lunedì 28 marzo 2011

Laurence Cossé, “L’incidente”. Titolo originale: “Le 31 du mois d’août”.

“Il 31 del mese di agosto”, di un anno che il titolo originale del romanzo non svela, avvenne un fatto accidentale che ebbe una eco enorme nella collettività, tale da indurre gli animi di mezzo mondo a riflettere sull’importanza di una vita.
I protagonisti noti di quell’evento (ove “noti” qui sta sia per “personaggi pubblici” che per “protagonisti di cui si è accertata la presenza sul luogo dei fatti”) furono così sfortunati da morire prima di potere raccontare la loro versione. Ma, nell’immediatezza, qualcuno ebbe la prontezza di rivelare che, oltre a loro, qualcun altro certamente era stato presente e aveva visto coi suoi occhi quel che era successo. Qualcuno che, pur essendo stato coinvolto dall’evento, era riuscito a vivere, ma si era dileguato nel mistero più profondo, facendo perdere, ancor più misteriosamente, le sue tracce.
Con un romanzo brillante, uscito per la prima volta in Francia nel 2003, e dunque prima del più famoso “la libreria del buon romanzo”, Laurence Cossé racconta alla sua maniera le ore, i giorni e i mesi successivi alla morte della principessa Diana avvenuta il 31 agosto del 1997, a seguito di un tragico incidente automobilistico avvenuto dentro il tunnel dell’Alma. Le racconta, affidandosi intermente alla sua fantasia, seguendo quasi come con una telecamera nascosta quel personaggio misterioso che ebbe la sventura di assistervi in prima persona, che chiama in maniera semplice col suggestivo nome di Lou.
Al di là delle conseguenze dell’incidente, infatti, le indagini sulle sue cause ritennero di accertare che l’auto in corsa su cui viaggiava Lady D. aveva dapprima urtato contro un’altra auto, che procedeva ad andatura regolare, una Fiat Uno bianca, che tuttavia non è mai stata ritrovata e il cui autista, tanto meno, è stato mai identificato. Quell’autista, nel romanzo della Cossé, è Lou, una ragazza modesta, senza grilli per la testa, felice della sua vita normale e capace di compiacersi delle sue piccole conquiste.
Quando avevo parlato della “libreria del buon romanzo” ne avevo apprezzato soprattutto l’originalità e la capacità dell’autrice di rappresentare fatti inventati in modo tanto realistici da indurre a pensare che l’autrice lo avesse vissuto in prima persona. Le stesse cose direi adesso per “l’incidente”, con l’aggiunta, forse anche condizionata dal raffronto con l’altro, che essendo anteriore, tali caratteri non sono qui ancora compiutamente affermati, ma rivelano decisamente la maestria che avrebbe portato l’autrice a distinguersi oggi.
Quel che è certo è che, rappresentare uno stato d’animo, in un crescendo di emotività, di dubbi, di decisioni prese in extremis e che non consentono di potere tornare indietro, non dev’essere stata un’impresa facile. Tanto più quando, sia pur in modo marginale e non dichiarato, fra gli intenti dell’autrice vi è quello di suscitare un’opinione innocentista nei lettori e molti di questi hanno già, presumibilmente, puntato il dito contro quella maledetta macchina-ostacolo che Lady D. si sarebbe trovata sulla sua strada.
Al di là di ciò, è comunque chiaro un altro messaggio, che mi piace trovare non-scritto nel titolo del romanzo: qualunque evento, bello o brutto, noto alle cronache o rimasto del tutto ignoto al pubblico, se ti tocca da vicino è tale da stravolgerti completamente la vita. Ma soprattutto, per quel che più importa, quell’evento può giungere in qualunque momento, come per Lou è arrivato in un qualunque giorno 31 di un mese di agosto, che poi solo il destino ha voluto far diventare il 31 agosto 1997. In quest’ottica, cambiare il titolo del romanzo non credo che sia stata una felice idea; indagare poi sul perché l’editore italiano lo abbia fatto diventa un’indagine impossibile.

lunedì 21 marzo 2011

Fred Vargas, “I tre evangelisti”.

