lunedì 27 dicembre 2010

Gleen Cooper, “La biblioteca dei morti”.

E’ raro che legga libri gialli, ma ogni tanto mi ci tuffo assaporandone tutto il sapore come dell’acqua di una fontana rinfrescante in una calda domenica d’agosto.
E’ un dato di fatto: i thriller, i noir, i polizieschi, i gialli, e tutti gli altri generi che si avvicinano a questi non mi lasciano nulla, dopo averli letti, che valga la pena di ricordare, ma non nego che mi piacciono da impazzire, perché già dalle prime pagine vengo come preso da una curiosità morbosa che mi trascina inesorabilmente fino alla fine. Del resto, questo è il compito dei giallisti e guai se non fosse così!
La biblioteca dei morti non saprei se collocarlo tra i polizieschi o tra i thriller, o, più genericamente, onde evitare il rischio di irritare gli amanti del genere, fra i gialli (anzi, se qualcuno vuol colmare la mia incertezza, qui può farlo e gliene sarò grato). Di sicuro, i morti ci sono e c’è pure la polizia di mezzo, compreso il famigerato FBI, che ne cerca il responsabile. Ma ci sono pure presenze oscure, che sembrano essere messaggeri dell’aldilà e riti offensivi per il genere umano, che vengono perpetrati ingenuamente per fini religiosi.
Will Piper è il classico detective dell’FBI all’americana: scanzonato, beone, donnaiolo, che non tollera le prevaricazioni dei suoi superiori, ma anche il primo fra i suoi colleghi in intelligenza e capacità di risolvere i casi. Per queste ultime qualità viene scelto per risolvere il caso di un presunto serial killer che, in modo del tutto originale, annuncia anticipatamente alle sue vittime la data della loro morte tramite l’invio di una cartolina postale. Accanto a Will viene messa la detective Nancy Lipinsky, che da principio appare odiosa e con tutta l’aria di volere fare la prima della classe, ma che col tempo imparerà a farsi conoscere diversamente fino al punto che, anche qui in maniera quanto più americana possibile, finirà per farsi amare dal suo capo.
La coppia va avanti nelle ricerche, con pochi elementi fra le mani, affidandosi soprattutto al sesto senso di Piper, mentre, tra un capitolo e un altro, vengono intercalati eventi apparentemente diversissimi, risalenti ad altre epoche storiche di settanta, ottocento e persino milleduecento anni prima. Sennonché, a poco a poco, proprio gli eventi accaduti nel passato finiscono inesorabilmente per dare (da principio solamente al lettore) la chiave di lettura per la soluzione del caso.
Tutto sarebbe semplice, dunque, per la mente acuta di Will, se non ci si mettessero di mezzo le invidie degli amici, gli ordini provenienti da oscuri superiori e da ultimi, ma non per ultimi, il segreto di stato e la sicurezza della nazione, che lo portano a diventare in poco tempo da investigatore intoccabile a ricercato numero uno.
Non mi stupirei se sentissi dire che della biblioteca dei morti ne stanno facendo un film, non perché credo che meriti di essere divulgato anche sotto quella forma, ma molto più semplicemente per l’interesse economico che immagino si porti dietro, dato il gran successo che, a quanto pare, il libro ha avuto sin dal suo esordio. D’altronde, è anche chiaro che se n’è voluto creare una caso letterario, visto che nelle librerie, dopo neanche un anno, dal mese di maggio del 2010, c’è già il cosiddetto sequel della storia, che si riallaccia ad alcuni particolari, qui insignificanti, ma che per i più bramosi, non hanno avuto una completa descrizione.
Chi fosse così curioso, cerchi “il libro delle anime”, dello stesso autore. Io, forse tra qualche mese, in queste pagine, mi troverò a parlare anche di quello. Chi lo sa?!

lunedì 20 dicembre 2010

Andrea De Carlo, “Leielui”.

Daniel Deserti e Clare Moletto si conoscono in modo imprevisto: un incidente stradale. Lui tampona la macchina in cui lei sta viaggiando col suo fidanzato. Da quel momento, dapprima grazie a circostanze fortunose e poi via via sempre di più volute, i due iniziano a frequentarsi, a conoscersi e a rimanere sempre più imbrigliati in una trama di curiosità, appagamento nascosto e gioco delle parti che li apre, da una parte, l’uno all’altro, ma che li rende dall’altra parte, sempre più vulnerabili al sentimento che comincia ad aleggiare fra di loro.
Con Leielui, De Carlo, ancora una volta, non perde l’occasione per mettere in scena i temi a lui più cari, come la sorpresa dell’uomo nel riscoprirsi più vicino alla natura che non ai sistemi di vita apparentemente perfetti e tecnicamente avanzati; l’incomunicabilità fra quanti sono degni figli del tempo presente e quanti se ne discostano per istinto di sopravvivenza; i sentimenti visti come spie nascoste e che una volta rivelate fanno emergere le diverse personalità umane, intrappolandole in compartimenti stagni.
E tutto ciò lo fa con una maestria che fa sembrare persino facile il compito dello scrittore. Non si può non cogliere, infatti, lo stile fluido, impeccabile, e lineare. Eppure, a stare bene attenti, c’è una cura tanto nello stile che nella trama che interessa ogni parte del romanzo.
L’esempio più lampante (a voler tacere del perfetto gioco narrativo ad incastri, con particolari lasciati sparsi qui e là, che solo da principio risultano essere apparentemente inutili e che non sfuggono nemmeno ad un lettore distratto; o a voler tacere anche - per questa volta, almeno - di certi virtuosismi lessicali o di certi effetti “scenici”, quasi fossero un retaggio del regista cinematografico De Carlo) è dato dalla caratterizzazione dei personaggi, che è oltremodo attenta e delineata fin dentro ogni più recondito particolare. Tale caratterizzazione, infatti, si lascia cogliere anche dai discorsi diretti o dai flussi di coscienza oppure ancora attraverso l’escamotage più vecchio, personale e meglio sperimentato dall’autore che, quando può, procedendo con metodo - che potremmo definire - “a contrario”, pone accanto ad ogni protagonista un suo personale antagonista, da cui fugge, od al quale si contrappone.
Ne ho letti tanti libri di De Carlo, e credo di poter dire che il massimo sforzo teso a caratterizzare i personaggi sia stato profuso proprio nel romanzo in commento (anche se “Giro di vento”, in cui c’è il più alto numero di protagonisti ognuno con la sua marcata personalità, non può dirsi da meno). Inoltre, c’è da sottolineare la presenza di un personaggio-tipo che all’autore deve piacere tanto perché ricorre spesso nei suoi libri (o almeno, così è in tutti quelli che ho letto io); un personaggio apparentemente burbero, singolare, le cui intenzioni non sono sempre alla portata di quelli che gravitano attorno a lui e che tanto meno sono per questi ultimi prevedibili o controllabili. In questo “tipo” rientrano, per citarne alcuni, Macno, nell’omonimo romanzo (Bompiani, 1984), Guido Laremi, in “Due di due” (Mondadori, 1989), Maria Chiara, in “Nel momento” (Mondadori 1999), Lorenzo Telmari, in “Mare delle verità” (Bompiani, 2006), Durante, nell’omonimo romanzo (Bompiani, 2008) e adesso, con “Leielui”, in parte, anche Daniel Deserti. Perché dico “in parte”? Perché man mano che la narrazione va avanti, il Daniel Deserti-personaggio tipo compie una specie di rivoluzione, mettendosi in discussione e dimostrandosi fallibile perfino a sé stesso (cosa che, invece, gli altri suoi consimili non fanno mai). Che si debba registrare un cambiamento nella scelta dei personaggi di De Carlo? Qualunque sia la risposta, resta il fatto che Daniel, di certo, non si può annoverare fra quelli che ci capita tutti i giorni di frequentare, anche se può suscitare un certo desiderio di conoscere persone come lui.
L’unica osservazione critica, se tale si può dire, per un romanzo appagante come questo è - strano a dirsi - rivolta al commento che l’autore stesso fa del suo romanzo. Egli dice di aver voluto “dare ai due protagonisti, donna e uomo, lo stesso peso”, facendo in modo che “a capitoli alterni la storia [venisse] raccontata dal punto di vista di lei e di lui”. Detta così, infatti, avrei immaginato che la stessa sequenza o lo stesso spazio temporale venissero riproposti due volte, alternando appunto i punti di vista. In realtà, se vera, o quantomeno condivisibile è la pari misura data a Daniel e Clare, l’unica alternanza si rinviene nella prospettiva del narratore, che getta ora uno sguardo sull’uno, ora uno sguardo sull’altra. E ciò, peraltro, sempreché i due non si trovino nello stesso contesto.

lunedì 13 dicembre 2010

Enrique Vila-Matas, “Dublinesque”.

