venerdì 28 gennaio 2011

Rebecca Hunt, “Il cane nero”

Più che un romanzo, il libro esordio di Rebecca Hunt, intitolato il Cane nero, andrebbe correttamente identificato come un lungo racconto. Infatti, sono poche le scene, pochi i personaggi, pochissimi se non inesistenti gli intrecci ed uno solo è il tema rappresentato: lo stato depressivo.
La storia è ambientata nei giorni che vanno dal 22 al 27 luglio 1964, sebbene -a onor del vero- di ambientazione c’è davvero poco o nulla, per cui, se non fosse per un unico riferimento storico di cui dirò fra poco, potrebbe dirsi collocato in qualunque epoca moderna.
Una giovane bibliotecaria inglese di nome Esther sente ancora con forza la morte del marito, avvenuta un paio d’anni prima. Questa circostanza la costringe a chiudersi in una crescente malinconia e ad allontanarsi dalla vita sociale. In modo originale (ma per niente avvincente), lo stato psicologico di Esther si materializza sotto forma di un cane nero, che si presenta il 22 luglio del 1964 alla sua porta, presentandosi col nome di Mr. Chartwell, e invade in poche ore la sua vita, allo scopo palese di volerla trascinare sempre più in basso, rendendola definitivamente e irrimediabilmente depressa.
Al racconto di Esther e del suo cane nero è alternato quello di Sir Winston Churchill, che sta per dare le dimissioni da parlamentare, al termine della sua lunga e gloriosa carriera (che avverrà, al termine del racconto, il 27 luglio 1964). Anche l’ex primo inglese è afflitto dallo stato psicologico che ha colto Esther, ma nel suo caso, oltreché per ragioni familiari, che vengono rivelate (quali la morte di due figlie, una per malattia giovanissima e l’altra suicida quand’era ormai matura), anche, come si presume, per le tante vicende difficili affrontate e legate al sistema politico e sociale del paese. Il suo cane nero è lo stesso che fa visita ad Esther.
In maniera -oserei dire- scontata, la storia si conclude con l’incontro fortuito fra Churchill ed Esther, alla presenza del cane, e da a entrambi l’opportunità di riflettere sul male che li ha colpiti e sulla possibilità di poterlo gestire, se non sconfiggere.
Il libro si legge presto presto. E’ una storia in cui ogni cosa viene da subito riversata sulle pagine, nonostante lo sforzo goffo e impacciato dell’autrice di volere ritardare la rivelazione di alcuni particolari (primo fra tutti, ad esempio, la morte del marito di Esther che, pur essendo evidente già a partire da pag. 3 o 4, viene celata fino a forse tre quarti del libro con punti di sospensione o con espressioni verbali che “dicono e non dicono” e che risultano delle forzature inutili). In sostanza, non è decisamente il tipo di racconto in cui ci si lascia trascinare dalla curiosità. Ma non è neanche quello in cui si apprezza la profondità di un pensiero o in cui si rimane colpiti dalla rappresentazione dei fatti o dall’alternanza fra realtà e finzione. Se poi si aggiunge, come ho appreso per caso solo dopo avere letto il libro, che il cane nero nella diffusissima tradizione britannica è una creatura d’invenzione simboleggiante i cattivi auspici, si rischia anche di togliere quel poco di originalità che il libro sembrava avere.
Tolto ciò, quel che resta, allora, è un dubbio: a parte i toni entusiastici dell’editore, che deve far cassa con un’opera di cui si è aggiudicato i diritti senza conoscerne i contenuti, mi chiedo cosa mai abbiano letto i recensori del Daily Telegraph, ai quali il libro è apparso “straordinario” o del Guardian, per i quali è risultato “esuberante [e] lo stile di Rebecca Hunt arguto e vivace. Sfrontato, originale e divertentissimo” o ancora dell’Observer che hanno suggellato un “esordio notevole” della Hunt, e infine dell’Independent, per i quali il libro “seduce, diverte e commuove”. Questo proprio non me lo spiego. Lo giuro.
Invito chiunque al leggerlo e a smentire la mia grande delusione.

martedì 25 gennaio 2011

Jonathan Coe, “La famiglia Winshow”.

