della terra”.
Le premesse, del resto, c’erano tutte, sebbene ogni azione complicante ed ogni nuovo nodo trovava presto la sua soluzione, svilendo un po’ la prerogativa di ogni thriller di accrescere il pathos ad ogni pagina ed incalzare il lettore, tenendolo sveglio la notte a sfogliare le pagine di un mistero che diviene sempre più buio e complicato man mano che va avanti. Per intenderci, mi aspettavo il colpo di scena che sovvertisse tutte le certezze acquisite fino a quel momento, oppure il colpo di genio che mettesse insieme tutto quel ch’era stato seminato fin lì e gli desse una nuova direzione. Invece la trama ha continuato ad andare avanti, liscia, senza offrirmi grandi suggestioni né suscitarmi particolari curiosità.
La storia si svolge in pieno medioevo, all’inizio del XIII secolo, epoca dei Comuni e delle grandi monarchie europee, ma anche età d’oro delle grandi cattedrali cristiane che, per venire edificate ed crescere di prestigio, richiedono ingenti risorse economiche alle masse. A tal fine, viene sempre più sfruttato il culto delle reliquie sacre, tanto che il periodo conosce un vero e proprio commercio, che spazia per tutto il mondo cristiano, da poco allargatosi per via delle crociate, di frammenti d’ossa o di vesti ed oggetti appartenuti a martiri, beati e santi.
In questo contesto si muove il mercante Ignazio da Toldo, uomo colto e tenace, protagonista della storia, il quale, dopo esser ritornato dalla Terra santa, viene coinvolto nella ricerca dell’unica copia conosciuta dell’Uter Ventorum. Con questo titolo si designa un libro a metà strada fra il sacro e il profano, la scienza e la religione, che viene visto, o meglio, viene idealizzato come il mezzo più diretto, ma, non di meno, immorale, per apprendere la stessa sapienza degli angeli ed, eventualmente, farne uso per accrescere il potere personale di chi lo legge.
La ricerca dell’Uter Ventorum parte da una iscrizione, suddivisa in quattro parti, che Ignazio trova sulla tomba del suo amico e ultimo possessore certo del libro, Padre Vivïen de Narbonne. Sulla scia di Ignazio e di due suoi fidati amici, che lo accompagnano in quell’Europa di cattedrali e facili suggestioni, però, c’è un gruppo di cavalieri che lascia morte e spavento ad ogni apparizione e che se ne vuole appropriare per primo. La ricerca diventa, quindi, quasi una fuga senza soste, intervallata solo dalle tappe forzate che l’enigma iniziale impone al mercante.
A fronte di una traccia che, davvero, appare suggestiva e avventurosa, mancano, però, purtroppo, un’appropriata scelta dei tempi, una ottimale caratterizzazione delle figure ed una più ampia ambientazione degli avvenimenti. E’ vero che si tratta di un’opera prima, ma personalmente, dopo aver anche appreso che il libro ha spopolato in Spagna, ov’è stato pubblicato prima che da noi, mi aspettavo di più, molto di più.
Peccato!

lunedì 21 novembre 2011

Alessandro Baricco, “Mr Gwyn”.

Negli ultimi due anni ho evitato di commentare un solo libro tra quelli che ho letto. Era Emmaus, di Alessandro Baricco. Non l’ho fatto volutamente, perché ne avevo avuto un’impressione negativa. Insomma, non mi era affatto piaciuto, e non mi andava di infangare il nome di uno degli autori che apprezzo di più. Ciò, senza dire che, leggendo qualche recensione qua e là su Emmaus, saltavano fuori sinceri apprezzamenti ed elaborate riflessioni che mi facevano capire, forse, di non essere stato io all’altezza dell’opera, di non averla ben compresa, e che dunque avrei fatto meglio a rileggerla, prima di dire la mia. E’ passato molto tempo, ma Emmaus giace ancora intatto dove l’ho riposto l’ultima volta. Nel frattempo, però, lo scorso 3 novembre, è uscito Mr Gwyn, che mi ha incantato. Mr Gwyn è un personaggio all’apparenza insondabile e dagli atteggiamenti inverosimili. Uno di quelli che, visti di sfuggita, vengono sommariamente bollati come asociali, alieni o, più frettolosamente, come pazzi. Più da vicino, però, divengono degli eroi, delle calamite da cui non ci si può staccare. Sono delle vere metafore viventi. Dei santi, perché hanno conosciuto la verità e non si aspetta altro che potersi abbeverare alla fonte del loro sapere.
Egli è autore di romanzi e vanta alcune pubblicazioni di successo sulla stampa periodica, ma arriva un giorno in cui decide di non volere più fare il suo mestiere, con grande disappunto del suo agente ed unico amico, e smette di farlo. Eppure, la smania per la scrittura lo coglie impreparato in ogni momento, finché non decide che qualcosa dovrà pur fare per poterla tenere a freno. Da ciò, nasce in lui l’idea di fare il copista, ma alla sua maniera. Decide cioè di copiare per iscritto la gente o, meglio, di farne dei ritratti che non prevedano tele, colori e pennelli, ma si rivelino attraverso la scrittura. L’esperimento sarà al tempo stesso un fallimento e una rivelazione, perché, da un lato, il suo intento di non volere più scrivere in forma creativa ed ingegnosa verrà, giocoforza, svilito e, dall’altro, ogni ritratto rivelerà l’essenza di ogni essere umano, che in sé non figura quale protagonista, ma come storia. La storia di un romanzo, di un racconto, di un’idea che vive nelle pagine di un libro raccontato da altri. Non una fine, ma un divenire proteiforme.
Nel crescendo che la storia incarna in sé, svolgono un ruolo fondamentale i due personaggi minori del racconto, aiutanti del protagonista a districare la matassa che porti infine allo scopo del romanzo. Si tratta dell’agente-amico e dell’assistente di quest’ultimo, Rebecca, i quali, contribuiscono anche ad alleggerire la prosa, rendendola adatta ad essere letta da chiunque, sia pur con spirito diverso. Inoltre, si assiste al tocco d’artista che dà vita e corpo ai pensieri del protagonista, facendogli assumere sembianze umane che fungono da sprono, da monito e da ultimo persino da compagnia.
Ho letto Mr Gwyn con vero piacere. Leggerlo è stato un po’ come tornare a casa, dopo un lungo viaggio attraverso i mondi più vari, perché lo stile inconfondibile di un maestro della letteratura contemporanea, qual è Baricco, mi è apparso subito evidente, sin dalle prime pagine. E poi ho ritrovato il suo fare accattivante che, nel coinvolgerti, ti porta a dire “si” al suo credo, alle sue regole ed al suo obiettivo finale.
Dunque, non mi rimane che dire, bentornato Baricco!

mercoledì 16 novembre 2011

Stefano Benni, “La traccia dell’Angelo”.