Quand’ero a metà di questo romanzo mi sentivo spossato, afflitto. Non so dirlo bene: insomma, mi era passata la voglia di leggere. Non riuscivo nemmeno a trovare un divano che mi rendesse più comoda la lettura o un cuscino, semplicemente, che mi rendesse le cose più piacevoli (in bagno? non è mai stata mia abitudine. Comunque, ho provato e neanche lì andava bene). Poi c’era che mi distraevo spesso e mi ritrovavo ad andare avanti senza avere recepito le parole che avevo scorso con lo sguardo, per cui dovevo tornare indietro e rileggere concentrandomi sulle parole, poi sulle frasi e, infine, sui paragrafi.
Il guaio è che questo libro concede poco, se non pochissimo, alla raffigurazione degli avvenimenti (che pur essi pochi sono). E, se lo fa, il più delle volte, li rievoca a beneficio soltanto di coloro che hanno letto già l’Ulisse o Gente di Dublino di James Joyce. Io, che non li avevo letti, quindi, mi sono sentito da subito messo in minoranza, ma sono andato avanti, con la fiducia (o forse l’arroganza?) che prima o poi i tasselli mancanti mi sarebbero tornati e che le stesse metafore e i significati ad esse collegati avrebbero visto la luce, quando meno me lo sarei aspettato. Del resto, c’erano due buoni motivi per cui avevo scelto di voler leggere Dublinesque: la prima, che avevo letto già l’opera più famosa di Vila-Matas (Bartleby e compagnia) che, per quanto mi era sembrata più un delirio di erudizione enciclopedizzante che un testo letterario, mi era anche piaciuta molto; la seconda, che nella quarta di copertina, l’editore aveva chiuso la sua recensione con queste parole: “un romanzo abbagliante, aperto alle più diverse letture. Semplicemente geniale”, e dunque mi sembrava almeno meritevole di essere letto.
La svolta è arrivata una volta superata la metà, una volta a tre quarti, mi direte voi. E invece no. Il libro è andato avanti così, fino alla fine. E meno male che non fa nemmeno duecentocinquanta pagine (che io però ho letto in più di tre settimane)! I tasselli mancanti non sono mai tornati, le metafore non hanno mai visto la luce e l’abbagliamento promesso non si è mai manifestato. Avete presente un mattone? Ecco, questo è il caso.
Il romanzo narra la storia del dolore di Samuel Riba, editore in pensione che ha perso l’entusiasmo per il suo mestiere, ormai appiattito sulla scia delle nuove tecnologie: il suo pensiero è che la stampa sta scomparendo e con essa anche la cultura.
Per tale ragione, mentre viene perseguitato dalla paura di ricadere nel vizio dell’alcol e dalla convinzione di non essere compreso, Riba decide di andare a Dublino il 16 giugno in occasione delle celebrazioni annuali (Bloomsday) dello scrittore irlandese James Joyce. L’intento è quello di celebrare in quel luogo, che per il suo intento è tanto pieno di significato, un funerale simbolico dell’era della stampa e più in generale di quella concezione della società che va sotto il nome di Galassia Gutemberg.
Il requiem riesce, anche se non nei modi, con lo spirito e l’atmosfera che il suo autore aveva immaginato, mentre va prendendo forma una figura singolare e metaforica che accompagnerà la vita del protagonista fino alla fine del romanzo.
Ora che ho letto fino all’ultima pagina, non mi resta altro che aspettare il giorno in cui la pesantezza contingente non sarà rimasta che un vecchio ricordo, e pure sbiadito, e mi sveglierò con la consapevolezza di avere avuto il privilegio di leggere una grande opera!

mercoledì 24 novembre 2010

Umberto Eco, “Il cimitero di Praga”.

A volte ci si trova in imbarazzo nel leggere romanzi, sia pur di fantasia, che sottintendono o che si riportano ad avvenimenti realmente accaduti e a personaggi o a luoghi consacrati dalla storia. O almeno, questo è quel che succede a me tutte le volte che riemergono le mie lacune in materia. L’ultima volta è capitato quando ho dovuto fare i conti con la storia d’Italia e d’Europa della fine del XIX secolo, nel leggere il Cimitero di Praga.
Eh già, perché il cimitero di Praga narra la storia di un uomo, frutto della fantasia del suo autore, che ha vissuto da vicino avvenimenti come lo sbarco dei mille e l’unificazione dell’Italia o la guerra franco-prussiana e la caduta del secondo impero francese con la conseguente restaurazione della repubblica, venendo a contatto, per un motivo o per un altro, con tutta una serie di uomini che invece sono realmente vissuti.
La trattazione è originalissima: il protagonista del romanzo, Simone Simonini, si sveglia da uno stato di smarrimento in cui non riesce neppure a ricordare chi è veramente. Sennonché, nel tentativo di ricostruire la sua vita scrivendo un diario che ripercorra le vicende passate, le persone conosciute, ma anche le ambizioni e i risultati ottenuti nel corso degli anni, si trova a rivelare la sua versione i ordine ai complessi intrecci ed ai meccanismi che hanno fatto muovere e crescere tutto il movimento sotterraneo che si è espanso in Europa fino ai due conflitti mondiali.
Dall’evolversi del racconto, infatti, viene fuori che Simonini è cresciuto come uno dei più insigni falsificatori di atti pubblici (o di interesse pubblico) al soldo dei massoni, della chiesa cattolica e dei servizi segreti, e che grazie ai suoi lavori è stato possibile persino condurre trattative internazionali, dichiarare guerre e sollevare popoli.
Simonini, però, rimane sempre fuori dalle dinamiche che si determinano grazie al suo intervento, anche se coltiva un’ambizione personale, che è quella di mettere in circolazione dei documenti da sé inventati, in parte attingendo alla fantasia ed in parte ricostruendo ad arte avvenimenti di dubbia provenienza storica, che lui stesso chiamerà i protocolli di Sion. L’ambizione per Simonini è di natura economica, anche se, per una ragione che non ricorda, ma che si lega all’affetto per il nonno che lo ha cresciuto, non disdegna l’effetto che la loro pubblicazione può suscitare. I protocolli da lui concepiti, infatti, rappresenterebbero la prova della cospirazione del popolo ebraico per la conquista del mondo civilizzato e, così, la loro diffusione provocherebbe una reazione ostile verso la stirpe giudaica che suo nonno, chissà perché, tanto odiava.
Dall’ambizione di Simonini, che si destreggia in un mondo in cui sembra che si faccia persino a gara per chi deve mettere per primo in circolazione un finto documento originale nell’interesse dell’una o dell’altra parte della barricata, si vanno facendo via via sempre più evidenti gli insegnamenti che la storia del secolo XIX e di quello che ha preceduto il nostro ci ha lasciato. In primo luogo, purtroppo, che non c’è cosa migliore per tenere in pugno un popolo che condividere con lui l’odio verso un nemico comune e che questo odio se non è motivato, può essere quantomeno provocato, indotto; inoltre, che se il nemico è ricco e potente, l’odio potrà essere ancor più grande; e poi ancora che se si smarrisce ogni riferimento con la storia, gli avvenimenti reali, la concretezza di tutti i giorni, si rischia di perdere di mano la situazione, con effetti quasi certamente catastrofici.
Così è stato per il Protocollo dei savi di Sion, alla cui elaborazione ha certamente partecipato il personaggio immaginato da Umberto Eco nel Cimitero di Praga. Tale documento è, infatti, tristemente noto alla storia come falso, ma tanto falso che, come si sostenne da parte di chi ne aveva interesse, non può essere contestato. Ed è per tale ragione, anche, che milioni di ebrei vennero uccisi nei campi di sterminio durante il nazismo.
Ho trovato il libro degno del suo autore. Semplicemente, un capolavoro. E’ illuminante e piacevolissimo da leggere.

mercoledì 17 novembre 2010

Karl Ove Knausgard, “La mia lotta - vol. 1”

Mi sono ritrovato più volte a chiedermi, mentre leggevo “la mia lotta”, cosa ci fosse di così tanto bello nel romanzo da farmelo sembrare coinvolgente e, altrettante volte, non sono riuscito a darmi una risposta. Tanto meno credo che riuscirò a darmela adesso, una settimana dopo che ne ho finito la lettura e che sono riuscito a distogliere l’attenzione, non senza nostalgia, dal racconto di una vita, diversa dalla mia, ma resa alquanto comprensibile.
Sarà forse la semplicità sulla quale poggia l’intera narrazione, a cui quest’ultima sembra essere ispirata, o forse la curiosità di vedere fino a che punto si è spinto l’autore nel rievocare con precisione dettagli della sua vita altrimenti insignificanti, non saprò dirlo mai, restando certo soltanto il dato che il primo volume dell’opera ha suscitato in me le emozioni che solo un autore accorto riesce a dare al suo lettore.
Nella mia lotta, il presente e il passato dell’autore, che ne è anche protagonista, si fondono dando sfogo alla contemplazione della sua vita. In ciò, quel che colpisce è la constatazione, mai apertamente rivelata, di come a volte episodi piccoli ed apparentemente insignificanti svolgano un ruolo di prim’ordine nella formazione del carattere di ciascuno.
In tal senso, accanto ai veri drammi o i patemi d’animo, le insicurezze e le paure, vissuti nell’età adolescenziale, vengono fuori i racconti di serate qualunque, una immagine vista in televisione e altre banalità risalenti a decenni prima, ma rivissute tra i ricordi più vividi, che dominano la scena e suscitano in Karl Ove interrogativi o giustificazioni sul suo comportamento.
Tutto quel che, da principio, sembra essere narrato senza uno scopo, che non sia quello, apparente, di rievocare il passato, a poco a poco assume una valenza diversa, fino a rendersi interamente necessario alla comprensione del romanzo. Come dire che ogni dettaglio, se è stato espresso, rievocato e persino commentato e sottolineato, ha meritato il posto che riveste per un fine ultimo a cui si giunge senza fretta.
Il primo volume dell’opera, che nella sua interezza apprendo essere di sei volumi (quattro dei quali solamente sono stati pubblicati nel paese d’origine dell’autore), s’incentra attorno al rapporto di Karl Ove Knausgard col proprio padre, in un crescendo di sentimenti che, man mano che la storia va avanti, vengono sempre più sgrezzati dalle ipocrisie, dalle contingenze o dalle interferenze dovute al significato non sempre univoco attribuito, appunto, agli episodi del passato, divenendo sempre più puri.
Per queste ragioni, mi trovo adesso ad attendere con ansia il seguito della storia che, in assenza di qualunque indicazione, ahimè non so nemmeno quando uscirà.

mercoledì 27 ottobre 2010

Denis Guedj, “il teorema del pappagallo”.