Michael Owen viene assunto per scrivere “un libro tremendo, un libro senza precedenti, fatto in parte di memorie private, in parte di cronaca sociale, tutto mescolato insieme in una miscela letale e devastante”, ma quando gli viene dato l’incarico lui ancora tutto questo non lo sa. Lo apprenderà col tempo, conoscendo a poco a poco la famiglia Winshaw, i suoi segreti privati e le sue relazioni col mondo.
I componenti dell’ultima generazione della famiglia Winshow sono i simboli del potere, nelle sue diverse forme, nell’Inghilterra degli anni ’80. Politica, mercato azionario, produzione alimentare, armi, arte e informazione sono i luoghi in cui si esercita principalmente il potere e ogni Winshow trae profitto in modo quasi sempre illegale, poco trasparente e parassitario da ciascuno di tali settori, confidando nella carta vincente del sodalizio familiare.
Se, però, in un sistema che è fatto di corruzioni, ricatti e scambi di favori le armi si vendono con l’aiuto della politica, la produzione alimentare si incentiva con qualche ritocco sui mercati azionari e l’arte si riconosce solo dove la stampa che vale ne fa menzione, chi ne fa le spese è sempre e soltanto il popolo.
Mentre i personaggi accrescono la loro forza e le loro ricchezze in questo modo, dallo sfondo si vede accrescere il prestigio di Margareth Tatcher, il primo ministro inglese ricordato come la “dama di ferro”, per non avere avuto scrupoli nell’applicare le proprie leggi a svantaggio molte volte degli interessi delle masse, e sul fronte internazionale, si fa conoscenza con un certo Hussein, Saddam Hussein, che invece accresce la sua forza in Iraq, grazie alla complicità e agli aiuti degli Stati Uniti d’America, ai quali si affianca, per non essere da meno e per potere investire forze ed economie, l’Inghilterra.
Sebbene trovi un po’ d’imbarazzo a commentare l’opera, forse, più famosa di Jonathan Coe, solamente adesso, a distanza di diciassette anni dalla sua prima edizione, non posso tacere la meraviglia che ha suscitato in me quando ho ritrovato le capacità straordinarie dell’autore di mettere in scena un guazzabuglio di nomi, avvenimenti, pensieri, luoghi, dialoghi e chi più ne ha più ne metta, dedicandosi poi, con pazienza, per tutto il corso della narrazione, a districare i fili e sciogliere in nodi apparentemente più difficili, accompagnando quasi per mano il lettore, sino all’ultima riga, al bandolo della matassa. Non c’è un dialogo, infatti, che risulti semplicemente riempitivo o un dettaglio, anche banale, che non sia utile allo scopo finale. Tutto nell’accozzaglia troverà al termine il suo giusto posto e la sua corretta collocazione, come in un perfetto thriller che fa stare col fiato sospeso.
Autorevole, magistrale, unica, poi, è la capacità dell’autore di indugiare, quasi affondandovi, nei moti interiori dell’animo di Michael Owen, al quale, oltretutto, assegna in modo assolutamente originale il compito di essere anche il narratore per tutta la prima metà del romanzo, facendolo divenire poi, nella seconda parte, dopo un evento che non starò certo qui a raccontare (ma che ha un che di illuminante, almeno per Owen) un mero personaggio narrato.
La famiglia Winshow, come bene è stato detto, è un libro denuncia. C’è chi preferisce vederlo come una finestra sull’Inghilterra degli anni ’80, ma io preferisco concepirlo come un monito per le generazioni future, ancor più quando gli eventi narrati, seppur arricchiti da una notevole fantasia, tracciano la nascita di uno spirito prepotente ed egoista ancora ben noto al mondo contemporaneo e di cui, purtroppo, si conoscono anche le conseguenze, e nulla si fa per porvi rimedio.

giovedì 13 gennaio 2011

Michel Houellebecq, “La carta e il territorio”.

