mercoledì 26 settembre 2012

Monika Peetz, “La quinta costellazione del cuore”.


Intendiamoci: il fatto che l’editore lo ha lanciato in Italia sottolineando che il libro si è imposto come un vero caso editoriale, “per il suo successo spontaneo e inarrestabile”, non vuol dire che è o deve essere inteso come un libro di chissà quale spessore. Significa semplicemente che in tanti lo hanno comprato, senza che se ne dica la ragione. Ma la ragione, a mio giudizio, sta nel fatto che il libro è divertente e si presta ad essere letto da una vasta schiera di gente, senza vantare alcuna pretesa di assurgere a gran monumento letterario.
Questa precisazione iniziale era doverosa, perché leggendo in giro i commenti di tanti che lo hanno letto prima di me, ho intuito un senso diffuso di delusione, dato che non vi è nulla di originale o accuratamente rimaneggiato nei temi che pur vengono affrontati, che sono l’amore, la fedeltà, l’amicizia e il rispetto.
E’ la storia semplice e senza tanti fronzoli di un viaggio fatto da un gruppetto di cinque amiche, che ha l’abitudine di riunirsi ogni martedì in un ristorante di Colonia. Un viaggio particolare: il pellegrinaggio verso Lourdes, nel corso del quale la personalità di ognuna viene fuori con prepotenza, scontrandosi e confrontandosi con quella delle altre. Le amiche si trovano, infatti, quasi senza riflettere abbastanza, a convivere a stretto contatto fra loro, in un contesto nuovo, per loro tutt’altro che congeniale e assolutamente inimmaginabile.
Loro sono una mamma perfetta, molto apprensiva e inibita; un’avvocatessa di grido, acuta e apparentemente priva di emozioni; una caduta dalle nuvole che, per di più, vive la sofferenza per la perdita prematura del marito; una giovane ma non più giovanissima, che insegue il sogno di diventare qualcuno nell’azienda in cui lavora; ed una perfetta amante delle frivolezze, del lusso e delle comodità. Con loro si sono portate dietro poco o niente, ma in quel poco hanno messo un sacco enorme di problemi familiari o della vita di ogni giorno e dai quali riescono a staccarsi solo a fatica e non subito.
Nel lento procedere del viaggio, fra un piede dolorante e un chimelhafattofare si creano malintesi, scrupoli, indecisioni, azzardi e offese personali. In una parola, cresce e si impone la commedia. A tratti, la lettura diventa quasi esilarante e, per quel che più piace, senza mai scadere nella volgarità.
Sembra che presto vedremo al cinema la trasposizione di questo libro brillante. Se così sarà davvero, sono certo che il successo arriverà anche nelle sale cinematografiche.
Io avrò voglia di vederla, mentre, nel frattempo, non posso che unirmi al passaparola che ha contribuito tanto a fare accrescere il successo del libro.

Jorge Molist, “Promettimi che sarai libero”.


E’ un romanzo storico, questo non lo si può negare, anche se i grandi eventi che hanno rivoluzionato il mediterraneo sul finire del XIV restano in un secondo piano, toccando quasi incidentalmente le storie dei protagonisti. Molti sono i riferimenti agli usi, agli attrezzi ai manufatti dell’epoca, alle leggi vigenti ed alle abitudini della gente, ma anche in tal caso tutti questi dettagli assumono il valore di nozioni e poco entrano a far parte degli intrecci narrativi.
Inevitabile è il raffronto con la cattedrale del mare, di Ildefonso Falcones, non soltanto perché la storia appare del tutto analoga a quella del bastaixos Arnau e si svolge nella stessa città, Barcellona, nella stessa epoca storica, XIV secolo, ma anche perché lo stesso editore, forse allo scopo di attirare l’attenzione del pubblico sul libro, lo ha lanciato come l’opera che segue naturalmente, e forse vorrebbe completare, la Cattedrale del mare, appunto.
Dal raffronto con quest’ultima opera, però, ne esce assolutamente con le ossa rotte, sembrandone una sintesi poco fantasiosa, poco pregna di particolari, poco emozionante e sensibilmente meno appetibile.
Certo è che, chi vuol passare un po’ di tempo, distraendosi dalla routine quotidiana, può trovare un questo romanzo un passatempo avvincente.
Niente più di questo. Da parte mia, almeno.