Pierre Ruche, un sagace libraio parigino ottantaquattrenne che ha perso l’uso delle gambe, riceve due lettere a breve distanza di tempo provenienti da Manaus, al centro della foresta amazzonica. Chi le scrive è Elgar Grosrouvre, un suo amico e collega universitario, che credeva morto da quasi cinquant’anni. Grosrouvre gli preannuncia di avergli spedito le casse contenenti tutti i libri e le riviste di matematica, fra cui pezzi unici, antichissimi e di grandissimo valore, raccolte nel corso della sua intera vita. Ciò, perché, gli rivela senza essere più preciso, dopo essere riuscito a dimostrare due delle più controverse regole matematiche di tutti i tempi, ossia l’ultimo teorema di Fermat e la congettura di Goldbach, presagisce una morte imminente e violenta. C’è, infatti, chi vuole ottenere a tutti i costi le due dimostrazioni, mentre Grasrouvre vuole che rimangano segrete. Nell’impossibilità di contattarlo, Ruche si porrà dunque come primo obiettivo quello di capire se la morte dell’amico conseguirà ad una sua scelta o se teme di essere ammazzato e, in quest’ultimo caso, da chi.
Da ciò, poi, seguirà una serie infinita di altri interrogativi a cui l’ottantaquattrenne proverà a dare risposta, studiando e leggendo tutti i libri di matematica che, nel frattempo, gli sono arrivati. A sorreggerlo in questa avventura la sua insolita famiglia, composta da Perrette, l’aiutante libraia che ospita nella sua casa, con i suoi figli, le cui origini sono più che ignote, oltre ad un piccolo seguito di amici e collaboratori stretti. Fra questi ultimi, rientra pure un pappagallo sottratto da Max, il figlio sordo di Perrette, al traffico di animali nei sobborghi di Parigi, che si rivelerà ben presto più saggio di quanto non s’immagini.
Quando gli studi e gli interrogativi cominciano a dare i propri frutti, però, una svolta inattesa porta nel caos Ruche e i suoi amici: Max e il pappagallo vengono sequestrati da una banda i cui scopi non appaiono subito chiari e tutti gli sforzi vengono quindi diretti verso la loro liberazione.
Un libro quindi dalla trama avvincente, come tutti i migliori thriller, con la straordinaria originalità di portare al centro della scena e davanti a tutti i ragionamenti il metodo matematico, così come si è evoluto nel corso dei millenni.
Le letture di Ruche, infatti, vengono portate in primo piano e discusse fra i protagonisti, affinché anche il lettore possa imparare a individuare fra le righe il metro di ragionamento seguito e provare magari a ricostruire il loro pensiero prima ancora che si riveli appieno.
Per questa sua caratteristica, il romanzo appare certamente vincente, anche se in certi momenti può risultare stancante e noioso. Dopo i primi capitoli di pura narrazione, infatti, si ripercorre la storia delle scienze matematiche, coi suoi dogmi e le sue dimostrazioni che non sempre - questo deve pur dirsi - appaiono perfettamente chiare (specie a chi, come me, di matematica ne mastica ben poca). Solo dopo che viene superata la parte centrale, che alterna narrazione a ragionamento, dati storici, con tanto di formule e diagrammi, alla fantasia, si torna a respirare una bella narrazione con tanto di azioni e descrizioni da far vivere da vicino gli avvenimenti.
In definitiva, ritengo che, se non si tiene conto dei tanti dubbi - per me - irrisolti o risolti in maniera non chiara e della distrazione dalla quale ci si lascia prendere ogni tanto, la lettura risulta comunque da encomiare. Come dire che non sempre piace ciò che è buono, ma che gliene si deve dare pur atto.
Prima di congedarmi, però, vorrei porre una domanda a chi ha letto il libro prima di me o che si accinge a farlo: come si risolve il mistero della nascita dei figli di Perrette nelle viscere di Parigi? Può essere che l’autore si è dimenticato di darcene una risposta; o dovremo anche noi ricorrere a studi complessi che ci porteranno a disquisire sulla quadratura del cerchio e la trisezione dell’angolo per avere una risposta?

giovedì 14 ottobre 2010

Diego De Silva, “Mia suocera beve”.

Dopo averci stregato con “non avevo capito niente”, Diego De Silva propone un secondo episodio di Vincenzo Malinconico, l'avvocato napoletano che vive in bilico fra l'odio e l'amore della sua professione e che non si fa conquistare mai dalle mode, dai pettegolezzi o dalle convenzioni, apparendo a volte burbero e a volte eccessivamente sarcastico, ma riuscendo più spesso ancora a risultare a tutti adorabilissimo.
Questa volta Vincè, come lo chiama la figlia della ex moglie, si trova alle prese con un caso assolutamente anomalo, pur se dai risvolti decisamente attuali: mentre gironzola senza una meta fra i banconi di un supermercato, al suo fianco si sta consumando un dramma. Un padre, l'ingegnere Romolo Sesti Orfeo, vuole vendicare l'uccisione del figlio, avvenuta per mano della camorra, sequestrando e processando in diretta tv colui che ha esploso il colpo mortale. Il camorrista, infatti, continua a circolare tranquillamente per le strade, pur essendo formalmente un ricercato, e quel giorno a quell’ora sta giustappunto scegliendo il suo yogurt preferito nel banco frigo.
L'assurda vicenda è narrata in prima persona da Vincenzo Malinconico, che non si trattiene dal fare, pubblicamente o solo nella sua testa, tutte le considerazioni che la circostanza, vissuta istante per istante, gli porta alla mente. In tutto ciò, com'è nello stile del personaggio, c'è spazio per lunghe digressioni e divagazioni di psicologia spiccia e filosofia da corridoio che si riportano ad episodi della vita di Malinconico, riguardanti soprattutto i suoi rapporti con gli altri e il suo essere unico in un contesto che, a volte, sembra persino non capirlo.
Il libro si legge come un raccontino ironico (anche se, da questo punto di vista, personalmente, ho preferito “non avevo capito niente”), ma non si può non recepire al tempo stesso la posizione dell'autore su alcuni temi attuali e non. Vedi ad esempio quello più evidente della scarsa fiducia riposta nella giustizia italiana e, per converso, del crescente interesse verso i processi fatti in piazza attraverso i media, oppure quello della fama immeritata portata dalla visibilità mediatica, o ancora quello delle difficoltà che s’insinuano nei rapporti col prossimo, persino quando si è sinceri (c’è sempre una virgola che può danneggiare un intero sistema).
Il linguaggio usato, le pause e i tempi contribuiscono a rendere la lettura - che consiglio - sicuramente piacevole.

giovedì 7 ottobre 2010

David Nicholls, “Un giorno”.

La trama di “un giorno” si presenta al lettore semplice e poco fantasiosa: Emma e Dexter, due giovani neolaureati inglesi, appena si conoscono hanno la prima occasione per passare un’intera giornata insieme. E’ il 15 luglio 1988. Il primo giorno e, potenzialmente, anche l’ultimo, dato che ciascuno dei due vive in una città diversa, dove sta per fare ritorno, ora che si è chiuso il ciclo di studi, ed è mosso da ambizioni e prospettive di vita apparentemente inconciliabili con quella dell’altro. Sennonché il fato, la magia del momento, il desiderio di non perdersi di vista e la scommessa col destino fanno sì che i due, se non prendono a frequentarsi con assiduità, quantomeno inizino ad apprezzare col tempo il fortissimo legame che li unisce. Il libro racconta, dunque, il divenire del rapporto fra Emma e Dexter, con la originalità che ogni capitolo è dedicato unicamente al 15 luglio di ogni anno che va dal 1988 fino al 2007.
Ora, se mi fossi fermato a leggere la trama, sono più che certo che non avrei mai letto questo libro. L’avrei immaginato come il romanzo di un amore difficile o contrastato che rinvia tutto ad un ipotizzabile roseo epilogo. Un genere, insomma, che non incontra i miei gusti. Invece, nella quarta di copertina faceva bella mostra di sé un commento entusiastico del mio amato Jonathan Coe, per il quale “è difficile trovare un romanzo capace di affrontare il passato recente con tanta autorevolezza, ed è ancora più raro incontrarne uno in cui i due personaggi principali siano raccontati con una solidità, con una dolorosa fedeltà alla vita che davvero, quando chiudiamo il libro, abbiamo la sensazione di conoscerli quanto i nostri amici più cari”.
Pertanto, mi sono lasciato prendere dalla curiosità di leggerlo.
Ora che l’ho fatto, non posso fare a meno di meravigliarmi nel constatare che il carattere e la personalità dei protagonisti siano così compiute da sembrare capaci di uscire fuori dalle parole spese per descriverle. La cosa più sorprendente è che l’autore non si è limitato a fare un quadretto di Dexter ed Emma, racchiudendoli in un ambiente statico, ma li ha fatti crescere, seguendoli passo dopo passo, per quasi vent’anni in un processo che, chi legge di loro non può non notare, si riflette sullo stile di vita, sulle aspettative e persino sul linguaggio usato. E poi, il ventennio considerato non è neppure un qualunque ventennio, astrattamente considerato, ma è proprio quello che comincia dalla fine degli anni ’80, che abbiamo conosciuto, e le loro vite sono intrise anche del sapore di quegli anni. Penso che i caratteri e le storie di Dexter ed Emma siano stati così compiutamente descritti attraverso i fasci di caratterizzazione e i flussi di coscienza che predominano nella narrazione che potrebbero persino aprirsi tavole rotonde, discutendo fino all’alba, sul loro modo (stavo aggiungendo, reale) di atteggiarsi nel contesto in cui sono calati.
Ciò mi ha colpito e ha reso la mia lettura del libro più che piacevole. Ma ho avuto modo di apprezzare, e lo voglio dire, anche lo stile adoperato, perché si combina perfettamente con la scena ed è quindi ricco di ellissi, pause e digressioni, determinando un tempo della narrazione che, di volta in volta, si fa più o meno ampio. E poi, infine, c’è l’aspetto più interessante, ossia la suddivisione in capitoli che fanno riferimento ciascuno al 15 luglio di un anno diverso e cronologicamente successivo. Ogni capitolo, infatti, costituisce una macrosequenza, direi, sfilacciata, dato che lascia solamente intendere (senza peraltro dare mai luogo a dubbi) ciò che verrà nei giorni o nei mesi seguenti a quelli espressamente descritti. Se il dubbio c’è è solo perché è assolutamente voluto e gestito, al fine di creare un po’ di suspense, ed il capitolo successivo lo renderà evidente, oltre che risolverlo.
Insomma, un buon libro, che sono contento di aver letto.
L’unica mia nota critica va al traduttore (o all’editore?) che ha reso il titolo originale “one day” letteralmente come “un giorno”, mentre, forse, per restare più fedele al significato che, mi pare ovvio, l’autore gli ha voluto attribuire, avrebbe dovuto, con un piccolo sforzo interpretativo, tradurre in “un solo giorno”. Ma anche questo, come tutto il resto, non è che un mio modesto parere.

giovedì 30 settembre 2010

Stefano Benni. "Pane e Tempesta".



