martedì 15 giugno 2010

Alessandro Baricco, “Barnum. Cronache dal grande show”. Feltrinelli Editore, 1995.


Alessandro Baricco, “Barnum. Cronache dal grande show”. Feltrinelli Editore, 1995.

Leggere a poco a poco, come ho fatto io, Barnum, la selezione degli articoli che Alessandro Baricco ha pubblicato con cadenza settimanale, fra il 1994 e il 1995, sul quotidiano “La Stampa” equivale a centellinare il piacere delle geometrie che presenziano alla formazione del pensiero dell’Autore e rivivere al tempo stesso, con senso nostalgico, almeno in parte, fra le pieghe meno scandagliate degli anni novanta.
Barnum, infatti, è un vino dolce, che va sorseggiato lentamente, posato e poi ripreso, perché ogni capitolo costituisce un ecosistema a sé stante che soltanto così può essere assaporato fino in fondo.
Avete mai goduto di uno spettacolo nel vederlo mal rappresentato, grottesco o tanto banale da suscitare tenerezza? E, inoltre, vi siete mai trovati a prestare più attenzione agli spettatori, alla preparazione o al contesto che non allo spettacolo vero e proprio messo in scena? Ebbene, Barnum rivela i sentimenti suscitati da tutto ciò che è stato davanti e dietro le quinte, mentre si viaggia in un mondo che va dagli show televisivi alle manifestazioni di piazza, dai grandi concerti che hanno segnato un’epoca, alle feste di quartiere, accompagnati dalla sottile ironia dell’autore e dalla sua spietata, ma convincente, rappresentazione della realtà dei fatti.

venerdì 11 giugno 2010

Massimo Gramellini, “L’ultima riga delle favole”. Longanesi Editore, 29 aprile 2010. Pp. 260. € 16,00.


Massimo Gramellini, “L’ultima riga delle favole”. Longanesi Editore, 29 aprile 2010. Pp. 260. € 16,00.

Leggiucchiando qua e là i commenti di chi ha avuto per le mani prima di me “L’ultima riga delle favole”, ho trovato spesso toni entusiastici per quella che è stata definita una nuova “favola” (guarda caso), creata ad arte per imparare “a sorridere dei propri limiti e a credere di più in sé stessi” (cito testualmente Feltrinelli in lafeltrinelli.it).
L’ultima riga delle favole è la storia fantastica (inteso qui come sinonimo di inverosimile, inventato, frutto della fantasia e irrealizzabile) di Tomàs, un uomo come tanti, che nel momento in cui crede di esser morto, scopre invece di essere finito in un mondo parallelo, dal nome accattivante delle Terme dell’Anima. Alle Terme, gli viene detto di esser finito lì grazie solo al suo desiderio recondito di voler provare amore; un desiderio, a quanto pare, venuto fuori al momento giusto. Dapprima scettico, perché convinto di non potere più amare, Tomàs si comincia a ravvedere quando gli appare chiara l’immagine di Arianna, esattamente così come l’aveva immaginata nel momento in cui credeva di stare morendo. Da lì, dunque, comincia il suo percorso alle Terme, per ripulire il suo cuore e tornare ad essere un vero uomo, ossia, come imparerà alla fine del percorso, un essere che ama.
Dopo essere stato combattuto a lungo sul genere letterario da attribuire all’opera di Gramellini, mi sono deciso anch’io di definirla una favola, ma con alcuni limiti.
Il primo limite riguarda la narrazione. L’azione è quasi del tutto azzerata: ciò che predomina, infatti, sono i dialoghi che malcelano, più che spesso, direi sempre, le elucubrazioni tardo-adolescenziali intorno a concetti quali l’amore, il desiderio, la scoperta del proprio io, il rapporto con gli altri, la fiducia in sé stessi e così via.
Inoltre, manca il senso dell’avventura, come inizialmente sembra doversi ritrovare; mancano le descrizioni dei luoghi (non perché ci devono stare, ma perché avrebbero fatto bene ad esserci), come dire, manca la scena, l’ambientazione è scarna; manca inoltre la rappresentazione visiva dei movimenti e dei gesti dei protagonisti, quasi a sottolineare ancor di più che ciò che si voleva esprimere sta solo in quei dialoghi e la storia, se vi piace, inventatevela voi.
Un altro limite riguarda lo stile, che mi è apparso troppo asciutto e finalistico. Ma non sarà un caso, penso anche, che l’autore, prima che scrittore, sia anche un giornalista. In sostanza, la morale della favola non è lasciata alla sensibilità di chi legge e che la trae sapendo andare al di là delle righe. No, per niente. La morale è nelle parole, nelle frasi e nei versi che la favola stessa riporta. Peccato.
Un ultimo limite, infine, sta nel prezzo. Senza volere apparire critico (più di quanto non lo sia già stato), trovo un po’ esagerato pagare sedici euro una favoletta che si legge in una notte (caldo e zanzare permettendo). Ma ciò non per sottolineare l’eccessiva breve durata del piacere in raffronto al prezzo, quanto pensando alle tante altre favole che non mi concederò per non finire squattrinato (chissà, forse anche questa, se non mi fosse stata regalata… Ma no, questa no, l’ho chiesta e voluta io!).
Ora, per concludere, mi darete per contraddittorio, perché per dare un mio giudizio complessivo, finirò per dire che L’ultima riga delle favole mi è piaciuta. Eh già. Proprio così! Certo, non sono entusiasta come chi mi ha preceduto, ma nel vestire per una notte i panni dell’adolescente che non ha avuto ancora il tempo di riflettere sulla natura dei propri sentimenti e sulle dimensioni delle proprie emozioni, ho provato un vago e piacevole senso di nostalgia.
Proprio per questo, anzi, credo che il libro sia destinato ad un pubblico molto giovane o che sente di volerlo ancora essere, quantomeno per una notte!

