venerdì 15 aprile 2011

Margaret Mazzantini, “Nessuno si salva da solo”.

Coi due romanzi capolavoro “Non ti muovere” e “Venuto al mondo”, che gli sono valsi i Premi Strega e Grinzane Cavour, nel 2002, e il Premio Campiello, nel 2009, la Mazzantini non aveva ancora concluso il suo viaggio nell’oscuro mondo dell’amore, coi suoi aspetti spesso controversi, più frequentemente inspiegabili, evanescenti, ma indiscutibilmente umani e altrettanto reali.
Lo ha ripreso quest’anno con “Nessuno si salva da solo”, il romanzo che racconta di un istante e di una vita intera, contemporaneamente. L’istante è la sera in cui Delia e Gaetano, prima innamorati, sposati e divenuti genitori, si ritrovano a cenare insieme, dopo essersi lasciati da alcuni mesi. L’intera vita è il divenire della stessa coppia, dal loro primo incontro, fino ad un futuro che, pur desiderato, quantomeno per l’ancor giovane età, appare incerto e irraggiungibile.
Non c’è soluzione di continuità fra la descrizione dei fatti presenti, che si svolgono mentre il narratore esterno li va descrivendo, e quelli che sono già avvenuti e rivivono nei ricordi dei due, nelle immagini mentali a cui sono proiettati a causa di una parola, di un gesto o semplicemente di un proposito meditato per condurre in porto la serata. E, in ciò emerge il genio dell’autrice che, con maestria, ha composto i pezzi di un mosaico che risulta tanto più complesso quanto più si spinge nei meandri dell’animo umano, nelle sue più recondite riflessioni e segreti più nascosti, ma non per questo, meno logico o fluido.
L’esempio più riuscito di tale componimento (qui inteso, non solo come sistemazione dei pezzi [del mosaico], ma anche come l’intera opera narrativa) sta nella proiezione futura che la coppia, o forse sarebbe meglio dire la ex coppia, fa di sé registrando i comportamenti e i gesti di un uomo e di una donna ormai anziani che siedono ad un tavolo vicino al loro. Gli altri due, infatti, appaiono ai loro occhi soprattutto sereni, lasciandogli immaginare una vita alle spalle, anche burrascosa, ma che li ha visti, comunque, sempre insieme, consentendogli ora di gioire l’uno della vicinanza dell’altra, se non di essere anche visibilmente allegri, vivi e vincenti.
Del resto, nel millimetrico tracciato cardiotografico della vita di Delia e Gaetano quel che manca è solamente il loro futuro, dato che risulta oscuro anche a loro stessi. Ma, mentre in un guazzabuglio di anacronie analettiche (vale a dire, di contini rimandi a fatti avvenuti, in ordine sparso, prima del tempo in cui svolge la storia) l’unica azione che si svolge in ordine cronologico è la serata dei protagonisti, anche la consapevolezza di potere, quantomeno, avere la parte preponderante nella scelta del loro futuro va maturando via via che la storia va avanti; man mano che giunge loro, che ne sono coinvolti, e al lettore, che ne apprende le gesta, il chiaro messaggio che “nessuno si salva da solo”.
Forse, l’ultima fatica di Margaret Mazzantini non avrà la risonanza e i riconoscimenti che hanno avuto i suoi libri più acclamati, vuoi per via del fatto che manca una vera e propria trama coinvolgente o vuoi anche perché sembra, a tratti, condizionato da uno stile (asciutto, ma non scarno, tagliente ma non sentenziante) e da alcune immagini (grottesche e impietose) già sperimentati con successo dall’autrice e che, per ciò stesso, manca del carattere della novità che, magari, ci si sarebbe aspettati, ma non per questo non si può non considerarla un’opera eccellente.

mercoledì 6 aprile 2011

Siegfried Lenz, “La compagnia dei teatranti”.

Nella cornice triste della casa circondariale di Isenbüttel, nel cuore della Germania, due uomini si trovano a condividere la stessa cella, riconoscendosi subito come conviventi ideali. Sono Hannes e Clemens, che si trovano lì per aver peccato di fantasia e di troppo amore. L’uno, infatti, fingendosi un vigile, si era intascato le multe che aveva irrogato a malcapitati automobilisti; l’altro, soprannominato il Professore, perché tale era prima di essere arrestato, si era portato a letto tutte le sue studentesse più belle che, a loro volta (per un caso della vita), si erano laureate col massimo dei voti. E la cosa aveva suscitato la gelosia delle brutte.
Non si può fare a meno di amare sin da subito i protagonisti della storia, per i loro sentimenti, la loro dignità e il loro amore smisurato per la libertà.
L’avventura ha inizio il giorno in cui la compagnia del Teatro nazionale, la Landesbühne, va a dare uno spettacolo all’interno del carcere. I due amici, infatti, insieme ad altri detenuti, riescono a impossessarsi del pullman della compagnia e fuggono, senza una meta precisa, finendo col trovarsi nel paese di Grünau. Caso vuole che la cittadina è nel bel mezzo della festa annuale e loro vengono accolti come veri artisti, intervenuti per l’occasione.
Il fatto è che, pur nella disorganizzazione iniziale, i finti teatranti riescono davvero a divertire e intrattenere la gente, tanto che il sindaco del paese li vuole assoldare per realizzare la sua ambizione di far diventare Grünau -usando un’espressione attuale- un polo d’attrazione artistico e culturale. Nei suoi ideali, infatti, l’arte va posta al primo posto, al pari della cultura e della memoria storica.
Anche questo secondo impegno viene accettato dai finti teatranti, ma quel che si comprende subito è che ciò che li muove non è solamente, anzi non è quasi per niente, il fine di rientrare nei ranghi della vita civile, ma si giustifica con l’amore per l’arte e quello per la cultura che pervade anche loro stessi. Su tutto, però, incombe sempre il pericolo di essere rintracciati e rimessi in carcere; pericolo che si accresce man mano che va crescendo la loro popolarità.
Il lungo racconto, che si legge in tre-quattro ore, si può dividere idealmente in due parti. Una prima, in cui si descrivono i personaggi e gli antefatti; e una seconda; in cui si svolge la storia. La fine del racconto è anche la fine dell’avventura, ma l’inizio di nuove e profonde riflessioni, sia per chi è destinato a rimanere dietro le sbarre (d’onde alcuni hanno parlato di opera picaresca, mentre in realtà, a mio modo di vedere, sarebbe più corretto definirla trascendentale) che per chi ha goduto ad apprendere le gesta di questi ultimi sfogliando le pagine che le raccolgono.
Io sono uno di questi e quelle di seguito sono le riflessioni che ho fatto dopo la lettura. Chi è dentro l’arte, chi si lascia trasportare dai sentimenti, ha un dono certamente superiore a tutti gli altri: ha la libertà dello spirito. Anche se privo della libertà di agire, vive infatti una libertà interiore che si materializza nei suoi sogni, nei suoi progetti, pur non realizzati, ma solamente desiderati.
Se il mondo, nella diversità dei suoi componenti, non è sempre disposto a capire la purezza d’animo, il candore, la ragionevole stravaganza delle passioni, ciò non potrà comunque ledere la libertà interiore di chi le prova, che continuerà a vivere e a espandersi nonostante la privazione fisica degli spazi. E ciò ancor ove se si aggiunga che la questione non si limita ad un mero relativismo.
Leggete le ultime pagine del libro e se condividerete, o ancor meglio vi attenderete, la scelta di Hannes apparterrete, almeno oggi, alla fortunata fetta di uomini che si possano dire liberi.