La traccia dell’angelo” è la storia del viaggio onirico, fantastico e drammatico al tempo stesso, in cui sprofonda Morfeo, il protagonista che, già all’età di otto anni, si trova per la prima volta a tu per tu con la morte. Nella notte di natale del 1955, infatti, al bimbo che aveva avuto appena il tempo di innamorarsi della neve che cade, dell’albero addobbato a festa, dell’attesa di aprire i pacchi regalo disposti ai suoi piedi, cade in testa una persiana, facendolo quasi schiattare. Anche se si riprenderà in poco tempo, questo evento sarà considerato, nel corso di tutta la sua vita, alla base dei suoi mali veri o immaginati. A questo scopo, nel racconto, i medici ignoranti e senza scrupoli divengono metafora di un mondo egoista e profittatore, in cui perfino le debolezze umane, le paure, sia pur passeggere o trascurabili, formano oggetto di speculazione economica.
E’ una sintesi rappresentativa del mondo d’oggi. Un quadretto a grosse pennellate in cui, quale unica e neanche misera, ma certamente realistica, consolazione, però, sembra esservi ancora spazio nella battaglia del bene contro il male. E’ un messaggio di speranza.
Morfeo impara a sue spese, che nella lotta fra il bene e il male, non può farsi affidamento su un essere superiore, fuori dalle parti, estraneo alla scena o, comunque, incapace materialmente di potervi intervenire, ma che si può dare quantomeno ascolto alla voce di un angelo buono. L’angelo buono non è deus ex machina e come tale non può modificare il corso delle cose, né può farsi sempre e comunque affidamento sulla sua presenza, tuttavia può segnare una direzione o, col titolo del libro, può indicare una “traccia”.
La traccia da seguire che l’angelo buono indica a Morfeo è quella di lasciare una sola goccia di sé in questo mondo, “una goccia in più che fa andare avanti il mondo”, che evidenzi le brutture del male, specie al raffronto con le buone conseguenze del bene, poiché - sembra dire - anche se una sola goccia risulta essere incapace di opporsi da sola al male, arriverà il giorno che tutte le gocce messe insieme potranno avere un peso tale da poterlo contrastare efficacemente. O, come dire, ancora, che il bene deve essere costruito e voluto da tutta un’intera collettività, se poi la stessa vuole goderne degli effetti. E, all’interno della collettività ci si deve spingere l’un con l’altro al bene delle cose, alla semplicità, alla negazione della prevaricazione del più forte, ai giusti equilibri fra le parti.
Con questa traccia (che può essere letta anche come un suggerimento, una linea guida, o per chi non vuol riflettere, anche un insegnamento), Morfeo si sveglia dal suo lungo viaggio onirico ritrovandosi di nuovo un bambino, nella notte di natale del 1955. Una persiana cade e per poco non lo colpisce in testa. La sua testa è salva e così anche la sua vita. Da grande potrà fare quello che desidera, raccontare delle storie ispirate al bene e metterle per iscritto. Sarà questa la sua goccia in più che fa andare avanti il mondo. Il suo contributo alla causa del bene.
Mi inchino di fronte all’autore che amo tanto, per averci regalato una sua ennesima perla, racchiusa in uno scrigno tanto piccolo ma, al tempo stesso, tanto ricco di spunti di riflessione. Non per ultimo, colgo con ammirazione quel tanto di autobiografico che sembra venir fuori fra le righe (Benni è nato nell’agosto del 1947 e nel natale del 1955 aveva otto anni), oltreché l’intento dell’autore reale di porsi in contatto diretto col lettore implicito, sottoponendo al giudizio di quest’ultimo la sua intera vita da narratore, inventore di favole e personaggi, nonché quello di farsi egli stesso angelo buono, indicatore d’una traccia, per chi lo sta a sentire.
Esemplare.

martedì 15 novembre 2011

Herman Koch, “Villetta con piscina".

Basta guardare le foto di Herman Koch per capire dal suo sguardo il sarcasmo sconfinato di cui è capace. Il suo stile è, infatti, disinibito e tale da raccontare la società moderna così come è, senza mezze misure e senza tanti giri di parole. In altri termini, alla vista di quelle fotografie, Koch appare come il pazzo a cui spesso gli autori fanno ricorso per dire cose che, altrimenti, sarebbe sconveniente rivelare; con l’unica, ma sostanziale differenza, che, in questo caso, il cosiddetto pazzo non è un protagonista della storia, ma il suo stesso autore.
Naturalmente, le mie parole non vogliono contenere nulla di offensivo, ma vogliono essere un plauso semmai ad una personalità talmente sicura e penetrante da riuscire a liberare la realtà persino dalle più piccole ipocrisie in cui ci troviamo tutti quanti immersi e delle quali abbiamo finito per non renderci più conto.
Villetta con piscina” è una prova lampante della personalità di chi lo ha concepito.
Il protagonista, Marc Schlosser, è un medico che recita, nel vero senso della parola, la sua parte. Conosce il suo mestiere e sa, quindi, che, ad esempio, se per una visita generica occorrono pochi minuti, a volte anche un solo sguardo, invece, per far colpo sul cliente e ottenere consensi e fama, servono almeno venti minuti e, se ciò non basta, anche la necessità di spingere le proprie dita in anfratti del corpo di certo poco eleganti. In tal modo il paziente ne risulterà entusiasta!
Marc racconta in prima persona la vicenda che ha maggiormente segnato la sua famiglia a far data da quando ha cominciato a frequentare un suo assistito, l’attore Ralph Meier, e sua moglie Judith. Può dirsi che il romanzo sia tutto una grande analessi (o, se si preferisce, un unico grande flashback), dato che i fatti sono avvenuti tutti prima di essere raccontati ed ora il narratore li sta rielaborando per una propria finalità strumentale. Infatti, Marc è stato convenuto innanzi alla commissione medica per rispondere della morte di Ralph Meier, dovuta alla degenerazione di una malattia che, presa in tempo, poteva essere curata. A lui, in sostanza, si imputano colpe che vanno ben oltre il mero errore medico.
Il racconto riporta i momenti di svago apparente che Marc e la moglie Caroline, con le figlie, Julia e Lisa, hanno trascorso l’estate precedente con i Meier e i loro figli, Alex e Thomas, ed in compagnia dell’amico regista Stanley Forbes e la sua giovanissima amante, Emmanuelle. Lì, trovano posto la fiducia tra coniugi e il tradimento, l’amore per i figli e la difficoltà di stabilire un contatto con loro, la cura dei propri cari e il desiderio di vendetta, ma sopra ad ogni cosa, domina la scena l’inclinazione umana a nutrirsi di apparenze.
Ralph si presenta agli occhi di Marc come un maniaco sessuale, Stanley un approfittatore del suo ruolo di cercatore di talenti, i figli tutti troppo piccoli per essere lasciati da soli, ma troppo grandi da risultare persino affascinanti agli occhi degli adulti o, peggio ancora, in certi casi, oggetto del loro desiderio. Caroline, Judith ed Emmanuelle impersonano il ruolo delle mogli felici, con nel cassetto, però, il sogno di trovarsi un amante che le possa capire.
E’ difficile aggiungere un pezzo in più, sia pur microscopico della trama, perché rischierebbe di rivelare la suspense che l’accompagna. L’autore, infatti, è stato tanto bravo da riportare, nelle prime pagine, l’epilogo della fabula, dedicandosi poi, nell’intera parte restante del libro, a scandagliare gli antefatti, prendendo spunto un po’ dagli avvenimenti ed un altro po’ dalle riflessioni a voce alta del suo protagonista. Tutto ciò, pretendendo una compartecipazione dal lettore implicito, al fine di poter giungere ad una conclusione che, altrimenti, si direbbe monca. Di certo, quel che si può dire, è che vi è un crescendo di avvenimenti ed un intensificarsi di fatti che tiene sempre alta l’attenzione e la voglia di sapere come andrà a finire.
Nel mio intimo sono convinto di aver letto un ottimo romanzo, come non se ne leggono di frequente. Così come - devo pur dire - ho trovato l’opera ben più apprezzabile del blasonato “la cena”, con cui l’autore si è fatto conoscere al grande pubblico e che al confronto, per quanto originale e penetrante, mi è risultato un po’ troppo artefatto e lento.

venerdì 11 novembre 2011

Brunonia Barry, “La ragazza che rubava le stelle”.

