lunedì 25 luglio 2011

Edoardo Nesi, “Storia della mia gente”.

Edoardo Nesi si racconta nella veste di erede mancato del Lanificio T.O. Nesi & Figli S.p.a., fondato da suo nonno e dal fratello di suo nonno, poi passato al padre ad allo zio e in procinto di giungere nelle sue mani. Nella breve storia si legge dell’ascesa che fa il giovane Nesi, dopo il compimento degli studi all’estero, all’interno dell’azienda, ma anche delle ragioni che hanno portato la sua famiglia a decidere di venderla, nel momento più critico. A fianco di questa storia, racconta anche quella di tante realtà similari, di tante piccole imprese della provincia italiana che hanno saputo crearsi ed accrescersi, dal dopoguerra fino agli anni 80, prima di conoscere un destino dichiaratamente evitabile, ma storicamente inevitabile.
Col premio Strega 2011 devo stare attento, perché non posso certamente esprimermi in termini negativi, dopo che una più che qualificata giuria ha espresso il suo verdetto.
Una cosa che all’autore non piacerebbe sentir dire, però, me la voglio lasciare scappare di bocca ugualmente: il libro mi ha deluso. Almeno un po’. Ciò non vuol dire che non valga (altrimenti finirei per ricadere nel fallo che ho saggiamente evitato), ma che mi aspettavo un racconto nostalgico, anche intimo e personale, in cui le vicende vissute si sono fatte strada nella mente del loro autore in forma romanzata. E invece ho seguito con scarso interesse un appunto quasi giornalistico di un’epoca che cambia, che fa un’analisi anche non troppo meticolosa di come funzionavano le cose quando tutto andava bene e di come, a causa della globalizzazione, il mondo che pareva idilliaco, fatto di piccole aziende familiari, artigiani e industrie che si erano ingrandite con le loro sole forze, ha dovuto cedere il passo alle grandi holding o alle bassissime, e per questo più appetibili, pretese provenienti dai mercati orientali.
Ci sono, questo deve anche dirsi, alcuni (pochissimi) momenti che sanno essere evocativi di un’epoca o che lasciano filtrare elementi di lirismo nel resoconto dei fatti avvenuti, ma ciò non basta (per i miei gusti) a fare assumere al romanzo l’aspetto dell’opera esemplare.
O forse mi sbaglio.
Forse, alla mancanza stessa di aspetti emotivi e sentimentali (o, comunque, alla loro riduzione al minimo essenziale) andrebbe attribuito un significato ben preciso. Forse, l’autore, primo ed unico protagonista del racconto, nonché sua voce narrante, vuole apparire talmente afflitto dal modo in cui l’economia del paese è andata cambiando, senza che vi sia stato un solo intervento politico o sociale che ne abbia almeno combattuto gli effetti, che il suo unico interesse è di puntare il dito contro il potere o l’organismo che avrebbe potuto impedire il collasso dell’economia italiana e non lo ha fatto. Forse, quindi, in tale stato di cose, il lasciarsi prendere dalla nostalgia sarebbe apparso fuor di luogo. Forse, avrebbe contrastato troppo con lo spirito battagliero e di protesta che sembra essersi voluto sollevare.
Ma queste riflessioni, che nascono pur sempre dopo che Edoardo Nesi è salito sul gradino più alto del podio al Premio Strega, mi chiedo anche se rendano, ancorché vere, il giusto onore a un libro tanto acclamato. E’ un dubbio al quale, questa volta, non provo nemmeno a rispondere e che lascio semmai a chi vuol commentare le mie parole.
Certo è, però, che non è la prima volta che viene sollevata una protesta (vaga e impalpabile) contro chi, putativamente, avrebbe avuto il potere di fermare un processo evolutivo che ha sconvolto l’economia del mondo intero. Io per primo, ad esempio, mi trovo spesso a dare un calcio alla mentalità imperante proveniente dall’altra sponda dell’Oceano, non senza, peraltro, vergognarmene, perché conscio sia di agguerrirmi contro un concetto tanto vago e astratto da risultare indimostrabile, oltre che essere nient’affatto originale.
Più di ogni altra volta, allora, invito chiunque a leggere la “Storia della mia gente”, perché possa poi smentirmi o condividere il mio pensiero e rafforzarlo, ma soprattutto perché io possa essere spinto a rileggere un’opera che, sulla carta almeno, rimarrà alla storia tra le migliori che siano state scritte in Italia, con occhi diversi.

martedì 19 luglio 2011

Catherine Pancol, “Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì”.