Mauro Corona, “La casa dei sette ponti”.


Se il treno vi sta riportando a casa dopo le vacanze o state aspettando un amico e siete pronti già da un pezzo e non sapete come ammazzare il tempo, ecco il libro che fa al caso vostro. Riuscirete a leggerlo tutto d’un fiato forse in poco più di un’ora, ma sarà già un tempo sufficientemente lungo per farvi estraniare dalla realtà che vi circonda.
Come sempre in tutto ciò che è scritto da Mauro Corona, quel che prevale non è la sottigliezza del pensiero, che faccia perciò emergere il raffinato senso di intendere le cose da parte del suo autore, né l’eleganza dello stile o l’accuratezza degli intrecci della fabula, nel quale è bello immergersi a lungo prima di conoscere il finale. No, non prevale niente di tutto questo, quanto semmai la semplicità, a volte persino disarmante, con cui la narrazione viene portata avanti.
Un industriale della seta toscano, capacissimo nel suo mestiere, tanto da essere sopravvissuto all’ingresso dei cinesi nel mercato, quando quasi tutti i suoi conterranei hanno fallito, si ammala di curiosità. La curiosità di sapere cosa c’è e chi vive in una casetta isolata e semi-diroccata che incontra quando percorre le valli interne dell’Appennino tosco-emiliano che conducono ai luoghi della sua infanzia.
La curiosità sarà così forte da trascinarlo in una specie di sogno ad occhi aperti, in cui ripercorre le sue origini, rivede la sua nascita e la via che lo ha condotto a diventare quel che è, ma soprattutto rimane sorpreso nel vedere quante cose ha lasciato alle sue spalle ingiustamente. Nel suo viaggio onirico, rivive la sintesi della sua vita e ritrova la forza per tirare fuori dal proprio cuore il rammarico, la nostalgia e soprattutto il coraggio di ammettere di avere intrapreso, a causa di un demone, di cui il libro tace, ma che potremmo chiamare qui, a nostro uso e consumo, per semplicità, successo, denaro o potere, una via che non gli competeva. In tal modo, per sua scelta, infine, agli occhi del mondo, fallirà anch’egli come gli altri industriali della seta, cedendo il passo all’industria cinese, ma intimamente otterrà una ricompensa morale che lo appagherà più di quanto il denaro, il successo e il potere non erano riusciti a dargli finora.
Un racconto breve che ho già detto essere tanto semplice da risultare disarmante, ma, aggiungo ora, anche tanto fermo da non lasciare spazio a diverse soluzioni. Forse poco originale, ma sicuramente non banale come alcuni hanno commentato qua e là sul web e dai quali mi dissocio apertamente.

Umberto Eco, “Il nome della rosa”.