Non si può non ridere e non si può non piangere tutte le volte che si legge un libro nuovo di Stefano Benni.
In un mondo che si spinge fino all’inverosimile, con personaggi di pura fantasia (e che fantasia!) e storie che solo una mente sopraffina come quella dell’autore può riuscire a concepire, Pane e tempesta ripropone il tema preferito di Stefano Benni: il piacere, le vere emozioni e la pace (non solo quella interiore) e, infine, la libertà si ritrovano solo nelle piccole cose o in quelle che la natura ha creato, mentre l’uomo, con la sua avidità e la bramosia di onnipotenza, perderà questi privilegi per sempre. E per un siffatto tema, l’impalcatura del romanzo non poteva che essere quella meglio collaudata: piccoli, poveri, disgraziati, afflitti da mali, insignificanti esseri sotto la volta celeste, si organizzano e si impegnano in difesa, appunto, delle piccole cose e della natura, schierandosi contro la prepotenza economica che minaccia di distruggerle. Nello scontro che ne verrà fuori, si riderà per la goffaggine dell’impresa e si piangerà per gli ideali posti in ballo e l’incapacità di poterli salvare.
Il luogo è un piccolo villaggio di provincia, Montelfo, dove tutti si conoscono e si rispettano e dove la vita sembra potere procedere tra gli alti e bassi degli screzi fra vicini, degli amori e le gelosie dei ragazzini, della memoria storica del luogo con le sue interpretazioni non sempre condivise.
Un giorno, però, una pala meccanica comincia ad avanzare nel bosco circostante, minacciando di annientare il belvedere del Bar Sport, per costruire un mega centro commerciale. Gli abitanti, allora, spronati dagli anziani, abituati a mangiare “pane e tempesta” riuscendo sempre a farla franca, si coalizzano, per evitare che ciò avvenga. Naturalmente, la strenua difesa non è solo della vista sul bosco che si gode dal Bar, questo lo sanno bene tutti quanti, ma comincia da quella, dato che il Bar Sport (la piccola cosa) è il cuore pulsante della loro stessa vita e ciò che circonda il villaggio (quel che la natura ha creato) il suo scudo di protezione, che non sembra più apparire solido e duraturo come un tempo.
Nel viavai di personaggi, ciascuno con la propria identità (che si riflette anche sul nome: Ispido Manidoro, Trincone Carogna, Sofronia, Rasputin, Archimede detto Archivio, Frida Fon, lo gnomo Kinotto, Simona Bellosguardo e così via) e con i propri aneddoti (nel più tipico stile benniano), però, lo spazio per le ipocrisie e per i voltagabbana cresce in maniera vertiginosa man mano che le ruspe vanno avanti, fino al punto in cui ormai risulta chiaro il destino del Bar Sport e dello stesso volto del villaggio. Ma proprio nel momento peggiore, il nonno stregone, da una parte, e i giovani Alice Salvaloca e Piombino, dall’altra, come dire passato e presente, imparano a conoscere un nuovo concetto di libertà, purtroppo, relativo, ma che forse, s’intuisce, gli darà una nuova speranza.

lunedì 27 settembre 2010

Natsuo Kirino, “L’isola dei naufraghi”.

La trama di questo romanzo non è per niente originale: in un breve lasso di tempo, anche se a più riprese, approdano su un'isola disabitata dall’uomo più persone, che prima di pensare al modo per riuscire a tornare nel mondo civile, si trovano a dover fare i conti con la loro stessa sopravvivenza. Passeranno gli anni, ma rimarranno sempre là, dimenticate da tutti.L'originalità sta, invece, nel fatto che il gruppo di naufraghi è costituito da 35 uomini, di cui 24 giapponesi e 11 cinesi, e da una sola donna che, con i suoi quarant'anni passati, è la più grande d'età.Intorno a queste circostanze, spiattellate subito, nelle prime due-tre pagine del libro, l'autrice descrive un decennio di vita sull’isola, facendo vivere al lettore il crescendo di umori e il modo sempre più distorto di percepire la realtà da parte dei protagonisti. A tal proposito, encomiabile è la percezione di come l’influenza della vita civile sui naufraghi col tempo venga meno, finendo col determinare nel gruppo un equilibrio che da principio poteva sembrare inconcepibile. Amori e odi, coalizioni e litigi, speranze e delusioni sono tutte riportate ad un ambiente ristretto e assolutamente inconsueto che, a mo' di tavolo di laboratorio, rivela un esperimento a vivo sulla psiche umana.Con l'isola dei naufraghi la Kirino (autrice che, a quanto apprendo, è tra le più apprezzate in Giappone) ha portato a termine un'opera a mio giudizio difficilissima, dato il poco spazio che era rimesso alla fantasia, sapendola, anzi, imbastire di colpi di scena e capovolgimenti di fronte nei punti giusti.Anche lo stile narrativo adottato mi sembra originale, o quantomeno inconsueto, dato che, per la prima metà del romanzo può rappresentarsi come un grande pennello che passa e ripassa sullo stesso punto, rilasciando ogni volta una quantità di vernice in più, rendendo l’immagine via via sempre più nitida. E' l'immagine dell’equilibrio che i naufraghi trovano sull'isola, dopo lunghi anni di difficile sopravvivenza. Superata la metà, invece, gli eventi conoscono una svolta inattesa e, con essa, si ha anche un’accelerazione nella narrazione: non più un passa e ripassa, ma uno stile fluido, forse a volte anche precipitoso, che lo porta verso un finale, vi assicuro, inatteso e, a tratti, perfino emozionante.Messa da parte la noia che -questo va pur detto- di tanto in tanto mi ha accompagnato nella lettura, l'isola dei naufraghi va certamente considerata un'opera interessante e gravida di spunti di riflessione.

mercoledì 15 settembre 2010

Jonathan Coe, “I terribili segreti di Maxwell Sim”.


Il genio è tornato e lo ha fatto alla grande!
Ogni volta che leggo un romanzo di Coe la sensazione che ricevo è, al tempo stesso, di stupore e riverenza per il modo in cui l’autore riesce a rendere inscindibili fra loro i tre elementi del tema principale, della trama e dello stile narrativo, facendoli diventare ciascuno indispensabile agli altri e viceversa, rendendo l’opera unica nel suo genere ed originalissima.
Questo, come dicevo, mi accade ogni volta, ma con i terribili segreti di Maxwell Sim Jonathan Coe è riuscito a superare sé stesso. E questa non vuole essere una frase fatta, per dire soltanto che il libro è bellissimo e certamente degno di essere letto, ma proprio che chi lo legge riceve la netta sensazione che l’autore abbia messo sé stesso alla prova, per sperimentare nuovi metodi narrativi e compiacersi, man mano di più, di ciò che è andato creando, in un crescendo che lo ha portato ad un finale scoppiettante in cui (questo non lo dovrei dire per non togliere il piacere a chi deve ancora leggerlo, ma non riesco proprio a tenermi abbottonato) il protagonista principale, nonché narratore in prima persona, dopo un lungo travaglio interiore, che dura tutto il romanzo, scopre di essere null’altro che il frutto della fantasia del suo autore, recriminando una propria vita che non dipenda dalla sua penna (ecco, quel che non dirò sarà solo lo strabiliante modo in cui tali scoperta e recriminazioni avvengano).
La storia è accattivante, perché descrive con toni leggeri, e a volte persino con punte di pura e straordinaria ironia, la parabola di un uomo in preda alle sue stesse paure, vittima di continue disavventure, anche di quelle che riemergono dal passato, e dello stesso sistema che fa da cornice alla sua esistenza. E’, come s’intuisce presto (e come rivela anche l’editore nella quarta di copertina definendolo un romanzo picaresco), una parabola che porterà il protagonista, dapprima, sempre più in basso per poi, dopo aver toccato il fondo degli abissi, farlo riemergere fin oltre lo status e la condizione iniziale.
Il tema principale è la solitudine, nelle sue diverse manifestazioni esteriori, come l’incapacità a relazionarsi con gli altri oppure il desiderio inappagato di comunicare, ma ci sono anche gli altri temi, mai dimenticati da Coe nelle sue opere, del senso sociale delle cose, della politica affaristica e delle ingenuità in cui viene colto l’uomo del ventunesimo secolo che non sia bravo a stare al passo coi tempi.
Ogni capitolo, ma forse dovrei dire meglio, ogni paragrafo, se non ogni parola, è misurato al fine di descrivere al meglio il personaggio Maxwell Sim nella sua genuinità, nella sua purezza. Così, anche il lungo processo che lo condurrà a venir fuori da quella che oggi verrebbe definita genericamente una crisi depressiva nasce da una immagine apparentemente normalissima, che lo colpisce tanto. Un’immagine che si ritrova a contemplare e che in lui funziona da fanale: una donna con la figlia sedute lietamente al tavolo a giocare a carte.
Peccato solo per Maxwell Sim, che vive in Inghilterra, che quella immagine gli sia apparsa davanti solo quando si trovava in Australia e che per poterla tornare a contemplare e potere sperare, come nei suoi sogni, di entrarne a far parte dovrà attendere di superare numerosi ostacoli. Solo (da solo) con le sue forze.
Mi aspettavo tanto da questo libro e ho avuto anche di più!