Se avete molto tempo a disposizione e non siete inclini a una lettura impegnata, Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì è il libro che fa per voi. Settecentocinquantacinque pagine di intrighi sentimentali, malinconie, paure di sentirsi inadeguati ovvero eccessive fiducie nel prossimo e nel destino, dubbi che fanno perdere l’occasione giusta e rammarichi per ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto.
E’ l’ultimo romanzo di una trilogia che ha già venduto - così apprendo - milioni di copie in tutto il mondo, firmata dalla scrittrice francese Catherine Pancol. Scrittrice che meraviglia per la capacità di spendere fiumi di parole ed essere tanto dettagliata nella narrazione di vicende, pur banali o ordinarie, che impegnano i suoi personaggi.
Dico subito che il mio rammarico è di non avere letto i due romanzi che hanno preceduto gli scoiattoli (“Gli occhi gialli dei coccodrilli” e “Il valzer lento delle tartarughe”), soprattutto perché credo che oramai non li leggerò più. L’ultimo libro, infatti, richiama episodi accaduti nei primi due, togliendo così al lettore la curiosità di leggerli. D’altro canto, il suo maggior fascino risiede più nella capacità di catturare il lettore, di saperlo intrattenere, che nel messaggio che contiene o nel pensiero che vuole divulgare.
Esporre in poche righe la trama è un’impresa ardua, anche perché in verità dovrebbe parlarsi di più trame, ciascuna con una propria direttrice, che si ritrovano in qualche punto, si intersecano, fanno qualche passo assieme e poi tornano a seguire la propria strada. C’è Joséphine, ad esempio, con la sua indole serafica e pacata, che è avvinta dal sogno di potersi unire a Philippe, il vedovo di sua sorella Iris, che a sua volta indugia nel manifestare i propri sentimenti per lei e si trova legato a Dottie, quasi senza volerlo. Joséphine sta cercando di scrivere un libro per uscire da uno stato di insoddisfazione interiore, paura di affrontare la realtà. Di fatto, la sua poca concentrazione viene spesso resa vana dalle mille vicende che le capitano attorno, anche se un ritrovamento fortuito, nella spazzatura, la porterà ad affrontare il suo lavoro con un piglio diverso. Poi c’è, Hortense, che è la figlia maggiore Joséphine, che insegue il sogno di divenire ricca e famosa nel campo della moda e, quando le si presenta la possibilità di occupare due vetrine di Harrod’s fa di tutto per riuscirvi, mettendo a disposizione del migliore offerente, come prima cosa, la sua arma vincente: la bellezza. E poi, ancora, Zoé, la figlia minore di Joséphine, appena sedicenne, che è ben diversa, più riflessiva, della sorella, anche se sta crescendo e brama di divenire disinibita e ambiziosa come lei. Sul fronte opposto c’è Philippe, l’indeciso, ricco, interessante, che vede crescere suo figlio Alexandre e lo vede diventare maturo, con un carattere umano, profondo, ma anche complesso, chiuso in sé e che, forse, a causa della perdita della madre (Iris) si avvicina molto a una barbona conosciuta ad Hide Park. Quasi a chiudere un cerchio ideale c’è la migliore amica di Joséphin, che vive un rapporto con l’amore e l’altro sesso parallelo e decisamente diverso a quello dell’amica, ma con risultati ugualmente catastrofici, e suo figlio Gary, il tenebroso, innamorato di Hortense e da lei ricambiato, ma che per un inesorabile destino non riesce a stringere con lei alcun rapporto duraturo. Lui ha un segreto da rivelare a sé stesso, l’identità del padre, che lo porterà ad affrontare un viaggio col corpo e con la mente. Di personaggi, con le loro storie, in realtà ce ne sono tantissimi altri, che fanno da contorno a questi ed enfatizzano le loro caratteristiche e che mai confondo il lettore o gli danno la sensazione di essere messi lì semplicemente come un riempitivo. Anzi. Proprio grazie ai numerosissimi personaggi, il romanzo è pieno di (tenui) colpi di scena.
Un romanzo dai tratteggi sfumati, dai molti dialoghi da cui emerge il pensiero interiore dei personaggi, con una descrizione asciutta e non per questo poco stimolante. Un libro interessante, senza eccessi, le cui quasi ottocento pagine giustificano solo il piacere di potere indugiare a lungo su delle storie che forse abbiamo vissuto personalmente o ci siamo sentiti raccontare già dai cari amici.

lunedì 4 luglio 2011

Marco Presta, “Un calcio in bocca fa miracoli".