Era da un bel po’ che non leggevo un libro, per cui, quest’estate, avendo finalmente ritrovato il tempo per farlo, ho voluto riprendere alla grande, andando a sceglierne uno di quelli, che non sono neanche pochi, che prima o poi nella vita tutti dovrebbero leggere. Così la mia scelta è ricaduta sul Nome della rosa, di Umberto Eco.
Premetto di essere stato uno dei tanti ad avere visto e rivisto il film, amandolo ogni volta di più, ma devo anche dire che la lettura del libro - come quasi sempre avviene quando si fa il raffronto tra i due generi di opera - è stata una cosa ben diversa, più suggestiva, ma anche più densa di riferimenti storici, di riflessioni dei protagonisti e di spunti di riflessione per i lettori. E’ vero che, leggendo, sentivo echeggiare nella mia testa la voce del (doppiatore del) grande Joan Connery (che, per chi non lo sapesse, ha indossato, forse nella sua interpretazione in assoluto più brillante, le vesti di Guglielmo da Baskerville, protagonista principale del romanzo) e rivedevo in ogni personaggio i volti che mi erano già noti dalla pellicola, ancorché non rispondessero esattamente alla descrizione che se ne trova sul libro, ma è anche vero che il romanzo, oltre ad essere un vero e proprio giallo, ben costruito ed avvincente, è anche e soprattutto, una fonte ricchissima di informazioni e al tempo stesso di interrogativi e moniti per tutti quelli che han sempre creduto (o preferito credere, per comodità) che la storia sia quella che si legge nei libri di scuola e che nulla di ciò che là si apprende possa essere soggetto a critiche o a diverse interpretazioni.
Il racconto si svolge interamente all’interno di un convento benedettino del Nord Italia, quasi al confine con la Francia, sede di una delle più ricche biblioteche dell’antichità, ove frate Guglielmo da Baskerville viene incaricato di scoprire cosa si cela dietro le morti di alcuni monaci, avvenute misteriosamente nel giro di pochi giorni.
L’epoca è il XIII secolo, periodo contrassegnato da accesi contrasti all’interno della Chiesa cattolica, dovuti soprattutto all’intensificarsi di quell’ideologia (che ha fra i maggiori esponenti San Francesco) secondo cui la Chiesa di Cristo debba pensare a curare la salvezza delle anime, disinteressandosi dei beni materiali e senza doversi necessariamente ricoprire di ori ed ingenti ricchezze. Ideologia che viene avversata da un potere trasversale che, se formalmente fa capo unicamente al Papa, di fatto, conosce una congerie infinita di interessi e poteri forti che, diversamente, se la si lasciasse prendere corpo, finirebbe per sgretolarsi.
Nel contrasto, nei dibattiti e nelle lunghe dispute che ne nascono, però, minaccia di insediarsi l’anticristo, il germe che spiana la strada al diavolo, consentendogli di venire a governare le cose del mondo. E’ pur vero che c’è chi intuisce una tale evenienza, ma anziché gettare acqua sul fuoco, paventandone i rischi, ne approfitta per dar man forte alle sue convinzioni. O necessità. Nasce così, o meglio, si sviluppa a macchia d’olio nello stesso periodo la santa inquisizione. La giustizia divina, affidata agli uomini del Papa, per individuare in tutti coloro che si rivelino contrari ai dogmi divini (o meglio, della Chiesa) tracce di eresia e li condanni al rogo (il vero miracolo è che San Francesco non sia mai stato trattato da eretico!).
Il tema centrale del romanzo è, allora, proprio l’anticristo. Centrale, ma per niente unico o preminente nel romanzo. Il lettore non può non finire con l’indugiare a lungo, anch’egli, come già fanno i protagonisti della storia, sulle diverse forme in cui l’anticristo si manifesta e sui luoghi in cui possa appalesarsi, giacché comprende con  Guglielmo da Baskerville che per sbrogliare la matassa di dubbi e misteri sulla causa e l’autore degli omicidi che avvengono all’interno del convento, ci si deve prima interrogare sulla sua reale portata e se per caso nulla si è fatto nella propria vita per agevolarne l’avvento.
Un romanzo che non spetta a me dire unico, per la sua capacità di appassionare il lettore pur conducendolo in argomenti di non sempre facile comprensione o che siano semplici e scontati, ma che voglio ugualmente celebrare per l’alto prestigio che ha dato alla letteratura italiana. Anzi, anche in forza di quest’ultima annotazione direi che sarebbe certamente degno di sostituire “i promessi sposi” sui banchi di scuola, senza mai fare rimpiangere il vecchio e caro Manzoni.