A quasi un anno dalla pubblicazione in Italia (ch’era stata del 25 novembre 2010) del nuovo romanzo di Brunonia Barry, quello che, per intenderci, è seguito a “la lettrice bugiarda”, che tanto aveva già fatto parlare di sé l’autrice, ho deciso anch’io di leggere “la ragazza che rubava le stelle”. Tanto ha venduto il libro e quindi, implicitamente, s’intende che tanto sia piaciuto, che in meno di un anno è già uscita la sua edizione economica (che poi è quella che ho acquistato io). Persino io, prima di leggerlo, ne ho regalato una copia ad una persona cara, sicuro di farle cosa gradita.
Ora, purtroppo, non mi rimane che contenere la mia delusione.
Zee è la protagonista del romanzo. Dal titolo e dalla lettura della trama che si legge sul risvolto di copertina, pensavo di immergermi in un’opera, magari non necessariamente profonda, ma di sicura suggestione. Non la riporto qui per esteso, ma voglio sottolineare a chi la sta già andando a cercare altrove (in mille e più siti internet, ad esempio) che, dopo il nome di Zee, risaltano le parole notte, silenzio, baia, molo, mare e, soprattutto… stelle, termine che ricorre anche nel titolo. Stride un po’, è vero, con la suggestione che tutti questi termini suscitano, il riferimento agli studi di psicologia di Zee, ma quando si legge che “il suicidio di Lilly Braedon, una delle pazienti più difficili di Zee, che ora fa la psicoterapeuta, la costringe a fare ritorno… al suo passato irrisolto”, sembra di potersi scorgere una porta aperta per immergersi interamente in quel mondo di sogno fatto, appunto, di notti, silenzi, baie, moli, mare e… stelle.
Invece, così non è. Anzi, a dirla tutta, per tutta la prima buona metà, se non per più, il libro è una specie di trattato di psicologia, peraltro anche un po’ lento e farraginoso, offerto al lettore in forma romanzata: Zee si interroga, anche con l’aiuto della sua capa, Liz Mattei, sul male che affligge Lilly Braedon, riscontrandone analogie con quello che aveva indotto la sua stessa madre, Maureen, al suicidio. Si convince così che quel caso clinico le potrà dare molte più risposte sulla sua vita e su quella di sua madre di quante non ne abbia ottenute dagli altri parenti e in particolare dal padre, Finch. A proposito di Finch, dopo la metà delle pagine, comincia ad assumere importanza la sua figura. Quest’ultimo, infatti, risulta affetto dal Parkinson ad uno stadio avanzato e Zee sente di dovergli stare vicino, pur se il momento della sua vita è davvero critico: sta per sposarsi con Michael e nel frattempo Lilly Braedon si è tolta la vita.
Da questo momento, inizia un vero e proprio nuovo romanzo. Anzitutto, con una semplicità quasi disarmante, si scioglie il rapporto con Michael e Zee intraprende una nuova storia sentimentale con Hawk, un uomo misterioso che, altrettanto misteriosamente, ha a che fare con Lilly Braedon. Poi, si avvicina sempre di più la figura di Melville, che fino a qualche tempo prima, era stato il fidanzato convivente (gay, evidentemente) di Finch e a cui Zee è sempre stata molto legata. Il tutto, come stavo accennando, però, ruota attorno a Finch, che ha bisogno di cure e dal quale Zee non si può allontanare tanto. Questa vicinanza, o forse è meglio dire, questa permanenza forzata nella vecchia casa paterna la porterà a dare un senso nuovo alla sua vita, forse anche un senso che aveva perso (come le stelle nel firmamento) o che non era mai riuscita a comprendere veramente.
L’unico merito del libro va dato alla trattazione, o tecnicamente, all’intreccio del romanzo, il quale, pur non brillando per estrosità, sembra rispondere a dei parametri matematici così perfetti da lasciare scorrere la lettura con morbidezza, nonostante il frequente uso di flashback e digressioni, ancorché non sempre necessari. A tempo debito affiorano azioni complicanti, che trovano soluzione col giusto ritmo e senza richiedere eccessive suspense. Inoltre, a ciascun personaggio è attribuito un ruolo che va a confluire in un unico finale, senza che ad ognuno di essi venga riservato un sia pur piccolo spazio per godere della propria unicità. Ma d’altra parte, dalla biografia dell’autrice si apprende che ha studiato, fra l’altro, scrittura creativa al Green Mountain College e nell'Università del New Hampshire e, perlomeno gli studi, dimostrano di esserle serviti a qualcosa.
E’ un libro che può certamente piacere ai tardo-adolescenti, in particolare a quelli che cominciano ad interrogarsi sull’origine del loro modo di essere.

venerdì 28 ottobre 2011

Santiago Gamboa, “Morte di un biografo”.

Un libro singolare, certamente, l’ultimo di Gamboa. Originale, se non nel genere, quantomeno nella trattazione. Sembra che l’eccesso di fantasia dell’autore abbia trovato sfogo fra le sue pagine, anche se dopo l’ultima, quando il frastuono rimbomba ancora nelle orecchie come una eco vicinissima, si comprende bene che ha ancora tante e tante pagine da colmare.
Superficialmente si direbbe che la trama è costituita da alcune storie che s’intrecciano, ma non è così. In realtà, in una parte del libro vengono raccontate, nel senso più puro del termine, alcune storie da altrettanti narratori; storie che, però, rimangono compartimenti stagni, con l’unica eccezione che, per un gioco dell’autore, tutti i loro protagonisti, chi prima e chi dopo, si ritrovano a mangiare un sandwich di pollo ed una coca light.
Un romanziere, che non pratica più la sua arte a causa di una grave malattia che lo ha tenuto fermo per due anni, viene stranamente invitato ad un congresso di biografi. Lui non ha mai rappresentato la vita di nessuno, ma decide di andare lo stesso. Il luogo del convegno è un albergo di Gerusalemme che offre ai suoi ospiti una grande accoglienza, anche se da fuori si ode sempre più vicino il ruggito di una guerra fra civiltà che non finirà mai.
Lì si incontrano i personaggi più singolari che accettano di raccontare le proprie storie vere, o quelle da sé conosciute, alla platea degli intervenuti. Fra le storie ci sono quelle di una pornostar italiana, quelle di due incalliti giocatori di scacchi avulsi dalla società, di un meccanico colombiano che, dopo essere rimasto vittima della malavita organizzata, decide di vendicarsi contro i suoi carnefici. E, poi, infine, c’è la storia di un pastore evangelico, José Maturana, un uomo dalle sembianze di un culturista rozzo e pieno di tatuaggi che, poco dopo aver narrato la sua singolare odissea che lo ha condotto dalla strada alla cabina di regia di un nuovo ordine religioso, muore in albergo in circostanze singolari.
In effetti, tutto lascia pensare che Maturana si sia tolto la vita, ma il protagonista della storia, il romanziere non biografo fermo ormai da tempo, non ne è del tutto convinto e, con l’aiuto di una giornalista, anch’essa con la sua storia, tutta da far nascere, e di un impiegato dell’albergo, indaga su ciò che di sé Maturana non ha detto o ciò che ha artatamente falsato. Forse in lui, infatti, sta tornando lo stimolo per la scrittura e, chi lo sa, forse sta nascendo l’ispirazione per la sua prima biografia.
Non è un noir né tantomeno un thriller o un poliziesco, ma incarna in sé un po’ dell’uno e un po’ dell’altro genere. Non è nemmeno un libro sulla guerra in Palestina o, più in generale, sugli orrori e le miserie della prevaricazione del più forte sul più debole, come non lo è sullo spirito umano e sull’importanza e la prevalenza dei sentimenti sui beni materiali. Eppure, il libro suscita riflessioni anche su questi temi. Io l’ho trovato bellissimo da leggere, mai stancante, anzi appassionante e, a tratti persino divertente. Sono rimasto affascinato dalla capacità dell’autore di dar voce a più personaggi per far loro raccontare la propria storia, col proprio linguaggio e i propri ritmi, e poi anche dal suo spirito apparentemente distaccato nel rappresentare la crudeltà che può presentarsi ogni giorno dietro l’angolo. Tuttavia, per i miei gusti personali, mi sarebbe piaciuto trarre in conclusione una morale più marcata.

mercoledì 19 ottobre 2011

Karl Ove Knausgard, “La mia lotta - vol. 2”.

