lunedì 4 luglio 2011

Marco Presta, “Un calcio in bocca fa miracoli".

Comincia l’estate e viene fuori il desiderio di affrontare letture leggére. Io mi ero riservato il libro che mi accingo a commentare per la seconda metà di agosto, soprattutto perché più comodo da portare a spasso, date le sue modeste dimensioni. Poi, però, non ho saputo resistere alla tentazione di sapere come si fosse comportato col linguaggio scritto Marco Presta, uno che ha fatto della parola parlata la sua professione e che ci allieta la mattina su Radio 2 col suo “Ruggito del coniglio”. La risposta che ho ottenuto è stata: brillantemente!
Proprio così. Col suo primo romanzo, infatti, Marco Presta riesce a toccare tutte le corde emozionali, in uno spettro che va dalla completa allegria alla malinconia (più le prime che le seconde, preciso per chi tema di trovarsi fra le mani una macchina da lacrime).
La storia narrata è davvero semplice da leggere, ma nutrita di una sfrenata fantasia che lo fa sembrare al tempo stesso inverosimile e pur realistico. Il protagonista, che è anche narratore in prima persona di tutto il romanzo, segue l’evoluzione del suo spirito in una delle ultime fasi della sua vita. Comincia col descriversi un vecchiaccio, uno di quelli che disprezza i bambini che gli fanno le boccacce ai giardinetti, che ruba le penne per diletto, e che non si vergogna di ammettere che, giunto alla sua età, con un matrimonio fallito alle spalle, il passaggio dal desiderare una donna ed averla non deve contemplare alcun intermezzo di corteggiamento, per evitare una perdita di tempo inutile e per evitare possibili conseguenze e strascichi sullo stato affettivo. Solo che, a fare da contraltare nella sua vita c’è l’amico Armando, un vedovo in pensione, di ex professione pizzicagnolo, che ha vissuto sempre in venerazione della moglie, e che adesso ha un’unica ambizione nella vita, quella di farsi Cupido in persona e lasciare amore, prima di morire. Ma non sarà solo per seguire le gesta dell’unico vero amico, nella missione Giacomo-Chiara, che il protagonista si troverà a fare i conti col suo carattere, perché nel frattempo si ritroverà a dover vestire i panni del padre ad una figlia ritornata a casa dopo lunghi anni, perché in rotta col marito, e a gestire nel migliore dei modi il rapporto con la portinaia, oggetto dei desideri suoi e di quelli del barista, che le fa una corte spietata. La ciliegina sulla torta è data dai ricordi che riemergono dal passato, con le perle di saggezza popolare di Oreste, un tempo solo maestro di bottega, e l’idea, anche affaristica, di un futuro che si fonda sul passato in una prosecuzione ideale.
Il libro sa essere altamente ironico, fino a sollevare sincere risate, ma anche riflessivo. Suscita un piacere che nel panorama degli autori moderni si ha spesso la sensazione di non potere ritrovare. E’ una satira in senso pieno, capace di volare basso su molti aspetti della società, senza mai scadere in banali critiche o ovvie allusioni. Anzi, dimostra la grande intelligenza di far maturare nella mente del protagonista un nuovo modo di affrontare la realtà, di guardare l’esterno da una diversa prospettiva, e con ciò porre e porsi il dubbio che la giustizia (ma qui, forse, dovrei dire più propriamente giustezza delle cose) non è solamente una. Inoltre, con una naturalezza disarmante, sa porre perfettamente a raffronto personalità diverse, per persone diverse, provenienti da estrazioni diverse, e generazioni diverse. Ma la cosa bella di tutto ciò è che, leggendo, non ce ne si accorge ed, anzi, si ride, e si ride di cuore.
Se volessi sintetizzare al massimo l’idea che mi sono fatto di questo autore, leggendo il suo primo libro, direi che è dissacrante e ironico come De Silva, nostalgico e condannatorio come Benni, arguto e riflessivo come Pennac.
Da leggere, assolutamente.

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