mercoledì 8 settembre 2010

Marie Fadel, Rafik Shami, “La città che profuma di coriandolo e di cannella”


Il libro coniuga il piacere di una passeggiata immaginaria fra le vie di Damasco e quello di apprendere, al tempo stesso, le ricette più tipiche della Siria, nella loro versione damascena.
Gli autori, fratello e sorella, vivono l’una ancora a Damasco e l’altro in Germania, in esilio forzato. L’idea del libro nasce dalle loro chiacchierate telefoniche tra un paese e l’altro, nelle quali, fra un ricordo personale e un accenno a fatti di pubblico dominio, vengono fuori curiosità, impressioni personali e, perché no, anche notizie storiche della capitale siriana, intervallate da numerose preziose ricette.
Le ricette, dal canto loro, oltre ad essere allettanti, sono descritte in modo tale da rivelare al lettore, oltre agli ingredienti con le loro dosi e le modalità di preparazione, gli accorgimenti utili a renderle quanto più simili a quelle volute dalla tradizione.
Inutile dire di più, se non che l’opera si presenta come assolutamente originale e suscita uno spirito emulativo.

Silvia Avallone, “Acciaio”.


Questo è un libro che più volte ho preso fra le mani in libreria e poi posato, certo di non volermi sorbire un mattone, quale appariva leggendone la sintesi velocemente. Dopo aver appreso, però, che ha vinto il Premio Campiello come opera prima ed è risultato finalista al Premio Strega, mi sono deciso a comprarlo, se non altro per saperne parlare.
Ecco cosa ne penso dopo averlo letto.
Non è un mattone, ma non è neanche una lettura distensiva.
Nello stile è facile, armonioso e scorrevole, mentre la narrazione appare alcune volte scontata e prevedibile, anche se ha il pregio di trattare avvenimenti crudi e descrivere personaggi tristi senza pesare troppo. Ciò, perché s’intuisce che, alla fine del tunnel, residuerà comunque la speranza per tutti di poter beneficiare, in misura maggiore o minore, della gioia di vivere. Anzi, proprio quella speranza il più delle volte viene vista come la molla per i personaggi per trovare il coraggio e la forza d’animo per evadere, se non altro coi sogni, dallo stato in cui versano quotidianamente.
L’ambientazione ricorda quella magistrale del “Non ti muovere” della Mazzantini ed è fatta di palazzi scalcinati di periferia, bambini che giocano per strada, urla e parolacce che volano dai balconi delle case e, soprattutto, dalle ciminiere della fabbrica che dà pane, fatica, speranza e a volte anche la morte.
Due ragazze, Anna e Francesca, sono al centro della scena, ma la scelta non è che occasionale, potendovi essere al posto loro qualunque altro dei personaggi descritti, essendo tutti parte del racconto e parte di un mondo fatto di ruggine e gatti smorti.
Qui, per citarne alcuni, si intrecciano, infatti, le storie dell’amicizia adolescenziale di Anna e Francesca, appunto, ma anche dell’amore trascinato fra Alessio ed Elena, della gelosia possessiva di Enrico, della sottomissione di Rosa, della pazienza di Sandra e della doppia vita di suo marito.
E’ dalla mescolanza delle loro vite, dunque, che si apre il sipario su uno spaccato verosimile, attuale ed anche molto ampio della nostra società, che non va aiutato come si fa per i bambini africani che muoiono di fame, non va sostenuto come si fa con le donne musulmane che si ribellano al burqa, non va protetto come si fa con le popolazioni indigene dell’amazzonia, ma che va comunque tenuto in considerazione tutte le volte che noi italiani ci interroghiamo chiedendoci: chi siamo?
Il premio attribuito a questo romanzo mi trova d’accordo, ma sol perché gli è stato conferito nella sua veste di opera prima. E’, secondo me, un più che valido incoraggiamento ad un’autrice di cui, sono certo, sentiremo parlare per parecchio tempo e di cui leggeremo opere ancor più belle di quella d’esordio.

Francesca Melandri, “Eva dorme”.


Eva dorme è il primo romanzo della sceneggiatrice Francesca Melandri.
L’ho comprato perché un’opera prima desta sempre curiosità, ma soprattutto perché si presume sempre che il suo autore abbia dato il massimo per presentarsi al mondo dei lettori.
Alla fine non me ne sono pentito, nonostante abbia speso una cifra folle per averlo.
La storia è semplice: Eva Huber, altoatesina, figlia di un padre che lei sola non conosce e di una madre che ha subito le umiliazioni della povera gente negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, viene raggiunta telefonicamente da Vito, un ex carabiniere calabrese, l’unico uomo che stava per sposare sua madre e che, soprattutto, avrebbe degnamente ricoperto la figura del padre che lei non ha mai avuto. Vito sta per morire e vuole vederla per l’ultima volta, dopo trent’anni che fra loro non c’è stato più alcun contatto.
Nel viaggio in treno, l’unico mezzo di trasporto che trova disponibile nel giorno di pasqua, Eva ripercorre con la memoria i giorni della sua infanzia che hanno preceduto l’ingresso di Vito nella sua casa, fino a quello in cui lui, inaspettatamente, ne è uscito per sempre.
In modo più che originale, alternati ai capitoli narrati da Eva in prima persona (che portano al posto del titolo la numerazione dei chilometri percorsi in treno), ve ne sono altri narrati in terza persona (e che portano in luogo del titolo gli anni a cui si riferiscono), in cui un narratore esterno ripercorre la storia della famiglia Huber, dal 1919 fino al 1992, movendo dalle vicissitudini del nonno materno di Eva, Herman, fino ad arrivare a quelle di sua figlia Gerda, madre di Eva, e dei suoi fratelli.
Nel libro, quindi, c’è quasi un secolo della storia d’Italia, ma più precisamente (ed è proprio questo il punto), c’è un quasi secolo della storia di una piccola regione incastonata fra le Alpi italiane ed austriache che si chiama Alto Adige o Südtirol, la quale, se è divenuta formalmente già dal 1919 suolo italiano, non sempre viene riconosciuta come tale da chi ci vive né viene trattata come tale da chi vi deve far rispettare le leggi. Ci sono il fascismo ed il Südtiroler Volkspartei, ci sono Silvius Magnago ed Aldo Moro, ci sono la strage alla stazione di Bologna ed il rastrellamento di giovani ribelli svoltosi a Tesselberg (Val Pusteria) nel settembre del 1964, e tanto altro ancora. Restano fuori solo gli -ormai tardivi- accordi di Shengen del 1998, che eliminano ogni confine fisico fra Südtirol (Italia) ed Austria, quando ormai la globalizzazione e gli interessi sovranazionali hanno seppellito ogni interesse prima fatto valere con la forza e la violenza.
Il romanzo è, dunque, la rievocazione storica, in tempo di pace, di episodi, per lo più drammatici relativi ad una integrazione forzata di un popolo straniero in territorio italiano, che l’autrice stessa afferma in epilogo essere stati già dall’epoca insabbiati o, alla meglio, portati a conoscenza dell’opinione pubblica in forma molto attenuata, se non addirittura falsata.
Le prime pagine mi hanno fatto, non poco, storcere il naso, perché non comprendevo bene quale fosse l’oggetto del racconto, se un vero racconto vi fosse o se vi fosse quantomeno un filo logico da seguire. Poi, andando avanti ho cominciato a comprendere, e gustare, la narrazione, giungendo, come dicevo, infine, ad apprezzarlo.
Gli unici appunti che mi viene da fare sono che da una sceneggiatrice navigata come la Melandri (che, da quel che apprendo ora, ha firmato molte serie tv di successo, tra le quali Fantaghirò) mi sarei aspettato maggiori dialoghi, più fantasia ed una più attenta descrizione di luoghi, persone e cose; mentre, invece, tutto ciò è ridotto all’essenziale. Inoltre, che, seppur soltanto in rari casi, gli avvenimenti realmente accaduti sono trattati come su un manuale di storia moderna, in maniera troppo analitica.
In ogni caso, il libro, opera prima della Melandri, merita di certo una lettura.

Maurizio Maggiani, “Meccanica celeste”.