Knausgard è tornato a parlare di sé. Lo aveva già fatto, concentrandosi nel rapporto avuto con il padre e le possibili conseguenze che aveva avuto nella sua vita. Ora la sua attenzione si è spostata al rapporto in essere con l'intera famiglia, quella costituita dalla seconda moglie e i figli, e con gli amici.
Ma la grande attesa che aveva preceduto l’uscita del secondo volume della mia lotta non è stata ricompensata. Devo dirlo subito. A malincuore.
Forse anche per questo non mi esalterò, come spesso faccio in queste pagine, a parlare dell’ultimo libro letto, perché non posso compiacermi col suo autore per avere portato al termine un’opera esemplare o, comunque, degna del suo nome, ma neanche sollevare una vera e propria critica.
Mi spiego meglio. Quel che nel primo volume era apparso maggiormente apprezzabile era il modo in cui l’autore era riuscito a fare emergere, e pure in maniera dolce ed apprezzabilissima, la sua filosofia di vita, non la sua vita né il suo modo di pensare o di apparire, quanto il filo di fondo che collega ogni suo modo di essere. Nel secondo volume, invece, tutto ciò non solo viene offerto con minore delicatezza, sembrando in certi casi, anzi, di assistere al vanto di Knausgard di essere tanto modesto, ingenuo, in un certo senso anticonformista e persino a volte burbero e insopportabile, ma a tratti persino l’idea di fondo, quella di cercare sé stesso e di farsi trovare (ch’era quasi poetica e amabile) si perde in rigagnoli sempre più abbondanti di dettagli sui fatti contingenti.
Mi si dirà che tutto ciò non risponde al vero e che, anzi, il secondo volume accentua l’aspetto interiore. Io sono del parere, però, che chi si attesti su queste convinzioni non ha di certo valutato che, nel primo volume, l’interiorità dell’animo non si apprende dalle parole espresse, ma si scova fra le righe, si desume da un contesto a volte anche molto complesso lungo decine e decine di pagine, mentre qui, nel secondo, viene apertamente rivelato senza neanche troppi giri di parole. E che, anzi, qui, le parole, le tante parole, si risolvono in un interminabile sproloquio senza soluzione di continuità, che stanca il lettore in quasi seicento lunghissime e fittissime pagine che non vengono nemmeno intervallate dalla divisione in capitoli.
Certo, non mancano i momenti più significativi ed evocativi d’uno stato d’animo che fanno tornare ad amare Knausgard, ma nel complesso risultano un po’ pochi o si nascondono fin troppo bene in un “sentire comune” che chi non appartiene alle popolazioni dell’estremo Nord Europa può solo appena percepire ovvero ancora subiscono l’inevitabile limite connaturato alle opere ricomprese sotto il comune denominatore di sequel.
Nel complesso, giudicherei il libro e il suo autore “rivedibili”, se non altro perché, dopo un inizio brillante e la prospettiva di altri quattro volumi al completamento dell’opera non può certo darsi un giudizio affrettato.

venerdì 30 settembre 2011

Siba Shakib, “Il sussurro della montagna proibita”.

L’egemonia conquistata da alcuni stati nel corso del ventesimo secolo, lo sappiamo tutti, è il frutto principalmente dello sfruttamento delle colonie e dell’ingerenza approfittatrice in paesi terzi. La splendida storia narrata nel sussurro della montagna proibita descrive la presa di coscienza da parte del popolo iraniano dell’uso distorto, egoista e usurpatore che proprio quei paesi, quali l’Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti d’America, hanno perpetrato in suo danno.
In realtà, la storia si presenta come un appassionante romanzo d’avventura che narra la lunga intera vita del suo protagonista principale, un uomo di origini umili e senza una prospettiva migliore di fare il servo della gleba, Eskandar. Egli nasce in un villaggio così povero del sud dell’Iran che non ha nemmeno un nome. E’ il 1901. Ancora giovanissimo, Eskandar si rende conto che il suo villaggio non è com’è rappresentato nei racconti degli anziani, ossia florido e con un fiume che lo attraversa; anzi, proprio la penuria d’acqua rischia adesso di farlo scomparire. Gli animali muoiono, i bambini si ammalano, le piante non crescono e il re sembra disinteressarsi di tutti questi problemi. Dapprima, gli abitanti del villaggio riferiscono la colpa della carestia e della miseria a sé stessi, dato che pensano che sia una punizione di Dio. Poi, solo dopo che, violando i precetti dei religiosi, Eskandar scala la montagna proibita e scopre che sul suo altopiano i farangi, ossia gli stranieri, stanno scavando buche ed hanno acqua e cibo a volontà, tanto da darne ai propri cani, si scopre che il vecchio fiume è stato deviato e che le cause della loro carestia proviene proprio da lì. Chi ha dato il permesso ai farangi di scombussolare l’equilibrio naturale nel quale era ricompreso il villaggio di Eskandar è il re, il quale, si è solo illuso di potere riceverne benefici, mentre, di fatto, è il primo degli sfruttati. Sull’altopiano della montagna proibita, vicino Abadan, nel sud dell’Iran, infatti, gli Inglesi hanno trovato il più grande giacimento di petrolio fino ad allora conosciuto, fondando l’Anglo-Iranian Oil company. Compagnia che di inglese ha le macchine e le risorse economiche e di iraniano la sola forza lavoro sottopagata. Inizia qui la vera avventura di Eskandar, che diviene dapprima amico per necessità dei farangi, per poi discostarsene e finire per odiarli, man mano che, nel corso della sua vita assume la consapevolezza di ciò che fanno ai danni del suo paese. Quelli, infatti, pur di ottenere per sé l’oro nero, hanno plasmato le genti in modo da farsi amare o da metterle in lite, al fine di fungere da liberatori, da guaritori delle lotte intestine. In ciò, peraltro, godendo dei favori dell’Iran stesso, per combattere il “nemico comune” per eccellenza, la Russia, anch’essa interessata ai giacimenti di petrolio. Eskandar fugge, diventa ricco, entra nelle grazie dei potenti e finisce di nuovo povero, in un divenire continuo in cui, da giovanissimo, diventa giovane, maturo, e poi anziano e stanco. Nella sua vita fa il cantastorie, mille mestieri artigiani, il fotografo e l’impiegato negli uffici di governo e persino la spia, ma quel che accompagna tutta la sua crescita sono le storie che la gente vive giorno per giorno; le storie che spiegano come l’ignoranza del popolo ha reso l’Iran succube dei paesi evoluti ed economicamente forti; le storie di un popolo che pur umiliato, sfruttato, involgarito dalle influenze esterne, imbarbarito dalle guerre alimentate da paesi stranieri per un suo esclusivo tronaconto, ha avuto sempre una grande coscienza sociale, ha sempre saputo rialzarsi e credere di potere ottenere la libertà, un governo ed un’economia propri; le storie che lui custodisce gelosamente, dopo averle scritte e rappresentate con fotografie, “affinché la memoria non venga perduta”, e che lascia in eredità ai suoi discendenti, perché sappiano bene da dove vengono e da chi si devono guardare. Intorno agli anni ‘50, quando sembra che il sogno iraniano diventi realizzabile, però, si profila all’orizzonte la più grande minaccia abbia mai subito: il sopraggiungere sulla scena degli Stati Uniti d’America.
Un libro già scritto nella storia, ma abilmente rappresentato dall’autrice. Encomiabile il modo di entrare nel vivo dell’animo del popolo iraniano attraverso la vita privata del protagonista, le difficoltà personali incontrate nel sentiero della vita, le conversazioni con la moglie, la figlia, la nipote, gli amici. Sullo sfondo le notizie vere di cronaca in cui si avvicendano il violento Reza Khan, il disgustoso Churchill, l’apostolo Truman, il pianificatore Roosevelt, il fantoccio Reza Pahlavi, il rivoluzionario Khomeyni e il presidente senza scrupoli, Bush.

martedì 20 settembre 2011

David Nicholls, “Le domande di Brian”.