Fra i libri che ho ricevuto in dono per il compleanno (che è stato il 2 marzo) c’erano tre romanzi di Fred Vargas, pubblicati per la prima volta negli anni ‘90, ambientati a Parigi e accomunati dal fatto di avere gli stessi, particolarissimi, protagonisti, raccolti adesso in un unico volume sotto il titolo “i tre evangelisti”.
Chi ama il genere giallo certamente conoscerà l’autrice, dato che, da quel che ho appreso, sembra essere molto popolare sia in Francia che in altri paesi, ma per me che non la conoscevo, invece, è stata una bella scoperta.
Il primo dei tre romanzi, da titolo “chi è morto alzi la mano”, è il più originale: sembra di imbattersi in un genere nuovo o che, almeno, sappia cogliere un po’ qua e un po’ là spunti diversi da generi diversi, per ottenere come risultato finale un poliziesco in cui le emozioni dei protagonisti non sono il frutto della ricerca dell’omicida di turno, ma quelle che gli stessi vivono per vicende legate a fatti loro personali. Dal canto loro, del resto, Marc Vandoosler, Mathias Delamarre e Lucien Devernois, i tre evangelisti, come li definisce il loro amico Vandoosler, zio di Marc, sono uomini del tutto singolari che hanno in comune di essere sempre al verde e di essere degli storici, legati a filo doppio con l’epoca a cui dedicano i loro studi, a tal punto da esserne condizionati nel comportamento.
Anche per questo, ci si trova spesso a chiedersi se la trama del giallo non sia solo un pretesto per mettere in scena le diverse personalità rappresentate e se magari alla fine del libro si riesca a cavare una morale da condividere. Poi, in realtà, si finisce con l’appurare che la morale ricercata manca del tutto, ma si legge comunque nel complesso un libro che risulta avventuroso, intrigante e perfino divertente.
Nel primo romanzo, i tre uniscono le loro forze per andare a vivere in una casa fatiscente, detta “la topaia”, in una zona di Parigi che non sembra neanche Parigi. L’aria che si respira nel rione sembra quasi familiare e per questo nascono presto amicizie con i vicini. Ciò dura, però, fino a quando la scomparsa inattesa e spiacevole della bella donna della villa ad ovest della topaia non porta necessariamente a rimettere tutto e tutti in discussione.
L’originalità dei personaggi e del loro stile di vita, naturalmente, si perde nel secondo romanzo, che s’intitola “un po’ più in là sulla destra”. Anzi, dispiace un po’ che uno di loro, Lucien, viene quasi del tutto dimenticato e quasi mai citato, mentre un altro, Mathias, si ritrova a ricoprire una parte quasi del tutto marginale. In compenso, però, qui viene fuori una vera trama da libro giallo che non manca di destare la curiosità e di tenere svegli la notte, per vedere come andrà a finire, sebbene pecchi di essere un po’ troppo costruita: un osso umano, trovato fra gli escrementi di un cane, porterà Marc e il suo nuovo datore di lavoro, un ex poliziotto col vizio di condurre indagini per i fatti suoi, a cercare, dapprima, una vittima che sembra non esserci mai stata e poi l’autore dell’omicidio, se davvero di omicidio si è trattato.
Nel terzo romanzo, che si chiama “io sono il tenebroso”, tutti e tre gli evangelisti tornano a collaborare, loro malgrado, all’ennesimo caso di cronaca nera che piomba nelle loro vite. Il problema è che, questa volta, non possono dire di no: il sospetto omicida seriale ricercato in tutta la nazione è andato a vivere sotto il loro tetto, ma un sesto senso fa dire loro che lui non c’entri niente. Anche l’ambientazione torna ad essere quella del primo romanzo, nel senso che i protagonisti ruotano attorno, si danno appuntamento e si ritrovano nel loro quartier generale, la topaia. Qui si ritrovano anche le abitudini e le particolarità che si erano conosciute col primo romanzo e fra le trovate divertenti e gli intrighi, le deduzioni e le intuizioni si riesce ad apprezzare il raggiungimento della perfezione tecnica della trilogia.

lunedì 7 marzo 2011

Richard C. Morais, “Madame Mallory e il piccolo chef indiano”.

Il primo romanzo di Richard C. Morais (il cui titolo originale è “The Hundred-Foot Journey”) è l’equivalente di un cosiddetto film “di cassetta” americano: sin dalle prime battute si intuisce già come andrà a finire, per cui l’unica sua attrattiva è data dagli effetti scenici e dagli accorgimenti curiosi, avventurosi o scandalistici che vi si trovano nel mezzo. Inoltre, non offre alcuno stimolo moralistico o argomento che susciti riflessioni approfondite. Basti pensare che il tema più importante affrontato è l’esigenza, avvertita da un indiano, di custodire la tradizione francese in cucina.
In casi del genere, dunque, il giudizio non può che restringersi a un bello o a un brutto che si basi sulle scene o sulle immagini (qui, sulla capacità di saperle evocare), sull’interpretazione degli attori (qui, sulla raffigurazione dei personaggi) e sull’evoluzione della narrazione.
E, a mio parere, Madame Mallory e il piccolo chef indiano è bello. Anzi, delizioso.
Lo è perché l’idea stereotipata della metropoli indiana, da cui muove le mosse, è perfettamente raffigurata nella sua bolgia di donne e uomini che si muovono in ogni direzione, nel suo caos generale, nelle mille luci e colori. Così come ben descritte sono la silenziosa, grigia e soporifera città inglese, la moderatamente vivace provincia francese e la spocchiosa, gaudente e costosa Parigi.
Lo è anche perché nei protagonisti, che pur sono accomunati dalla stessa vocazione, quella di eccellere nell’arte culinaria, sono distinguibili caratteri diversi, ancorché ciascuno di essi non sia mai rappresentato nella sua intima personalità.
Lo è, infine, soprattutto, perché il racconto della vita di un promesso chef indiano, dai primi esperimenti davanti ai fornelli fino al raggiungimento del più elevato riconoscimento internazionale attribuibile ad un cuoco, è resa in modo semplice, senza particolari sbalzi emotivi, attraverso una narrazione che scivola via liscia come l’olio.
Che altro dire? Assolutamente nulla, se non che nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, l’autore ricorda che l’iniziativa di scrivere il libro era stata oltreché sua anche di un produttore cinematografico che gliel’avrebbe finanziato, ma che quest’ultimo non c’è più e, quindi, il progetto così come concepito inizialmente è andato a monte. Anche per questa ragione, l’autore non fa mistero del suo desiderio di vederlo comunque messo in scena. E quindi, non mi stupirebbe se tra poco ce lo trovassimo tra i film in programmazione.