La carta è il territorio. Mi sono messo a pensare cosa avrei scritto di questo libro e non mi veniva in mente un buon inizio. Mi sarebbe piaciuto, infatti, cominciare dalla fine - dalla fine del romanzo, intendo - ma poi non riuscivo a immaginare come riemergere per riportarmi ai suoi primi capitoli. Eppure è tutt’altro che un ginepraio di trame intrecciate o una storia dai troppi personaggi che finiscono per confonderti le idee. Né richiede un’attenzione particolare in ordine ai temi affrontati. E’ semplicemente un romanzo. O forse due. Beh, l’ho detto e ora non posso più tirarmi indietro.
Dopo un breve prologo, il libro si divide in tre parti a cui fa seguito un lungo epilogo. Il prologo e le prime due parti raccontano il periodo più fortunato della vita di Jed Martin, artista grafico che conosce presto il successo e che diviene ricco sfondato grazie ad una serie di circostanze volute più, se non esclusivamente, da chi lo circonda e sa sfruttare l’arte pura delle sue rappresentazioni, che non da sé stesso. E’ l’unico periodo in cui Jed instaura dei veri rapporti sociali. Venuto da una famiglia in cui la madre si era tolta la vita ancor giovane e il padre era spesso assente per ragioni legate al suo lavoro, Jed cresce, infatti, solo, fino al momento, appunto, in cui comincia il romanzo.
Giunto alla terza parte, invece, il lettore ha l’impressione di aver cambiato libro. Improvvisamente si trova fra le mani un thriller, con ambienti e personaggi diversi da quelli narrati fino a quel punto. Il commissario Jacelin si torva a dover risolvere il caso più misterioso e sconvolgente che gli sia mai capitato nella sua carriera: un killer spietato ha mozzato la testa della sua vittima e del suo cane ed ha poi ridotto a brandelli i loro corpi, sparpagliandoli nella casa di campagna in cui ha commesso l’omicidio. Solo negli ultimi capitoli, la storia di Jed e quella del commissario Jacelin si incontrano, dando la svolta alle indagini che si attendeva.
Nell’epilogo, invece, la narrazione si sposta fin oltre il terzo decennio del 2000, ad osservare da lontano quel che è stato e quel che ne è adesso di Jed; di quell’artista dalle grandi risorse che fece tanto parlare di sé intorno al 2010.
Lo interpreto come un romanzo che vuole riportare l’arte e il pragmatismo nei loro giusti ambiti. Uno spaccato, certo non comune e non immediatamente accessibile, del mondo contemporaneo, nel quale si osserva come la propensione all’arte non è solo o necessariamente fonte di grazia e di successo, ma può essere anche un fardello odioso per chi ne viene coinvolto, quasi fosse una malattia inguaribile. E, infine, in cui si rammenta, con fare sottilmente polemico, come persino il gusto estetico - oltre, s’intuisce, a tanti altri valori - può risultare il prodotto di una moda indotta dalla capacità di persuasione dei grandi nomi della stampa.
Per concludere, voglio segnalare, perché la cosa mi è sembrata straordinariamente originale, che l’autore si è fatto personaggio del romanzo, apparendo e scomparendo, insegnando ed apprendendo, in uno spirito cupo, ma pregno di tensioni, che lo avvicina enormemente al protagonista Jed. Ciò, senza dir della (anch’essa più che originale) sorte che ha assegnato a sé stesso.

mercoledì 5 gennaio 2011

Jean Michel Guenassia, “Il club degli incorreggibili ottimisti”.