Comincia l’estate e viene fuori il desiderio di affrontare letture leggére. Io mi ero riservato il libro che mi accingo a commentare per la seconda metà di agosto, soprattutto perché più comodo da portare a spasso, date le sue modeste dimensioni. Poi, però, non ho saputo resistere alla tentazione di sapere come si fosse comportato col linguaggio scritto Marco Presta, uno che ha fatto della parola parlata la sua professione e che ci allieta la mattina su Radio 2 col suo “Ruggito del coniglio”. La risposta che ho ottenuto è stata: brillantemente!
Proprio così. Col suo primo romanzo, infatti, Marco Presta riesce a toccare tutte le corde emozionali, in uno spettro che va dalla completa allegria alla malinconia (più le prime che le seconde, preciso per chi tema di trovarsi fra le mani una macchina da lacrime).
La storia narrata è davvero semplice da leggere, ma nutrita di una sfrenata fantasia che lo fa sembrare al tempo stesso inverosimile e pur realistico. Il protagonista, che è anche narratore in prima persona di tutto il romanzo, segue l’evoluzione del suo spirito in una delle ultime fasi della sua vita. Comincia col descriversi un vecchiaccio, uno di quelli che disprezza i bambini che gli fanno le boccacce ai giardinetti, che ruba le penne per diletto, e che non si vergogna di ammettere che, giunto alla sua età, con un matrimonio fallito alle spalle, il passaggio dal desiderare una donna ed averla non deve contemplare alcun intermezzo di corteggiamento, per evitare una perdita di tempo inutile e per evitare possibili conseguenze e strascichi sullo stato affettivo. Solo che, a fare da contraltare nella sua vita c’è l’amico Armando, un vedovo in pensione, di ex professione pizzicagnolo, che ha vissuto sempre in venerazione della moglie, e che adesso ha un’unica ambizione nella vita, quella di farsi Cupido in persona e lasciare amore, prima di morire. Ma non sarà solo per seguire le gesta dell’unico vero amico, nella missione Giacomo-Chiara, che il protagonista si troverà a fare i conti col suo carattere, perché nel frattempo si ritroverà a dover vestire i panni del padre ad una figlia ritornata a casa dopo lunghi anni, perché in rotta col marito, e a gestire nel migliore dei modi il rapporto con la portinaia, oggetto dei desideri suoi e di quelli del barista, che le fa una corte spietata. La ciliegina sulla torta è data dai ricordi che riemergono dal passato, con le perle di saggezza popolare di Oreste, un tempo solo maestro di bottega, e l’idea, anche affaristica, di un futuro che si fonda sul passato in una prosecuzione ideale.
Il libro sa essere altamente ironico, fino a sollevare sincere risate, ma anche riflessivo. Suscita un piacere che nel panorama degli autori moderni si ha spesso la sensazione di non potere ritrovare. E’ una satira in senso pieno, capace di volare basso su molti aspetti della società, senza mai scadere in banali critiche o ovvie allusioni. Anzi, dimostra la grande intelligenza di far maturare nella mente del protagonista un nuovo modo di affrontare la realtà, di guardare l’esterno da una diversa prospettiva, e con ciò porre e porsi il dubbio che la giustizia (ma qui, forse, dovrei dire più propriamente giustezza delle cose) non è solamente una. Inoltre, con una naturalezza disarmante, sa porre perfettamente a raffronto personalità diverse, per persone diverse, provenienti da estrazioni diverse, e generazioni diverse. Ma la cosa bella di tutto ciò è che, leggendo, non ce ne si accorge ed, anzi, si ride, e si ride di cuore.
Se volessi sintetizzare al massimo l’idea che mi sono fatto di questo autore, leggendo il suo primo libro, direi che è dissacrante e ironico come De Silva, nostalgico e condannatorio come Benni, arguto e riflessivo come Pennac.
Da leggere, assolutamente.