Dopo la pubblicazione in Italia di “Un giorno” (che io ho recensito in questo blog), quest’anno, la Beat Edizioni ha pensato di fare un regalo al pubblico italiano andando a rispolverare il romanzo di esordio di David Nicholls, dal titolo “Starter for ten”, uscito per la prima volta nel Regno Unito nel 2003. A quasi un decennio di distanza, dunque, possiamo avere il piacere di ripercorrere i primi passi di un autore che, se non è ancora considerato fra i grandi, certamente lo sarà presto.
Il libro, in Italia, è stato intitolato “Le domande di Brian” ed è un regalo, davvero, assai gradito. Brian è un giovane studente al suo primo anno di università. Orfano di padre e figlio unico di una madre molto apprensiva, ha grandi aspettative dalla sua esperienza nel nuovo ciclo di studi; aspettative che non riguardano solo il raggiungimento della laurea ed una conoscenza più elevata, ma che interessano specialmente la sua sfera privata, il modo di stare al mondo e di confrontarsi con gli altri. E’ il 1985 in una Inghilterra in cui, oramai, messa alle spalle persino la guerra nelle Isole Malvine (per i filobritannici, nelle Falkland), la preferenza per l’uno o per l’atro partito politico comincia ad apparire più una presa di posizione fine a sé stessa che non l’adesione ad un vero ideale nel quale riconoscersi e col quale schierarsi proficuamente. I giovani universitari, però, sentono molto il senso dell’appartenenza e si identificano con i conservatori o coi liberali, confrontandosi in una dialettica fin troppo spesso piena di ipocrisie, che li contrappone. Essere moderati, o ancor meglio, com’è nel caso di Brian, degli indecisi (o degli imbranati) può significare trovarsi nel mezzo, ossia fuori luogo e incapaci di essere ascoltati. Lo stesso avviene per chi, come ancora una volta Brian, nel rapporto con l’altro sesso, ha raggiunto la maturità senza avere alle spalle un sufficiente bagaglio di esperienze. Gli altri sembrano tutti consci sul da farsi, aderendo ad uno o ad altro modo di essere, mentre chi è rimasto indietro non può che fare affidamento sulle sue sole forze per riemergere e riportarsi alla pari con gli altri. Nello sforzo di comprendere il mondo che lo circonda, di non volere deludere chi gli sta a cuore né fare salire nessuno in cattedra, Brian completa il suo processo di maturazione, verificando però sul campo che il cammino verso una nuova fase della vita, non solo è difficile, molto più difficile di quanto non abbia immaginato prima, ma rischia anche di rendere vano quel tanto o quel poco di buono che ha creato fin lì.
Chi ha già letto “Un giorno” ritroverà lo stile inconfondibile del suo autore, senza peraltro doversi accontentare del linguaggio più farraginoso o meno eloquente tipico di uno scrittore ancora incapace di sfruttare al meglio le sue doti. L’opera anzi, si caratterizza per la completezza e l’accuratezza dei particolari ed è dotata, se vogliamo, anche di una raffinatezza che è generalmente tipica di chi conosce bene la sua arte e la sa trattare con disinvoltura.
Inoltre, e soprattutto, ritroverà la capacità di Nicholls di saper far crescere i suoi personaggi, descrivendo il divenire dei caratteri che sono loro propri. Del resto, questo è il romanzo di un’evoluzione, di una crescita interiore, di un confronto con la realtà nel quale un passo avanti in una direzione può dire farne due indietro in un’altra e viceversa. Direi che è la perfetta opera anticipatoria di “Un giorno”, la bozza (perfettamente riuscita) di un’opera ancor più grande e di più difficile composizione.
Quale opera introspettiva, “Le domande di Brian” non poteva che essere narrata in prima persona dal suo protagonista, al quale l’autore, che per lui ha strategicamente pensato, con effetto, al tempo presente, fa recitare la parte con numerosi discorsi diretti, frammezzati da manifestazioni interiori del pensiero, il più delle volte dubbi, che però non si succedono mai in maniera convulsa. Gli altri personaggi entrano nella scena o perché si esprimono anche loro in maniera diretta o perché Brian li ritrova dinanzi a sé e ne interpreta gli atteggiamenti.
Ironico, a tratti persino comico, profondo più di quanto non s’immagini a prima vista e stramaledettamente vivo, è un libro che consiglio a tutti, soprattutto perché, voltata l’ultima pagina, chiunque non può trovarsi che a riflettere su quanto di Brian c’è in sé.

giovedì 15 settembre 2011

Vanessa Diffenbaugh, “Il linguaggio segreto dei fiori”.

In testa alle classifiche dei libri più venduti in questo periodo c’è il romanzo d’esordio di una tal Vanessa Diffenbaugh, dal titolo “il linguaggio segreto dei fiori”.
Forse neanche la scrittrice se lo aspettava, ma prima ancora dell’uscita, avvenuta in contemporanea mondiale lo scorso 5 maggio, si era intuito che il libro avrebbe avuto un enorme successo, per la felicità soprattutto delle case editrici che sono riuscite ad aggiudicarsene i diritti. Purtroppo (o per fortuna?) anche il mondo della letteratura è fatto così: quando un prodotto (che nel nostro gergo diremmo opera letteraria) mostra di avere le credenziali per piacere al grande pubblico (o per meglio dire, al lettore medio che non vuole faticare ad entrare nella mente dell’autore, per carpirne il pensiero) e, soprattutto, possiede quel tanto che basta per dare l’illusione di leggere una grande opera, lo spirito imprenditoriale dei produttori di carta stampata si esalta fino al punto da creare esso stesso arte. L’arte più ammaliante e persuasiva che esista: la pubblicità. Il linguaggio segreto dei fiori è un caso letterario. La sua uscita (ripeto, in contemporanea mondiale) ha costituito un evento. E tutto ciò grazie a chi per primo ha avuto l’intuito di poter suggerire (alla sua maniera) di leggere un libro di sicuro piacere ad un numero sterminato di persone. Io sono quel che ho donato, diceva il poeta soldato. Ma loro non donano niente a nessuno. Loro vendono. E quindi sono quel che hanno venduto. Dunque, adesso, sono ricchi e festanti.
Chissà cosa pensava l’autrice mentre si dedicava alla scrittura del linguaggio segreto dei fiori? Io la immagino a rubacchiare spunti un po’ di qua e un po’ di là, ad attingere dalle esperienze di vita vissuta e a mescolare il tutto con pazienza e molta fantasia. Il risultato, del resto, è un mix perfetto di psicologia spiccia e sociologia mistificata destinato inesorabilmente, dopo un ampio peregrinare, verso un lieto fine all’americana.
Mi sento, è vero, un po’ come un pesce caduto nella rete, pur dopo averla vista in lontananza ed aver tentato di evitarla. Ma visto che ci sono, e che nella lettura ho riversato anche una buona dose di interesse, non posso adesso che dirvi gli aspetti che me l’hanno fatta piacere.
Intanto, se dovessi conferire un premio a quest’opera-prima glielo darei per l’originalità. Accanto al caso umano che è Victoria, la protagonista, incapace di relazionarsi col prossimo e che a diciotto anni deve lasciare la casa famiglia in cui ha da sempre vissuto; eccetto il vaghissimo monito sociale rivolto contro un sistema di gestione dei minori orfani o abbandonati assolutamente indecente; viste e riviste le storie d’amore e di amicizia che cominciano col piede sbagliato e che col tempo si aggiustano per poi solidificarsi; infatti, in questo libro, spicca l’attenzione verso il significato che, in epoca vittoriana, era stato attribuito alle piante e ai fiori in particolare, ma che poi col tempo è andato dimenticato. E’ ciò ad essere originale. Tutti i protagonisti della storia sono dei veri amanti dei fiori e, si può dire, la loro vita ruota attorno ad essi e si consuma e si trasforma grazie ai fiori. Grazie soprattutto al fatto che hanno capito l’importanza del messaggio che ogni bocciolo, ogni ramo d’albero o ogni corteccia reca con sé.
Victoria, ad esempio, non è incapace di amare, ma sa farlo solo alla sua maniera e, dato che non si è mai raffrontata con la società, le manca l’esperienza giusta per far giungere agli altri il suo sentimento. Come dire, in sostanza, che le manca lo strumento indispensabile del linguaggio, della comunicazione, che troverà, però, col tempo, proprio attraverso i fiori.
Poi, devo anche aggiungere che la composizione appare esemplare e che anche lo stile si fa apprezzare, soprattutto perché la trama è narrata in prima persona da Victoria, che nel suo monologo interiore rivela la vera difficoltà ed i pericoli che corre una persona come lei. Certo, in alcune parti, specialmente verso la fine, si ha la sensazione che l’autrice abbia temuto di dare alle stampe un libro troppo scarno e che si sia affannata ad allungare un po’ il brodo. Ma, nel complesso, nonostante queste macchinazioni, chiudendosi il sipario ci si trova comunque con un sorriso convinto, in uno stato di piacevole, ma sia pur moderato, appagamento.

mercoledì 31 agosto 2011

Sara Gruen, “Acqua agli elefanti".