Mi tolgo tanto di cappello di fronte ad un romanzo che non è un romanzo, di fronte ad una rievocazione storica degli avvenimenti, dei personaggi, delle credenze popolari e dei desideri tenuti nel cuore per una vita intera in un mondo, qual è quello descritto dall’autore, fatto di poche case sparse, alcuni villaggi, e tanti volti che sanno fare parlare di sé; un comprensorio limitato, non meglio specificato se non col termine di “distretto” sulla parte più settentrionale degli Appennini; una civiltà chiusa in sé, ma al tempo stesso completa e fiera.
L’occasione è originale: a breve verrà al mondo la prima figlia del narratore (almeno, che sia femmina è quel che lui spera) e nel desiderio di lasciare alla nuova creatura la memoria dei luoghi in cui potrà, solo per scelta sua, vivere per sempre, si avvicendano e si intrecciano i personaggi bucolici, malinconici, strampalati e divertenti, saggi e mistici, dai nomi più suggestivi come la Duse, la ‘Nita, la Santarellina, l’Omo Nudo, l’Amanteo, Don Gigliante, il Valanga e così via, con avvenimenti storici del distretto o con altri di più ampia portata, già noti al resto d’Italia ed al mondo intero, come la strage alla stazione di Bologna o i conflitti mondiali del ventesimo secolo.
Anche la nascitura, infatti, se lo vorrà, come non manca di sottolineare il suo futuro padre, sarà parte di quel mondo, ed è perciò bene istruirla ad esso. Perché, come nella meccanica celeste, appunto, nulla avviene per caso e ad ogni causa consegue un effetto, così anche gli intrighi e i misteri, le amarezze e le speranze del distretto, in cui persino le leggi dello Stato stentano a penetrare, hanno da sempre funzionato come ingredienti di una vita sana e soprattutto libera, ed è bene preservarli.
Personalmente, non ho mai amato i romanzi in cui manca una vera e propria trama, ed è per questo che ho definito la Meccanica Celeste di Maurizio Maggiani un non-romanzo, ma l’opera è così accattivante ed ogni episodio narrato così curioso e interessante che l’attenzione e il coinvolgimento in chi legge rimangono sempre alti. Lo stile, del resto, è molto scorrevole, nonostante le lunghissime digressioni. Anzi, proprio la mescolanza di fatti che ne viene fuori, l’accavallarsi di ricordi, il saltare da un avvenimento ad un altro per poi tornare indietro, dà il giusto senso letterario che l’autore, ritengo, aveva immaginato: il desiderio del narratore (questa volta) di non tralasciare nulla, con la consapevolezza, però, di non riuscirvi, avendo troppe storie importanti e significative da raccontare.
Un libro da leggere e conservare come un bel ricordo.

Khaled Hosseini, “Il cacciatore di aquiloni”.




E’ certamente uno dei libri più conosciuti, più venduti e più letti degli ultimi tempi, e per questo non ha bisogno di nessuna presentazione. Mi limiterò pertanto a fare solo qualche breve considerazione, ora che anch’io, finalmente, ho avuto il piacere di leggerlo.
Anzitutto, non posso non rilevare che il clamore che ha suscitato nel mondo dei lettori sia da ritenere più che fondato. Pensavo, infatti, specie dopo aver letto decine di libri di autori mediorientali, come pachistani, siriani, turchi, eccetera, o quantomeno di autori che trattano storie ambientate in medio oriente, di ritrovarmi di fronte alla storia schietta e ormai, ahimè, consueta, di lotte intestine, incomprensioni politiche, maltrattamenti, fughe, prevaricazioni, rigidi principi o norme di comportamento sulle cui origini si indaga. Invece, ho trovato una vera opera letteraria che va ben oltre al retroscena politico e sociale dell’Afganistan e della sua cultura, pur senza prescinderne. E’, infatti, un’opera dai contenuti forti, ma dallo stile delicato ed accattivante; in cui sia il retroscena reale che la fictio narrativa risultano tanto drammatici quanto i volti dei personaggi, i dialoghi, le scene e gli avvenimenti sono descritti in maniera limpida ed espressiva da sembrare tangibili.
Per queste doti, che certamente l’hanno portato ad essere tanto apprezzato e amato dai lettori, il cacciatore di aquiloni può essere definito, a mio giudizio, l’antesignano di tutti i romanzi ambientati in medio oriente che oggi gli editori fanno a gara a mettere sul mercato (date una scorsa ai banconi delle librerie per rendervene conto).
Un merito in più, quindi, che merita di essere menzionato.
Sul punto, peraltro, non posso fare a meno anche di osservare, non senza ironia, che proprio il commento, l’unico, che si trova impresso sulla copertina del libro (“un libro indimenticabile, emozionante come pochi”), reca la firma di un’autrice sudamericana per eccellenza, Isabel Allende, quasi a simboleggiare il passaggio di testimone da una moda ad un’altra, che ci ha portati a spostare l’obiettivo da una regione remota della terra all’altra.
Infine, mi piace ricordare Il cacciatore di aquiloni, non soltanto perché suscita l’interesse ad approfondire le ragioni storiche che hanno permesso la drammatica ascesa di potere dei talebani in Afganistan, le stesse che, da ultimo, hanno portato a violente guerre che hanno interessato il mondo intero, ma anche perché, in termini più generali, invita a riflettere sulle conseguenze (spesso negative) del potere egemonico degli stati forti su quelli deboli, specie nel momento in cui questi ultimi vedono minacciata le propria stessa cultura e l’identità del loro popolo.

giovedì 1 luglio 2010

Wendy Law-Yone, “Il seme del papavero”.


Una piccola delusione per un libro che, nel complesso, comunque, mi è piaciuto.
Come spesso accade, le note critiche che accompagnano i romanzi, specie se sono fatte dagli editori che li commercializzano, tendono a sottolinearne qualità che non si rivelano affatto o che compaiono, ma in misura decisamente più ridotta di quel che si lascia intendere. Il risultato è che, chi si è lasciato convincere dalla quarta di copertina, al termine della lettura ne ha una delusione.
Così è capitato a me leggendo Il seme del papavero. L’editore lo ha definito “intenso ed emozionante… la storia di una donna e di una rivincita. Un viaggio pieno di luce e di colore dentro un’Asia vivissima e crudele”.
Sarà forse perché recentemente ho letto tanti romanzi di provenienza orientale, forse perché sento ancora le vibrazioni di “Shantaram”, di Gregory David Roberts, il sapore amaro di “Ombre bruciate” di Kamila Shamsie, le contraddizioni di “Mehwish parla al sole” di Uzma Aslam Khan, ma proprio nel seme del papavero non ho ritrovato quell’Asia vivissima e crudele a cui altri mi avevano abituato. Così come non mi è sembrato né intenso né tantomeno emozionante. Da qui la delusione.
Il libro, però, per fortuna mia che l’ho letto, ha altre qualità. La prima fra tutte è uno stile narrativo avvincente: l’autrice, infatti, ha scelto di ripercorrere la vita di Na Ga, la protagonista, intercalando il procedere lento delle giornate che precedono il ritorno al suo (ormai, divenuto) sconosciuto paese d’origine ai ricordi più o meno vivi delle vicissitudini che l’hanno accompagnata per tutta la vita, da quando, da bambina, è stata venduta come schiava, passando dalla promessa, poi tradita, di andare a vivere in America con la famiglia che per un breve tempo si era presa cura di lei, fino ad arrivare agli anni in cui è stata costretta alla prostituzione e al carcere. Il tutto, lasciando trasparire coi tempi giusti la mentalità di Na Ga, il difficile approccio fra la sua cultura e quella occidentale e le origini della confusione mentale in cui si trova all’epoca in cui viene raccontata la sua storia.
Un altro pregio che si deve riconoscere al romanzo è il tema trattato, dato che, come lascia bene intendere, quella di Na Ga non è una storia isolata, ma altro non è che una fra le tante in cui versano ancora oggi moltissime donne originarie delle zone più remote dell’Asia che solo chi come l’autrice, originaria della Birmania, ma ormai naturalizzata cittadina americana (seppur residente in Inghilterra), può raccontare.
Infine, il miglior pregio che ho ricavato dal libro è quello che si riassume nel detto: la speranza è l’ultima a morire. Se, infatti, per tutta la trattazione affiora costantemente il desiderio di Na Gadi dare un senso alla sua vita, ricevendo però anche, tutte le volte, una delusione, nel finale, come un fiore nel deserto, si concretizza un’amicizia, nata per caso, per errore, ma conquistata e, apparentemente indissolubile, e soprattutto che, sembra tale da assegnare finalmente una direzione a una vita che, finora, non l’aveva mai avuta.
“La via per Wanting”, ovvero per il luogo simbolico, la città, Wanting, in cui la narrazione concede definitivamente il dono di una vita che abbia un senso alla protagonista, peraltro, è il titolo originale del romanzo (The road to Wanting). Chissà perché l’editore italiano lo ha poi cambiato in “il seme del papavero”? Mah!

Jamie Ford, “Il gusto proibito dello zenzero”.