lunedì 4 aprile 2011

Andrew Sean Greer, “La storia di un matrimonio”.

In vista di un evento particolarmente importante nella mia vita (che non ho bisogno di rivelare al buon intenditor), mi è stato regalato questo libro. Chi me lo ha donato, però, forse, pensava che narrasse la storia di un matrimonio-tipo, nella sua alternanza fra gioie e dolori, fatta col prevedibile sarcasmo e l’ironia tipici di una commediola nordamericana.
Invece, la storia del matrimonio di Pearlie Cook, raccontata da lei, protagonista principale, in prima persona, è tutt’altro che leggera.
Quel che si legge nella quarta di copertina, in effetti, rischia di mandare fuori pista chi non lo ha ancora letto. Lì ci si domanda (ma sembra proprio che la cosa sia detta in termini ironici) “perché, leggendo La storia di un matrimonio, ci sentiamo invadere da un’ansia arcana, da un senso di vertigine e di smarrimento, come davanti a certe atmosfere torve di Edgar Allan Poe? … Sarà … per la dolorosa lucidità con cui la narratrice riesce a indagare la distanza che separa ciascuno di noi dagli altri? O perché a ogni pagina ci chiediamo: come fa a sapere tutte queste cose di noi?. Ma, come ho detto, le cose stanno diversamente.
Con ciò, non sto dicendo, si badi bene, che i modi di fare e di pensare che vengono rappresentati non siano quelli tipici americani. La storia stessa, anzi, per la sua peculiarità, che non posso certo svelare, perché costituisce l’elemento cardine del romanzo, non poteva che compiersi in quel mondo costruito a forza di contraddizioni e ipocrisie.
Però, l’eco di una guerra che non sembra dovere mai finire, la continua evidenziazione fra uomini di un colore e uomini di un altro, l’importanza della suddivisone dei ruoli fra maschio e femmina, uomo e donna, marito e moglie se non appaiono elementi originali per chi in quel mondo non vi ha mai vissuto, sono rappresentati con una tale maestria che non si può che riconoscere l’alto livello dell’opera.
In particolare, personalmente, ho molto apprezzato lo stile narrativo perché, pur non affidando la sua forza attrattiva all’avvicendarsi degli eventi, riesce ad affascinare con la sola descrizione dell’evoluzione delle sensazioni della protagonista, dei suoi diversi modi di vedere le cose, di accettare la realtà e di provare a modificarla con le proprie forze.
Non è sempre facile saper trovare la forza e il coraggio di reagire, di fronte alla previsione di un evento drammatico che sta per realizzarsi; ma, dovendolo fare, Peralie Cook impara a sue spese che il modo migliore per subire meno danni possibili è assecondare la realtà nascente, traendone tutto il poco di buono che ne può derivare. E, in questo tentativo, mentre l’autore ruota continuamente la sorgente luminosa nei trecentosessanta gradi attorno a Pearlie, il lettore, recependone il silenzioso strazio, si trova a fare il tifo per lei, cercando di appigliarsi a qualunque segnale, proveniente dal passato o dal presente, per continuare a credere che, alla fine, uscirà vincente dall’esperienza narrata nel libro.
In quest’ottica, ritengo che anche la scelta del racconto in prima persona sia il più giusto, dato che crea un rapporto diretto fra protagonista e lettore, trasformando quasi la lettura in un’attività partecipata.
Il romanzo comincia con l’affermazione di Pearlie Cook per cui “crediamo tutti di conoscere le persone che amiamo” ed è poi tutto incentrato sull’amara presa di coscienza che, in realtà, così non è. Resta solo da scoprire, in un’attesa ottimista che sembra quasi lasciata per gentile concessione dell’autore, se però alla fine, la conoscenza dell’amato, che uno ha acquisito col tempo, serva a qualcosa o resti una mera opinione affidata al vento.
Io ci ho creduto, fino all’ultima pagina.