 Acqua agli elefanti è la rocambolesca avventura di Jacob Jankowsky, un giovane veterinario divenuto orfano al completamento degli studi, che vive la sua prima esperienza lavorativa all’interno di un circo errante, nell’America degli anni trenta, afflitta dalla grande depressione.
L’autrice afferma, nella sua nota a corredo dell’opera, di avere compiuto degli studi approfonditi sugli artisti, gli animali, gli spettacoli e più in generale sui circhi di quell’epoca e di essersi ispirata alle vicende che li hanno riguardati e che sono rimaste celebri per la loro eccezionalità, anche quando si sono risolte, a volte, in fatti drammatici. E, in effetti, non soltanto l’ambientazione ma perfino gli atteggiamenti dei protagonisti o le modalità con cui la storia si evolve, lasciano bene immaginare il clima di apparente giovialità e tensione verso la perfezione che doveva invadere i villaggi al passaggio del circo, al cospetto dei grandi dissapori e delle difficoltà economiche che si vivevano invece al suo interno.
In questo clima, Jacob vive la sua duplice personalità di uomo dallo spirito altruista e di giovane inesperto di fronte alle vicissitudini della vita, all’interno peraltro di un mondo che non è il suo, nel quale è finito per caso e dal quale non vuole più separarsi, nonostante le sue contraddizioni e le sue inspiegabili violenze. Mentre, da un lato, infatti, il circo gli offre un’opportunità di lavoro della quale potrebbe fare a meno, dall’altra, perderebbe gli amici, a cui si è stretto, gli animali, a cui si è andato affezionando e, soprattutto, Marlena, la star dello spettacolo, di cui si è decisamente innamorato. Peccato solo che Marlena è già sposata con August, che per di più è il direttore e domatore del circo, oltre che uomo tanto capace di galanterie quanto di essere spietato e senza scrupoli.
Una storia avventurosa, quanto intrigante, piacevole da leggere che passa dall’humour alla tensione in un saliscendi più che equilibrato. Bello, anche se privo di una vera e propria morale che vada oltre lo spirito americano dell’amore che trionfa sopra il male e della quiete dopo la tempesta o, se preferite, di un tanto atteso, quanto scontato, lieto fine.
Un libro così, che oltretutto già nello stile, si avvicina molto ad una sceneggiatura cinematografica, se non fosse solo che è narrato in prima persona dal protagonista principale, non poteva che finire, com’è stato, trasposto in un film, che ha preso il titolo di “come l’acqua per gli elefanti” (con Robert Pattinson, Reese Witherspoon e Cristoph Waltz. Il film io non l’ho (ancora) visto, anche se lo immagino uno di quelli con grandi coreografie, innumerevoli quantità di personaggi che vanno e che vengono in un tripudio di colori, suoni e musiche che fanno lievitare lo spirito.
Altro da dire non c’è, per un libro che vuole solo intrattenere e niente più, se non per dire che riesce perfettamente nel suo intento.

martedì 30 agosto 2011

Jane Borodale, “La ragazza del libro dei fuochi”.

In una giornata d’estate in cui il cui caldo dà alla testa, mi trovo a commentare un romanzo ambientato nella Londra del XVIII secolo, stretta nella morsa del gelo. Si tratta della ragazza del libro dei fuochi, di Jane Borodale, che è valso all’autrice il podio (ma il gradino più alto) all’Orange Prize 2010, nella sezione destinata ai romanzi d’esordio. Agnes Trussell, la protagonista, è una ragazza ancora molto giovane che ha dovuto abbandonare la sua casa del Sussex per trovare fortuna a Londra. La sua partenza ha avuto più di una ragione. In primo luogo, quella di sfuggire alla povertà e privare, così, di una bocca in più da sfamare la sua già numerosa famiglia; inoltre, quella di far perdere le sue tracce, per evitare di finire nelle grinfie della legge, nel caso in cui fosse scoperto che aveva sottratto alcune monete d’oro alla vicina di casa, dopo averla trovata morta; ma soprattutto, infine, di nascondere la gravidanza che le è stata provocata da un ragazzo pastore, che l’aveva posseduta quasi contro la sua volontà, per non venire così costretta a sposarlo e passare la vita con lui.
Nella grande città, non senza fingere sulle sue origini e sulle sue condizioni di provenienza, Agnes riesce a trovare presto una sistemazione ragguardevole, come apprendista, presso John Blacklock, un fabbricatore di giochi d’artificio. Blacklock, com’è chiamato, col suo cognome, è un personaggio singolare e misterioso che, pur nei suoi silenzi e segreti ben celati, le fa da maestro, da guida spirituale e forse anche da padre. Ciò, naturalmente, oltre a garantirle un vitto, l’alloggio e uno stipendio. In tutto il periodo che vive al fianco di Blacklock e delle sue tre domestiche, Agnes tiene nascosta la sua gravidanza, sebbene, col tempo, le risulti sempre più difficile. Per questo motivo, cerca di pianificare un modo per evadere, sia pur a malincuore, dal mondo che l’ha accolta, fallendo però ad ogni suo tentativo. D’altra parte, al di là delle circostanze sfortunate che non fanno andare in porto i suoi piani, quel che finisce maggiormente per trattenerla è il desiderio crescente di conoscere i segreti dei giochi pirotecnici creati, inventati, studiati e sperimentati dal suo mentore. L’obiettivo di quest’ultimo, e poi anche il suo, è infatti quello di dare colore ai fuochi sparati in aria, e con esso conferire a chi li osserva le suggestioni che gli stessi sanno evocare.
Dal 1996, l’Orange prize celebra - come si legge nel sito ufficiale - l’eccellenza, l’originalità e l’accessibilità ai componimenti letterari delle donne di tutto il mondo (che siano però pubblicati almeno nel Regno Unito) e il libro esordio della Borodale è senz’altro originale e sicuramente ottimo da un punto di vista linguistico. Anzi, proprio la disinvoltura dimostrata nel linguaggio adoperato, unito ad uno stile narrativo piuttosto elegante (per un autore esordiente), costituiscono il motore del romanzo, offrendo così al lettore interesse verso una storia che, per contrapposto, manca di veri colpi di scena o di un sufficiente susseguirsi di eventi che gli diano movimento, non essendo peraltro nemmeno ricco di introspezioni o ampie descrizioni ambientali. Quel che difetta, invece, è il carattere dell’eccellenza ricercato dal premio sfiorato, a parer mio perché manca di una vera e propria morale, concentrandosi piuttosto sulla fluidità di una trama che restituisce, infine, al lettore tutto ciò che, sin dalle prime pagine, si immagina di vedere realizzato. Come dire, in sostanza, che è una bella lunga storia, che fa compagnia e che intrattiene piacevolmente il lettore, ma senza la pretesa di volere essere ricordato.
In sintesi, è un romanzo che ha fascino, che appare scorrevole ed è piacevolissimo; ma anche un romanzo che sembra la perfetta esecuzione del compito in classe della ragazza di primo banco, quella che è sempre stata attenta alle lezioni di componimento, ma che all’atto pratico non è stata così rilassata da tirar fuori tutto ciò che aveva da esprimere. Il voto, più di stima che di merito, è un sette più, perché l’impegno è stato ben dimostrato, ma soprattutto perché rivela tutta la stoffa che ha ancora da sfoderare la sua giovane autrice.

domenica 14 agosto 2011

Mario Vargas Llosa, “Il sogno del celta”.