Se il romanzo narra la storia d’amore travagliata, commovente a tratti deliziosa e certamente avvincente di due ragazzini appena adolescenti negli Stati Uniti d’America del 1942, il libro racchiude ben altro.
Tanto per cominciare, i due ragazzini, Henry e Keiko, pur essendo americani a tutti gli effetti, per essere nati in America, provengono da famiglie asiatiche di paesi diversi: la Cina, nel caso di Henry, e il Giappone, nel caso di Keiko, il che, nel luogo e nell’epoca in cui si svolgono i fatti, si traduce in un ostacolo insormontabile all’espressione libera dei loro sentimenti. Quel che viene fuori, anche presto, però, non è -come ci si può aspettare dapprincipio- la trita e ritrita solfa sugli emigrati provenienti da ceppi culturali molto ben radicati che pretendono di far proseguire nei loro discendenti, nati in terra straniera, le usanze e le tradizioni del popolo di appartenenza.
Il tema, infatti, parte da questo ma va ben oltre.
Nel 1942 è in atto la guerra. Il secondo conflitto mondiale, che ha visto un’escalation vertiginosa di odio degli Stati Uniti d’America, e degli americani, nei confronti del Giappone, e dei giapponesi, dopo l’attacco di Pearl Harbor. Non solo, cioè, dell’odio metaforico fra nazioni che si contendono il controllo strategico, economico e militare dell’Oceano Pacifico, ma dell’odio vero, materiale, fra la gente del popolo, vissuto per le strade delle grosse città statunitensi. Un odio che è dilagato grazie soprattutto all’ignoranza, la quale è sempre rimasta indifferente ai dati reali, per prestare ascolto maggiormente alle apparenze. Proprio per questo, la drammatica sorte che è spettata ai giapponesi in America ha minacciato costantemente persino Henry che, essendo origini cinesi, ha avuto la sfortuna di avere i tratti somatici simili a quelli di Keiko.
In questa chiave ben marcata, il libro si spinge fino a dar conto di un vero paradosso storico che è sempre stato sottaciuto: gli Stati Uniti d’America, che un vero popolo con la sua identità e la sua storia non lo hanno mai avuto, a metà del ventesimo secolo si sono spinti fino al punto da relegare in campi di concentramento tutti gli uomini di etnia nipponica, formalmente sol perché era in atto la guerra contro il Giappone. Ciò senza pensare che i civili residenti in America provenienti dal Giappone erano americani allo stesso modo di tutte le altre genti che erano provenute dal resto del mondo. A chi, infatti, in quegli anni è venuto mai in mente di discriminare allo stesso modo gli oriundi Italiani o tedeschi che risiedevano in quel paese? A nessuno. Eppure, proprio i paesi da cui questi ultimi provenivano formavano col Giappone il famoso Asse Roma-Berlino-Tokio. Il paradosso ben delineato nel libro, allora, in termini più appropriati si definisce come una vera e propria manifestazione di razzismo, di violenza psicologica, di violazione di tutte le regole morali e di tutte le norme giuridiche sul rispetto della persona umana, che hanno fondamento nell’ignoranza ed in cui, ancora una volta, ahinoi, nello sfondo c’è la grande America.
Il libro è bello e profondo. E’ da leggere certamente, anche se a scriverlo è stato un proprio un americano.

martedì 15 giugno 2010

Alessandro Baricco, “Barnum. Cronache dal grande show”. Feltrinelli Editore, 1995.


Alessandro Baricco, “Barnum. Cronache dal grande show”. Feltrinelli Editore, 1995.

Leggere a poco a poco, come ho fatto io, Barnum, la selezione degli articoli che Alessandro Baricco ha pubblicato con cadenza settimanale, fra il 1994 e il 1995, sul quotidiano “La Stampa” equivale a centellinare il piacere delle geometrie che presenziano alla formazione del pensiero dell’Autore e rivivere al tempo stesso, con senso nostalgico, almeno in parte, fra le pieghe meno scandagliate degli anni novanta.
Barnum, infatti, è un vino dolce, che va sorseggiato lentamente, posato e poi ripreso, perché ogni capitolo costituisce un ecosistema a sé stante che soltanto così può essere assaporato fino in fondo.
Avete mai goduto di uno spettacolo nel vederlo mal rappresentato, grottesco o tanto banale da suscitare tenerezza? E, inoltre, vi siete mai trovati a prestare più attenzione agli spettatori, alla preparazione o al contesto che non allo spettacolo vero e proprio messo in scena? Ebbene, Barnum rivela i sentimenti suscitati da tutto ciò che è stato davanti e dietro le quinte, mentre si viaggia in un mondo che va dagli show televisivi alle manifestazioni di piazza, dai grandi concerti che hanno segnato un’epoca, alle feste di quartiere, accompagnati dalla sottile ironia dell’autore e dalla sua spietata, ma convincente, rappresentazione della realtà dei fatti.

venerdì 11 giugno 2010

Massimo Gramellini, “L’ultima riga delle favole”. Longanesi Editore, 29 aprile 2010. Pp. 260. € 16,00.


Massimo Gramellini, “L’ultima riga delle favole”. Longanesi Editore, 29 aprile 2010. Pp. 260. € 16,00.

Leggiucchiando qua e là i commenti di chi ha avuto per le mani prima di me “L’ultima riga delle favole”, ho trovato spesso toni entusiastici per quella che è stata definita una nuova “favola” (guarda caso), creata ad arte per imparare “a sorridere dei propri limiti e a credere di più in sé stessi” (cito testualmente Feltrinelli in lafeltrinelli.it).
L’ultima riga delle favole è la storia fantastica (inteso qui come sinonimo di inverosimile, inventato, frutto della fantasia e irrealizzabile) di Tomàs, un uomo come tanti, che nel momento in cui crede di esser morto, scopre invece di essere finito in un mondo parallelo, dal nome accattivante delle Terme dell’Anima. Alle Terme, gli viene detto di esser finito lì grazie solo al suo desiderio recondito di voler provare amore; un desiderio, a quanto pare, venuto fuori al momento giusto. Dapprima scettico, perché convinto di non potere più amare, Tomàs si comincia a ravvedere quando gli appare chiara l’immagine di Arianna, esattamente così come l’aveva immaginata nel momento in cui credeva di stare morendo. Da lì, dunque, comincia il suo percorso alle Terme, per ripulire il suo cuore e tornare ad essere un vero uomo, ossia, come imparerà alla fine del percorso, un essere che ama.
Dopo essere stato combattuto a lungo sul genere letterario da attribuire all’opera di Gramellini, mi sono deciso anch’io di definirla una favola, ma con alcuni limiti.
Il primo limite riguarda la narrazione. L’azione è quasi del tutto azzerata: ciò che predomina, infatti, sono i dialoghi che malcelano, più che spesso, direi sempre, le elucubrazioni tardo-adolescenziali intorno a concetti quali l’amore, il desiderio, la scoperta del proprio io, il rapporto con gli altri, la fiducia in sé stessi e così via.
Inoltre, manca il senso dell’avventura, come inizialmente sembra doversi ritrovare; mancano le descrizioni dei luoghi (non perché ci devono stare, ma perché avrebbero fatto bene ad esserci), come dire, manca la scena, l’ambientazione è scarna; manca inoltre la rappresentazione visiva dei movimenti e dei gesti dei protagonisti, quasi a sottolineare ancor di più che ciò che si voleva esprimere sta solo in quei dialoghi e la storia, se vi piace, inventatevela voi.
Un altro limite riguarda lo stile, che mi è apparso troppo asciutto e finalistico. Ma non sarà un caso, penso anche, che l’autore, prima che scrittore, sia anche un giornalista. In sostanza, la morale della favola non è lasciata alla sensibilità di chi legge e che la trae sapendo andare al di là delle righe. No, per niente. La morale è nelle parole, nelle frasi e nei versi che la favola stessa riporta. Peccato.
Un ultimo limite, infine, sta nel prezzo. Senza volere apparire critico (più di quanto non lo sia già stato), trovo un po’ esagerato pagare sedici euro una favoletta che si legge in una notte (caldo e zanzare permettendo). Ma ciò non per sottolineare l’eccessiva breve durata del piacere in raffronto al prezzo, quanto pensando alle tante altre favole che non mi concederò per non finire squattrinato (chissà, forse anche questa, se non mi fosse stata regalata… Ma no, questa no, l’ho chiesta e voluta io!).
Ora, per concludere, mi darete per contraddittorio, perché per dare un mio giudizio complessivo, finirò per dire che L’ultima riga delle favole mi è piaciuta. Eh già. Proprio così! Certo, non sono entusiasta come chi mi ha preceduto, ma nel vestire per una notte i panni dell’adolescente che non ha avuto ancora il tempo di riflettere sulla natura dei propri sentimenti e sulle dimensioni delle proprie emozioni, ho provato un vago e piacevole senso di nostalgia.
Proprio per questo, anzi, credo che il libro sia destinato ad un pubblico molto giovane o che sente di volerlo ancora essere, quantomeno per una notte!

Laurence Cossé, “La libreria del buon romanzo”. e/o edizioni.


Laurence Cossé, “La libreria del buon romanzo”. e/o edizioni.

Vale la pena leggerlo.
Vorrei limitare a queste brevi e semplici parole il mio commento su “La libreria del buon romanzo” di Laurence Cossé, ma so già che finirei presto per pentirmene.
Eh si, perché l’opera di cui parlo oggi non si presta a ricevere un mero voto di preferenza positivo o negativo: è, infatti, al tempo stesso un romanzo godibile, scorrevole, originale, per certi versi intrigante e che riesce a non stancare mai, pur essendo pressoché privo d’azione, ma anche un gioco, una scommessa dell’autrice con sé stessa, quella di riuscire in un’opera che venga definita, udite udite, con o-b-i-e-t-t-i-v-i-t-à, un “buon romanzo”.
Per non bastare, poi, è anche spunto di riflessione su temi leggeri, ma che coinvolgono e stanno tanto a cuore ai lettori appassionati (è possibile frenare l’avanzata di libri spazzatura?), oltreché su grandi temi, per giunta economici, della nostra società (può la purezza di spirito sopravanzare l’interesse economico delle grandi società?).
Chi vuole, potrà leggerlo come un poliziesco, trovandolo ugualmente attraente, nei temperati chiaroscuri e nei colori tenui tipici degli autori francesi, ma il suo vero intento, a parer mio, è quello di indugiare sul relativismo del gusto e mostrare che, come spesso avviene, dietro ad una scelta, apparentemente legata ad una personalissima inclinazione, si celano interessi economici o di potere o ancora (ma questo lo scoprirà il lettore) di diversa e più oscura natura.
L’editore lo racconta in sintesi così (riporto testualmente): «due appassionati lettori aprono la libreria dei loro sogni a Parigi. L’inatteso successo di questo “tempio” del buon romanzo scatena invidie e misteriose aggressioni». Si comprende, quindi, subito che tutto ruota intorno all’apertura di una libreria sui generis e numerose pagine, infatti, descrivono l’attività che s’incentra sulla buona riuscita di quel progetto.
Per l’attenzione ai dettagli e, a tratti, per la dovizia di particolari, chi legge non può non immaginare che l’autore abbia vissuto in prima persona l’esperienza che racconta, anche se poi deve finire inevitabilmente per credere che, per quanto verosimili, gli eventi narrati appaiano davvero difficili da realizzarsi. Purtroppo… o per fortuna!Nella mia biblioteca, il libro figura accanto all’Eleganza del riccio, di Muriel Barbery, e non solo -come intuirete solo dopo averlo letto- perché ne condivide casa editrice e impaginatura.

Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera Enaiatollah Akbari”. B.C. Dalai Editore.


Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera Enaiatollah Akbari”. B.C. Dalai Editore.

Ecco. Finalmente ho trovato la parola giusta per descrivere il mio stato d’animo, dopo aver letto il tanto blasonato libro di Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera Enaiatollah Akbari” (ai primi posti delle classifiche nazionali dei libri più letti). La parola giusta è: delusione.
Sono deluso. Già. Proprio così. Perché da un romanzo che annuncia di rivelare la vera storia di un uomo del nostro tempo, ma tanto lontano dalla nostra cultura, che ha conosciuto la fame, la miseria, le legnate date coi bastoni e che ha dormito fianco a fianco con la morte; da un romanzo il cui protagonista dichiara di sentirsi rinato una seconda volta, dopo essere approdato ad una vita che vorrebbe che fosse la sua definitiva, provando per la prima volta il sentimento della libertà, mai sperimentata prima di arrivare in Italia; da un romanzo del genere, dicevo, mi sarei aspettato di più. Molto di più.
Invece, già dalle prime pagine, ho capito che il libro, tanto per cominciare, è ben distante dall’essere, da una parte, un testo letterario e, dall’altra, un documento storico di particolare interesse. Non è arte, perché non c’è nulla, neanche nelle parole del protagonista, che smaterializza la verità facendola assurgere a sentimento trasposto in parole; ma non è nemmeno un documento storico che possa destare interesse, essendo spesso vago, superficiale, frammentario e pieno di vuoti, colmabili paradossalmente col solo ricorso alla fantasia.
Poi, ho capito che l’autore ha ridotto al massimo il suo contributo, quasi al punto da essersi comportato da mero scriva. La sensazione che da, infatti, è questa: l’autore si è messo attrono a un tavolo col protagonista e, senza fargli troppe domande, se non quella iniziale (raccontami gli anni che ti hanno accompagnato dalla tua infanzia in Afganistan fino al tuo arrivo in Italia), gli ha messo sotto un registratore. Al termine del racconto, che ricomprende un decennio, ma che sarà durato si e no un pomeriggio, ha preso la cassetta e l’ha sbobinata. E quel che ne è venuto fuori è un raccontino che ha venduto un sacco di libri.Peccato. Poteva essere davvero un’opera eccezionale. Ci avrebbe potuto far vedere con gli occhi le atrocità di tanta misera gente costretta a lasciare la propria terra e vivere da fuggiasca, nascosta nella bolgia delle metropoli del medio oriente, e viverla con lui in contesti di cultura, tradizioni, religioni, senso della famiglia, della patria e della libertà molto diverse. Ma di tutto questo nel libro non ce n’è che la parvenza, sembrando appena il sunto delle chiacchiere fra due comari affacciate al balcone del comodo occidente.

Andrea De Carlo, “Macno”. Bompiani Editore.


Andrea De Carlo, “Macno”. Bompiani Editore.

Ogni tanto mi viene voglia di leggere qualche vecchio romanzo di un autore che amo tanto. Questa volta è capitato per Macno, di Andrea De Carlo e, dunque, adesso eccomi qui a parlarne, come mi piace fare.
Il libro è esattamente come me l’aspettavo: fluido, interessante e senza colpi di scena. Inoltre, incarna perfettamente lo spirito che accompagna tutti i libri di De Carlo (o almeno quelli che ho letto io, che sono sette), che punta a disincantare il lettore dai falsi sogni e dai vacui ideali. Leggendo, hai la sensazione di volere essere dalla parte del protagonista principale, che è Macno, un dittatore venuto fuori dagli schermi televisivi e che si è imposto grazie alla sua spontaneità; ciò, anche se, sin dall’inizio, proprio lui manifesta comportamenti indecifrabili, oltre che per gli altri personaggi che lo circondano, anche e soprattutto per te.
Solo a poco a poco, man mano che gli eventi si evolvono, senti sempre di più vicina la presenza dell’Autore che ti punta il dito addosso col suo monito: “non è tutt’oro quel che luccica” e te lo ripete, te lo ripete, fino alla nausea, finché ti vieni a trovare di fronte a un bivio e devi scegliere per forza dove andare. O continui sulla strada comoda che avevi percorso prima di imbatterti in Macno, quella degli interessi sicuri, perché è stata la collettività a sceglierli per te e non c’è critica che tu possa temere, oppure ne prendi un’altra, nella quale cominci a capire che i tuoi ideali ed i tuoi sogni possono ben differire da quelli della maggioranza e che, se anche il contesto in cui vivi non se ne renderà conto in tempo, o mai, per la tua integrità morale e per la tua pace interiore, varrà sempre la pena di perseguirli, a costo di soffrire (o persino di immolarti) fino alla fine.
Il libro racconta con l’originalità e la forza descrittiva tipiche di De Carlo gli ultimi giorni di Macno, ripercorrendo nella memoria dei personaggi che lo circondano a Palazzo l’esperienza che lo aveva condotto dall’essere un personaggio televisivo fino a diventare un dittatore. Sono i giorni in cui lui solo, o lui per primo, comprende le ragioni del suo fallimento come capo di stato, ma dai quali, pur morendo (e sempreché la strada intrapresa dal lettore sia quella suggerita dall’autore) esce vittorioso.

mercoledì 9 giugno 2010

Uzma Aslam Khan, “Mehwish parla al sole”


Uzma Aslam Khan, “Mehwish parla al sole”. Neri Pozza Editore.

E’ il romanzo del tentennamento sociale che imperversa nel Pakistan tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del ventunesimo secolo. In un’epoca, cioè, in cui si sviluppa con forza la contrapposizione fra l’integralismo religioso del Partito Islamico della Creazione, ereditato dal generale Zia ul-Haq, che richiede il rispetto rigoroso dei precetti della sharia, e l’ideale laico mirato alla modernizzazione culturale ed economica, incarnato dal primo ministro Zulfikar Ali Bhutto ed il Partito Popolare Pachistano; una contrapposizione che, però, continua a vivere nell’onda di odio, guerre e recriminazioni provocate dai talebani, da una parte, e il “credo occidentale” degli Stati Uniti d’America, dall’altra.
Zahoor, archeologo darwinista, indaga sull’evoluzione dell’odierna balena partendo dal ritrovamento dei resti di un mammifero terrestre incline a vivere nel mare. Il fatto in sé sembra essere assolutamente banale, almeno per noi occidentali, ma non dev’essere (o non dev’essere sempre stato) così nel mondo raccontato dalla Khan. Se, infatti, le due nipoti di Zahoor, Amal e Mehwish, ammirano il nonno e crescono sul suo solco, il loro padre, Aba, le avversa timidamente, paventando che la scienza applicata dal suocero si possa contrapporre ai dettami della Sharia: credere nella scienza significherebbe, infatti, negare la stessa essenza di Dio, sul quale non si indaga e sulle cui manifestazioni non si deve porre alcun dubbio. Per queste ragioni, ma con una lentezza che copre numerosi anni, a causa di un mondo incerto che ha in mente il progresso, ma sembra preoccupato dal non voler disobbedire all’Islam, c’è invece chi avversa concretamente l’archeologo, ed è il Partito Islamico della Creazione, che si serve del contributo fattivo, ma forzato (e l’autrice vorrebbe -ma senza riuscirci- anche “incolpevole”), di Noman, per tenerlo, dapprima, sotto sorveglianza e, poi, al momento (storico) buono, per denunciarlo, vederlo finire sotto processo e, infine, uccidere violentemente, quando ormai sembra che le acque si siano calmate.
La trattazione è originale, in quanto le vicende sono narrate in prima persona da tre personaggi principali (Mehwish, Amal e Noman) dei quattro che si contendono la scena (il quarto è Zahoor), che riportano la loro versione dei fatti, facendoli così rivivere più volte, da angolazioni diverse (il titolo originale “la geometria di Dio” -che non capisco perché è stato cambiato solo in Italia- alludeva proprio alla perfezione data dalla combinazione delle quattro posizioni). Sebbene originale, però, a me non è piaciuta un granché, perché mi è apparsa un po’ troppo farraginosa, avendomi dato a volte persino il senso del disco incantato. Del resto, avrei giustificato (e forse anche apprezzato) la scelta fatta dall’autrice se i personaggi si fossero posti in contrapposizione di idee l’uno con l’altro, mentre invece appare subito con chiarezza che tutti si pongono dalla stessa parte, quella del progressismo. Persino Noman, inventato per rivestire la parte del redento o, più precisamente, di quello che, pur essendo cresciuto sotto l’influsso del partito creato dal generale Zia col tempo si ravvede, appare, sin dalle prime battute, se non proprio contrario al suo partito, quantomeno incerto.
In ogni caso, il libro è interessantissimo e pieno di spunti di riflessione che in queste righe non possono trovare posto per ragioni di spazio. Io lo consiglio vivamente.
Avevo appena finito di scrivere questa breve recensione quando mi sono imbattuto negli occhi languidi di un caro amico originario del Pakistan, che ha ricordato con nostalgia l’epoca che lui stesso ha definito del “grande Zia”. E da lì ho intuito che “Mehwish parla al sole”, nel suo essere spudoratamente di parte, rivela che quel tentennamento sociale di cui ho detto sin dall’inizio è un fatto reale, effettivo, che esiste, ed assolutamente attuale e non lascia immaginare affatto in quale direzione stia viaggiando, ancora oggi, il suo grande paese.