Laurence Cossé, “La libreria del buon romanzo”. e/o edizioni.


Laurence Cossé, “La libreria del buon romanzo”. e/o edizioni.

Vale la pena leggerlo.
Vorrei limitare a queste brevi e semplici parole il mio commento su “La libreria del buon romanzo” di Laurence Cossé, ma so già che finirei presto per pentirmene.
Eh si, perché l’opera di cui parlo oggi non si presta a ricevere un mero voto di preferenza positivo o negativo: è, infatti, al tempo stesso un romanzo godibile, scorrevole, originale, per certi versi intrigante e che riesce a non stancare mai, pur essendo pressoché privo d’azione, ma anche un gioco, una scommessa dell’autrice con sé stessa, quella di riuscire in un’opera che venga definita, udite udite, con o-b-i-e-t-t-i-v-i-t-à, un “buon romanzo”.
Per non bastare, poi, è anche spunto di riflessione su temi leggeri, ma che coinvolgono e stanno tanto a cuore ai lettori appassionati (è possibile frenare l’avanzata di libri spazzatura?), oltreché su grandi temi, per giunta economici, della nostra società (può la purezza di spirito sopravanzare l’interesse economico delle grandi società?).
Chi vuole, potrà leggerlo come un poliziesco, trovandolo ugualmente attraente, nei temperati chiaroscuri e nei colori tenui tipici degli autori francesi, ma il suo vero intento, a parer mio, è quello di indugiare sul relativismo del gusto e mostrare che, come spesso avviene, dietro ad una scelta, apparentemente legata ad una personalissima inclinazione, si celano interessi economici o di potere o ancora (ma questo lo scoprirà il lettore) di diversa e più oscura natura.
L’editore lo racconta in sintesi così (riporto testualmente): «due appassionati lettori aprono la libreria dei loro sogni a Parigi. L’inatteso successo di questo “tempio” del buon romanzo scatena invidie e misteriose aggressioni». Si comprende, quindi, subito che tutto ruota intorno all’apertura di una libreria sui generis e numerose pagine, infatti, descrivono l’attività che s’incentra sulla buona riuscita di quel progetto.
Per l’attenzione ai dettagli e, a tratti, per la dovizia di particolari, chi legge non può non immaginare che l’autore abbia vissuto in prima persona l’esperienza che racconta, anche se poi deve finire inevitabilmente per credere che, per quanto verosimili, gli eventi narrati appaiano davvero difficili da realizzarsi. Purtroppo… o per fortuna!Nella mia biblioteca, il libro figura accanto all’Eleganza del riccio, di Muriel Barbery, e non solo -come intuirete solo dopo averlo letto- perché ne condivide casa editrice e impaginatura.

Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera Enaiatollah Akbari”. B.C. Dalai Editore.


Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera Enaiatollah Akbari”. B.C. Dalai Editore.

Ecco. Finalmente ho trovato la parola giusta per descrivere il mio stato d’animo, dopo aver letto il tanto blasonato libro di Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera Enaiatollah Akbari” (ai primi posti delle classifiche nazionali dei libri più letti). La parola giusta è: delusione.
Sono deluso. Già. Proprio così. Perché da un romanzo che annuncia di rivelare la vera storia di un uomo del nostro tempo, ma tanto lontano dalla nostra cultura, che ha conosciuto la fame, la miseria, le legnate date coi bastoni e che ha dormito fianco a fianco con la morte; da un romanzo il cui protagonista dichiara di sentirsi rinato una seconda volta, dopo essere approdato ad una vita che vorrebbe che fosse la sua definitiva, provando per la prima volta il sentimento della libertà, mai sperimentata prima di arrivare in Italia; da un romanzo del genere, dicevo, mi sarei aspettato di più. Molto di più.
Invece, già dalle prime pagine, ho capito che il libro, tanto per cominciare, è ben distante dall’essere, da una parte, un testo letterario e, dall’altra, un documento storico di particolare interesse. Non è arte, perché non c’è nulla, neanche nelle parole del protagonista, che smaterializza la verità facendola assurgere a sentimento trasposto in parole; ma non è nemmeno un documento storico che possa destare interesse, essendo spesso vago, superficiale, frammentario e pieno di vuoti, colmabili paradossalmente col solo ricorso alla fantasia.
Poi, ho capito che l’autore ha ridotto al massimo il suo contributo, quasi al punto da essersi comportato da mero scriva. La sensazione che da, infatti, è questa: l’autore si è messo attrono a un tavolo col protagonista e, senza fargli troppe domande, se non quella iniziale (raccontami gli anni che ti hanno accompagnato dalla tua infanzia in Afganistan fino al tuo arrivo in Italia), gli ha messo sotto un registratore. Al termine del racconto, che ricomprende un decennio, ma che sarà durato si e no un pomeriggio, ha preso la cassetta e l’ha sbobinata. E quel che ne è venuto fuori è un raccontino che ha venduto un sacco di libri.Peccato. Poteva essere davvero un’opera eccezionale. Ci avrebbe potuto far vedere con gli occhi le atrocità di tanta misera gente costretta a lasciare la propria terra e vivere da fuggiasca, nascosta nella bolgia delle metropoli del medio oriente, e viverla con lui in contesti di cultura, tradizioni, religioni, senso della famiglia, della patria e della libertà molto diverse. Ma di tutto questo nel libro non ce n’è che la parvenza, sembrando appena il sunto delle chiacchiere fra due comari affacciate al balcone del comodo occidente.

Andrea De Carlo, “Macno”. Bompiani Editore.


Andrea De Carlo, “Macno”. Bompiani Editore.

Ogni tanto mi viene voglia di leggere qualche vecchio romanzo di un autore che amo tanto. Questa volta è capitato per Macno, di Andrea De Carlo e, dunque, adesso eccomi qui a parlarne, come mi piace fare.
Il libro è esattamente come me l’aspettavo: fluido, interessante e senza colpi di scena. Inoltre, incarna perfettamente lo spirito che accompagna tutti i libri di De Carlo (o almeno quelli che ho letto io, che sono sette), che punta a disincantare il lettore dai falsi sogni e dai vacui ideali. Leggendo, hai la sensazione di volere essere dalla parte del protagonista principale, che è Macno, un dittatore venuto fuori dagli schermi televisivi e che si è imposto grazie alla sua spontaneità; ciò, anche se, sin dall’inizio, proprio lui manifesta comportamenti indecifrabili, oltre che per gli altri personaggi che lo circondano, anche e soprattutto per te.
Solo a poco a poco, man mano che gli eventi si evolvono, senti sempre di più vicina la presenza dell’Autore che ti punta il dito addosso col suo monito: “non è tutt’oro quel che luccica” e te lo ripete, te lo ripete, fino alla nausea, finché ti vieni a trovare di fronte a un bivio e devi scegliere per forza dove andare. O continui sulla strada comoda che avevi percorso prima di imbatterti in Macno, quella degli interessi sicuri, perché è stata la collettività a sceglierli per te e non c’è critica che tu possa temere, oppure ne prendi un’altra, nella quale cominci a capire che i tuoi ideali ed i tuoi sogni possono ben differire da quelli della maggioranza e che, se anche il contesto in cui vivi non se ne renderà conto in tempo, o mai, per la tua integrità morale e per la tua pace interiore, varrà sempre la pena di perseguirli, a costo di soffrire (o persino di immolarti) fino alla fine.
Il libro racconta con l’originalità e la forza descrittiva tipiche di De Carlo gli ultimi giorni di Macno, ripercorrendo nella memoria dei personaggi che lo circondano a Palazzo l’esperienza che lo aveva condotto dall’essere un personaggio televisivo fino a diventare un dittatore. Sono i giorni in cui lui solo, o lui per primo, comprende le ragioni del suo fallimento come capo di stato, ma dai quali, pur morendo (e sempreché la strada intrapresa dal lettore sia quella suggerita dall’autore) esce vittorioso.