La storia è costellata di eroi che il tempo tende a far dimenticare, specialmente quando sono divenuti tali per aver smascherato le violenze e i crimini di chi si è arricchito dando ascolto esclusivamente alla propria cupidigia. Perché, in tali casi, al primo presunto passo falso dell’eroe, colui che è stato smascherato torna a farsi più forte di prima, gettandogli addosso discredito, fomentando i dubbi sulla sua moralità e, soprattutto, sulla veridicità dei fatti rivelati, al fine di riacquistare, per sé stesso, l’onore e il prestigio persi.
Un esempio di ciò, tanto drammatico quanto intenso e straordinariamente rappresentato, ce lo da Vargas Llosa nel romanzo dato alle stampe dopo aver vinto il premio nobel per la letteratura, “il sogno del celta”.
Qui si narra la vicenda vera, ambientata nei primissimi anni del ‘900, di Sir Roger Casement, un diplomatico inglese, di origini irlandesi, divenuto sir proprio grazie al grande servigio reso alla corona britannica. Egli, infatti, di ritorno da una missione nella colonia belga del Congo, aveva rivelato le atrocità che si compivano in Africa ai danni delle popolazioni indigene, le quali venivano costrette sotto la minaccia di pene corporali, che il più delle volte venivano applicate, a raccogliere la resina per la produzione del caucciù, per conto di Leopoldo II del Belgio. Inoltre, aveva portato un rapporto analogo, se non anche più demoralizzante, per le crudeltà descritte con lucidità e completezza di dettagli e prove, dalla Foresta amazzonica ove, una compagnia, questa volta privata, ma di provenienza inglese, i cui soci erano tutti nobili e rispettabili uomini d’affari, era persino riuscita a insediarsi in tutte le istituzioni pubbliche, se non anche religiose, al fine di estrarre e rivendere il caucciù nella più completa impunità, adottando metodi brutali che vanno oltre ogni umana immaginazione, per ottenere il massimo rendimento con la minima spesa.
L’eroe Casement, forse, sarebbe rimasto tale se le esperienze in Congo e in Amazzonia non gli avessero fatto rivivere la propria condizione di irlandese vittima del colonialismo inglese e, nella sua veste di diplomatico, per ironia della sorte, di pedina forte del governo oppressore, seppur incapace di far valere i propri ideali e il proprio orgoglio nazionalistico. Per tale ragione, infatti, all’alba della prima guerra mondiale, allo scopo di liberare l’Irlanda dalle maglie inglesi, strinse accordi fatali con la Germania, col risultato di venire impiccato per sovversione, non prima, peraltro, che a suo carico venissero mosse una serie di accuse (sulla cui veridicità ancor oggi si discute) che avrebbero riportato la sua immagine al di sotto della comune rispettabilità.
La storia, dicevamo, è fatta di eroi che si dimenticano ma anche di malfattori che si vogliono dimenticare. Quel che resta di certo sono gli scontri fra il bene e il male, sollevati dall’una e dall’altra parte, ed il continuo divenire di queste due forze contrapposte nel quale, attraverso aggiustamenti, leggi, conquista di nuovi ideali, pronunciamenti di principi morali, movimenti culturali e così via, ma anche, purtroppo, grandi ipocrisie ed interessi di potenti che sembrano essere intoccabili, a volte ci sembra di aver compiuto degli enormi passi avanti e volte ci sembra di essere rimasti fermi all’era della pietra. Questo è quel che insegna lo splendido romanzo, lasciando solo intravedere, con una delicatezza che solo una mente superiore alle altre è capace di elaborare, che persino chi viene riconosciuto come un eroe, è pur sempre un uomo, come tutti gli altri, e come tale offre il fianco alle sue debolezze e rischia di non piacere ai propri stessi amici, in forza di un sogno che per lui vale tutta l’esistenza.
Il sogno del celta è un’opera magistrale, evocativa, capace di farti sentire parte della scena e di volere scendere in piazza a combattere tutte le ingiustizie sociali e a volere gridare che le ipocrisie ci stanno sopraffacendo più della violenza di chi se ne serve. Mentre leggevo, pensavo ad esempio ai milioni di cinesi che, ancor oggi, in pieno XXI secolo, lavorano in spesso in condizioni disumane, senza le dovute remunerazioni o assistenze, nell’interesse di società originarie di paesi in cui le leggi aborriscono il trattamento a cui sono condannati quegli uomini. Ci pensavo perché sono un fatto noto, a fronte di mille altri solo ipotizzabili, che non vengono contrastati e che continueranno a vivere finché la legge dei potenti non verrà soppiantata dagli ideali delle grandi masse. Il libro è un tassello che milita per questi ideali.

martedì 9 agosto 2011

C.W. Gortner, “Le confessioni di Caterina de’ Medici".

Caterina de’ Medici, la nobile fiorentina vissuta nel XVI secolo, divenuta sposa di Enrico II di Francia e rimasta vedova sin da giovane è raccontata in chiave rivalutativa nel nuovo romanzo dell’autore spagnolo C.W. Gortner. La sua figura, infatti, viene generalmente ricordata come quella di una monarca austera, dedita alla stregoneria e soprattutto sanguinaria, che, essendosi trovata a reggere il potere al posto dei figli, succeduti al padre in età che non gli consentiva di governare, ha approfittato della posizione assunta per perseguire scopi personali, in modo affaristico, egoistico e insensibile alle necessità del popolo. In particolare, la si ricorda per essere stata, nel periodo sanguinoso caratterizzato dagli scontri di religione fra i cattolici e gli ugonotti, come parte, se non persino mandante, della strage passata alla storia col nome della Notte di San Bartolomeo. Così, però, non è nel romanzo in cui, grazie una chiave di lettura diversa, la sua figura viene decisamente redenta e dipinta, anzi, come una delle più eminenti e simboliche dell’epoca.
Forse anche per queste ragioni, gli amanti della storiografia troveranno “le confessioni” un libro ricco di imprecisioni, lacunoso, forzato e certamente inutilizzabile ai fini storicistici. E’ pur vero, tuttavia, che manca del tutto la pretesa di offrire al lettore un’opera che, pur riecheggiando nel suo sfondo avvenimenti realmente accaduti, si definisca storica, mirando semmai ad ammantare, anzi a mescolare, la finzione con fatti veri, ancorché reinterpretati, al fine di rendere al tempo stesso un racconto plausibile e più interessante. La miglior dimostrazione di ciò è data dal fatto che la narrazione è lasciata in prima persona alla stessa Caterina de’ Medici, come se, cioè, quest’ultima si raccontasse in un suo diario personale, che sarebbe ora stato riscoperto e dato alle stampe. E, nel diario immaginario di Caterina de’ Medici quel che si legge sono soprattutto i moti dell’anima, i proponimenti, le sensazioni, le aspirazioni, i sogni o le delusioni vissute dalla sua (immaginata) autrice, mentre gli avvenimenti che hanno riguardato la sua persona e il ruolo che la stessa assunse in Francia e nel contesto europeo figurano come la causa o la conseguenza di quegli stati d’animo.
In tal modo, nelle memorie di Caterina, sono rievocati i patti di alleanza strategica per il controllo del territorio intessuti da prìncipi, re e altri nobili di alto lignaggio, che - ove le mere promesse non bastano a farli nascere - sono suggellati da matrimoni combinati tra i loro successori, pur se in età adolescenziale. Poi, si ritrovano l’odio e l’inaudita violenza insorti fra i seguaci della Chiesa di Roma e i seguaci del pensiero di Calvino, sottolineandosi nei patimenti di Caterina, come (ancor oggi, ahimé avviene) le divergenze religiose vengano strumentalizzate da chi tiene in mano le redini del potere, a suo esclusivo uso e consumo, anche semplicemente allorché i buoni propositi comportino un tale sacrificio personale che, alla lunga, non può più tollerarsi. E, infine, si assiste alla presenza di un potere forte, non ufficiale né formalizzato, che si pone al lato di quello, per contro, ufficiale e formale, e che è talmente influente da porsi in concorrenza con quest’ultimo, se non anche in contrapposizione, destabilizzandolo allo scopo di poterlo sovvertire.
In un libro certamente interessante, se non altro, per chi non ricorda o non conosce la storia o vuole semplicemente rimmergersi in essa (pur con senso critico), la trattazione purtroppo appare un po’ deludente. E’ vero che all’autore sarà risultato difficile concentrare in un romanzo di poco meno di cinquecento pagine l’intera, e tanto travagliata, vita di Caterina de’ Medici, ma è anche vero che in molti tratti, che pur richiedevano (a mio giudizio) un’illustrazione appassionata o densa, il discorso fila liscio senza rispettare le naturali aspettative del lettore. Ciò, per non dire di alcune lacune, a cui forse deve rimediarsi riprendendo in mano il libro di storia, e di altre che lasciano col dubbio che l’autore, nel suo intento redentista, si sia più volte trovato ad affrontare gli ostacoli della verità storica e a superarli con mal riuscita nonchalance.
Nel complesso, il libro piace ma senza esagerare.

lunedì 25 luglio 2011

Edoardo Nesi, “Storia della mia gente”.