Mi ero trovato a indugiare sul titolo di questo libro e in particolare sull’aggettivo “incorreggibile” anteposto ad “ottimista”. Non avevo idea del perché fosse stato scelto quello e non, ad esempio, il suo sinonimo “inguaribile”, ma avevo la sensazione che non rispondesse ad una scelta del tutto appropriata. Se, infatti, tanto “inguaribile” che “incorreggibile”, da intendersi entrambi nell’accezione figurata, si definiscono come incallito, accanito o irriducibile, l’“inguaribile ottimista” a me suonava più come un appellativo riferibile a chi ha ceduto, involontariamente, all’inclinazione naturale della sua personalità, che qui è l’ottimismo appunto, dalla quale non può essere liberato; mentre l’“incorreggibile ottimista” lo riferivo a chi, per sua scelta, si è dato un atteggiamento, un carattere, quasi a volere costruire artificialmente una personalità che niente e nessuno può riuscire a fargli cambiare. In sostanza, mi riusciva difficile pensare che l’autore del libro avesse immaginato un club di persone che avessero voluto instillarsi a forza un aspetto del carattere che, di norma, risulta innato. Così, intanto, sono andato subito a cercare il titolo originale, per verificare se quella scelta fosse dell’autore, del traduttore o addirittura dell’editore. Quel che ho scoperto, però, è che, per quanto il francese non sia la mia seconda lingua, quella scelta doveva essere stata fatta proprio dall’autore, sembrandomi fedele la traduzione di “le Club des incorrigibles optimistes”.
Dopodiché, non avendo altri appigli per darmi una risposta, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era cominciare a leggere. Alla fine mi sono reso conto di avere fatto un meraviglioso lungo viaggio nella Francia a cavallo degli anni ’50 e ’60 del XX secolo.
Due cose caratterizzavano la Francia di quell’epoca: il boom economico seguito al secondo conflitto mondiale e la guerra d’indipendenza algerina. Eventi, questi, che costituiscono lo sfondo della narrazione; uno sfondo che si potrebbe definire attivo, come una rete fluttuante in cui, inevitabilmente, i personaggi, prima o poi, finiscono imbrigliati. La trama del romanzo è costituita dalle esperienze adolescenziali di Michel Marini, figlio di immigrati italiani che si sono arricchiti a Parigi, che vivono tutte le incertezze legate al denaro, le ipocrisie del tempo e guardano con fare sospetto a tutto ciò che minaccia di compromettere il mondo in cui si sono ambientati. Nella vita di Michel che, da una vita agiata in una famiglia all’apparenza felice, si trova col tempo (a causa proprio di quello sfondo di cui ho detto) col non potere più confidare né nei suoi familiari né nei suoi amici coetanei, c’è un solo punto fermo: un club spontaneo, creato nel retro di un bistrò denominato Balto, frequentato in prevalenza da profughi dei paesi dell’Est, uomini che il più delle volte non hanno rinunciato ai propri ideali, ma che si sono trovati a fuggire da un regime che li ha fatti propri. Dopo avervi fatto capolino un giorno per pura curiosità, Michel viene presto accettato nel club come una mascotte o, più, semplicemente, come un diversivo alle storie, il più delle volte drammatiche, che ciascun socio si porta dietro dal suo paese d’origine.
Iniziano così a intervallarsi le vicende e i ricordi dei frequentatori del Balto con le nuove esperienze e la maturazione spirituale e morale di Michel. Il club si rivela presto, infatti, non soltanto un punto di ritrovo fra gente senza più amici e con una famiglia da dimenticare, ma anche un luogo di crescita e di sostegno vicendevole. Per quanto spontaneo, infatti, quella originale aggregazione di uomini ha poche ma rigorose regole e fra queste quelle di non rievocare mai il passato, accettando il presente e il futuro quale condizione che non può che essere migliore di quella da cui si proviene. E’ quindi un luogo in cui, posso dire adesso che ho finito di leggere, ci si costringe quasi a forza ad essere ottimisti. E con questo, il termine “incorreggibile” diventa certamente il più azzeccato!
Fra i tanti rimorsi di coscienza, i rammarichi e le nostalgie che trapelano nonostante le regole del club, il libro getta luce su un’epoca storica e su un regime i cui misfatti non finiscono mai di inorridire. Ma non di meno sono frequenti le sottili ironie e i mirabili scherzi del destino che rendono più accattivante il ruolo di chi apprende, parola dopo parola, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, che persino la messa in pratica degli ideali più puri ed elevati può finire per segnare tragicamente il destino di un popolo.