mercoledì 19 ottobre 2011

Karl Ove Knausgard, “La mia lotta - vol. 2”.

Knausgard è tornato a parlare di sé. Lo aveva già fatto, concentrandosi nel rapporto avuto con il padre e le possibili conseguenze che aveva avuto nella sua vita. Ora la sua attenzione si è spostata al rapporto in essere con l'intera famiglia, quella costituita dalla seconda moglie e i figli, e con gli amici.
Ma la grande attesa che aveva preceduto l’uscita del secondo volume della mia lotta non è stata ricompensata. Devo dirlo subito. A malincuore.
Forse anche per questo non mi esalterò, come spesso faccio in queste pagine, a parlare dell’ultimo libro letto, perché non posso compiacermi col suo autore per avere portato al termine un’opera esemplare o, comunque, degna del suo nome, ma neanche sollevare una vera e propria critica.
Mi spiego meglio. Quel che nel primo volume era apparso maggiormente apprezzabile era il modo in cui l’autore era riuscito a fare emergere, e pure in maniera dolce ed apprezzabilissima, la sua filosofia di vita, non la sua vita né il suo modo di pensare o di apparire, quanto il filo di fondo che collega ogni suo modo di essere. Nel secondo volume, invece, tutto ciò non solo viene offerto con minore delicatezza, sembrando in certi casi, anzi, di assistere al vanto di Knausgard di essere tanto modesto, ingenuo, in un certo senso anticonformista e persino a volte burbero e insopportabile, ma a tratti persino l’idea di fondo, quella di cercare sé stesso e di farsi trovare (ch’era quasi poetica e amabile) si perde in rigagnoli sempre più abbondanti di dettagli sui fatti contingenti.
Mi si dirà che tutto ciò non risponde al vero e che, anzi, il secondo volume accentua l’aspetto interiore. Io sono del parere, però, che chi si attesti su queste convinzioni non ha di certo valutato che, nel primo volume, l’interiorità dell’animo non si apprende dalle parole espresse, ma si scova fra le righe, si desume da un contesto a volte anche molto complesso lungo decine e decine di pagine, mentre qui, nel secondo, viene apertamente rivelato senza neanche troppi giri di parole. E che, anzi, qui, le parole, le tante parole, si risolvono in un interminabile sproloquio senza soluzione di continuità, che stanca il lettore in quasi seicento lunghissime e fittissime pagine che non vengono nemmeno intervallate dalla divisione in capitoli.
Certo, non mancano i momenti più significativi ed evocativi d’uno stato d’animo che fanno tornare ad amare Knausgard, ma nel complesso risultano un po’ pochi o si nascondono fin troppo bene in un “sentire comune” che chi non appartiene alle popolazioni dell’estremo Nord Europa può solo appena percepire ovvero ancora subiscono l’inevitabile limite connaturato alle opere ricomprese sotto il comune denominatore di sequel.
Nel complesso, giudicherei il libro e il suo autore “rivedibili”, se non altro perché, dopo un inizio brillante e la prospettiva di altri quattro volumi al completamento dell’opera non può certo darsi un giudizio affrettato.

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