Edoardo Nesi si racconta nella veste di erede mancato del Lanificio T.O. Nesi & Figli S.p.a., fondato da suo nonno e dal fratello di suo nonno, poi passato al padre ad allo zio e in procinto di giungere nelle sue mani. Nella breve storia si legge dell’ascesa che fa il giovane Nesi, dopo il compimento degli studi all’estero, all’interno dell’azienda, ma anche delle ragioni che hanno portato la sua famiglia a decidere di venderla, nel momento più critico. A fianco di questa storia, racconta anche quella di tante realtà similari, di tante piccole imprese della provincia italiana che hanno saputo crearsi ed accrescersi, dal dopoguerra fino agli anni 80, prima di conoscere un destino dichiaratamente evitabile, ma storicamente inevitabile.
Col premio Strega 2011 devo stare attento, perché non posso certamente esprimermi in termini negativi, dopo che una più che qualificata giuria ha espresso il suo verdetto.
Una cosa che all’autore non piacerebbe sentir dire, però, me la voglio lasciare scappare di bocca ugualmente: il libro mi ha deluso. Almeno un po’. Ciò non vuol dire che non valga (altrimenti finirei per ricadere nel fallo che ho saggiamente evitato), ma che mi aspettavo un racconto nostalgico, anche intimo e personale, in cui le vicende vissute si sono fatte strada nella mente del loro autore in forma romanzata. E invece ho seguito con scarso interesse un appunto quasi giornalistico di un’epoca che cambia, che fa un’analisi anche non troppo meticolosa di come funzionavano le cose quando tutto andava bene e di come, a causa della globalizzazione, il mondo che pareva idilliaco, fatto di piccole aziende familiari, artigiani e industrie che si erano ingrandite con le loro sole forze, ha dovuto cedere il passo alle grandi holding o alle bassissime, e per questo più appetibili, pretese provenienti dai mercati orientali.
Ci sono, questo deve anche dirsi, alcuni (pochissimi) momenti che sanno essere evocativi di un’epoca o che lasciano filtrare elementi di lirismo nel resoconto dei fatti avvenuti, ma ciò non basta (per i miei gusti) a fare assumere al romanzo l’aspetto dell’opera esemplare.
O forse mi sbaglio.
Forse, alla mancanza stessa di aspetti emotivi e sentimentali (o, comunque, alla loro riduzione al minimo essenziale) andrebbe attribuito un significato ben preciso. Forse, l’autore, primo ed unico protagonista del racconto, nonché sua voce narrante, vuole apparire talmente afflitto dal modo in cui l’economia del paese è andata cambiando, senza che vi sia stato un solo intervento politico o sociale che ne abbia almeno combattuto gli effetti, che il suo unico interesse è di puntare il dito contro il potere o l’organismo che avrebbe potuto impedire il collasso dell’economia italiana e non lo ha fatto. Forse, quindi, in tale stato di cose, il lasciarsi prendere dalla nostalgia sarebbe apparso fuor di luogo. Forse, avrebbe contrastato troppo con lo spirito battagliero e di protesta che sembra essersi voluto sollevare.
Ma queste riflessioni, che nascono pur sempre dopo che Edoardo Nesi è salito sul gradino più alto del podio al Premio Strega, mi chiedo anche se rendano, ancorché vere, il giusto onore a un libro tanto acclamato. E’ un dubbio al quale, questa volta, non provo nemmeno a rispondere e che lascio semmai a chi vuol commentare le mie parole.
Certo è, però, che non è la prima volta che viene sollevata una protesta (vaga e impalpabile) contro chi, putativamente, avrebbe avuto il potere di fermare un processo evolutivo che ha sconvolto l’economia del mondo intero. Io per primo, ad esempio, mi trovo spesso a dare un calcio alla mentalità imperante proveniente dall’altra sponda dell’Oceano, non senza, peraltro, vergognarmene, perché conscio sia di agguerrirmi contro un concetto tanto vago e astratto da risultare indimostrabile, oltre che essere nient’affatto originale.
Più di ogni altra volta, allora, invito chiunque a leggere la “Storia della mia gente”, perché possa poi smentirmi o condividere il mio pensiero e rafforzarlo, ma soprattutto perché io possa essere spinto a rileggere un’opera che, sulla carta almeno, rimarrà alla storia tra le migliori che siano state scritte in Italia, con occhi diversi.

martedì 19 luglio 2011

Catherine Pancol, “Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì”.

Se avete molto tempo a disposizione e non siete inclini a una lettura impegnata, Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì è il libro che fa per voi. Settecentocinquantacinque pagine di intrighi sentimentali, malinconie, paure di sentirsi inadeguati ovvero eccessive fiducie nel prossimo e nel destino, dubbi che fanno perdere l’occasione giusta e rammarichi per ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto.
E’ l’ultimo romanzo di una trilogia che ha già venduto - così apprendo - milioni di copie in tutto il mondo, firmata dalla scrittrice francese Catherine Pancol. Scrittrice che meraviglia per la capacità di spendere fiumi di parole ed essere tanto dettagliata nella narrazione di vicende, pur banali o ordinarie, che impegnano i suoi personaggi.
Dico subito che il mio rammarico è di non avere letto i due romanzi che hanno preceduto gli scoiattoli (“Gli occhi gialli dei coccodrilli” e “Il valzer lento delle tartarughe”), soprattutto perché credo che oramai non li leggerò più. L’ultimo libro, infatti, richiama episodi accaduti nei primi due, togliendo così al lettore la curiosità di leggerli. D’altro canto, il suo maggior fascino risiede più nella capacità di catturare il lettore, di saperlo intrattenere, che nel messaggio che contiene o nel pensiero che vuole divulgare.
Esporre in poche righe la trama è un’impresa ardua, anche perché in verità dovrebbe parlarsi di più trame, ciascuna con una propria direttrice, che si ritrovano in qualche punto, si intersecano, fanno qualche passo assieme e poi tornano a seguire la propria strada. C’è Joséphine, ad esempio, con la sua indole serafica e pacata, che è avvinta dal sogno di potersi unire a Philippe, il vedovo di sua sorella Iris, che a sua volta indugia nel manifestare i propri sentimenti per lei e si trova legato a Dottie, quasi senza volerlo. Joséphine sta cercando di scrivere un libro per uscire da uno stato di insoddisfazione interiore, paura di affrontare la realtà. Di fatto, la sua poca concentrazione viene spesso resa vana dalle mille vicende che le capitano attorno, anche se un ritrovamento fortuito, nella spazzatura, la porterà ad affrontare il suo lavoro con un piglio diverso. Poi c’è, Hortense, che è la figlia maggiore Joséphine, che insegue il sogno di divenire ricca e famosa nel campo della moda e, quando le si presenta la possibilità di occupare due vetrine di Harrod’s fa di tutto per riuscirvi, mettendo a disposizione del migliore offerente, come prima cosa, la sua arma vincente: la bellezza. E poi, ancora, Zoé, la figlia minore di Joséphine, appena sedicenne, che è ben diversa, più riflessiva, della sorella, anche se sta crescendo e brama di divenire disinibita e ambiziosa come lei. Sul fronte opposto c’è Philippe, l’indeciso, ricco, interessante, che vede crescere suo figlio Alexandre e lo vede diventare maturo, con un carattere umano, profondo, ma anche complesso, chiuso in sé e che, forse, a causa della perdita della madre (Iris) si avvicina molto a una barbona conosciuta ad Hide Park. Quasi a chiudere un cerchio ideale c’è la migliore amica di Joséphin, che vive un rapporto con l’amore e l’altro sesso parallelo e decisamente diverso a quello dell’amica, ma con risultati ugualmente catastrofici, e suo figlio Gary, il tenebroso, innamorato di Hortense e da lei ricambiato, ma che per un inesorabile destino non riesce a stringere con lei alcun rapporto duraturo. Lui ha un segreto da rivelare a sé stesso, l’identità del padre, che lo porterà ad affrontare un viaggio col corpo e con la mente. Di personaggi, con le loro storie, in realtà ce ne sono tantissimi altri, che fanno da contorno a questi ed enfatizzano le loro caratteristiche e che mai confondo il lettore o gli danno la sensazione di essere messi lì semplicemente come un riempitivo. Anzi. Proprio grazie ai numerosissimi personaggi, il romanzo è pieno di (tenui) colpi di scena.
Un romanzo dai tratteggi sfumati, dai molti dialoghi da cui emerge il pensiero interiore dei personaggi, con una descrizione asciutta e non per questo poco stimolante. Un libro interessante, senza eccessi, le cui quasi ottocento pagine giustificano solo il piacere di potere indugiare a lungo su delle storie che forse abbiamo vissuto personalmente o ci siamo sentiti raccontare già dai cari amici.