mercoledì 9 giugno 2010

Uzma Aslam Khan, “Mehwish parla al sole”


Uzma Aslam Khan, “Mehwish parla al sole”. Neri Pozza Editore.

E’ il romanzo del tentennamento sociale che imperversa nel Pakistan tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del ventunesimo secolo. In un’epoca, cioè, in cui si sviluppa con forza la contrapposizione fra l’integralismo religioso del Partito Islamico della Creazione, ereditato dal generale Zia ul-Haq, che richiede il rispetto rigoroso dei precetti della sharia, e l’ideale laico mirato alla modernizzazione culturale ed economica, incarnato dal primo ministro Zulfikar Ali Bhutto ed il Partito Popolare Pachistano; una contrapposizione che, però, continua a vivere nell’onda di odio, guerre e recriminazioni provocate dai talebani, da una parte, e il “credo occidentale” degli Stati Uniti d’America, dall’altra.
Zahoor, archeologo darwinista, indaga sull’evoluzione dell’odierna balena partendo dal ritrovamento dei resti di un mammifero terrestre incline a vivere nel mare. Il fatto in sé sembra essere assolutamente banale, almeno per noi occidentali, ma non dev’essere (o non dev’essere sempre stato) così nel mondo raccontato dalla Khan. Se, infatti, le due nipoti di Zahoor, Amal e Mehwish, ammirano il nonno e crescono sul suo solco, il loro padre, Aba, le avversa timidamente, paventando che la scienza applicata dal suocero si possa contrapporre ai dettami della Sharia: credere nella scienza significherebbe, infatti, negare la stessa essenza di Dio, sul quale non si indaga e sulle cui manifestazioni non si deve porre alcun dubbio. Per queste ragioni, ma con una lentezza che copre numerosi anni, a causa di un mondo incerto che ha in mente il progresso, ma sembra preoccupato dal non voler disobbedire all’Islam, c’è invece chi avversa concretamente l’archeologo, ed è il Partito Islamico della Creazione, che si serve del contributo fattivo, ma forzato (e l’autrice vorrebbe -ma senza riuscirci- anche “incolpevole”), di Noman, per tenerlo, dapprima, sotto sorveglianza e, poi, al momento (storico) buono, per denunciarlo, vederlo finire sotto processo e, infine, uccidere violentemente, quando ormai sembra che le acque si siano calmate.
La trattazione è originale, in quanto le vicende sono narrate in prima persona da tre personaggi principali (Mehwish, Amal e Noman) dei quattro che si contendono la scena (il quarto è Zahoor), che riportano la loro versione dei fatti, facendoli così rivivere più volte, da angolazioni diverse (il titolo originale “la geometria di Dio” -che non capisco perché è stato cambiato solo in Italia- alludeva proprio alla perfezione data dalla combinazione delle quattro posizioni). Sebbene originale, però, a me non è piaciuta un granché, perché mi è apparsa un po’ troppo farraginosa, avendomi dato a volte persino il senso del disco incantato. Del resto, avrei giustificato (e forse anche apprezzato) la scelta fatta dall’autrice se i personaggi si fossero posti in contrapposizione di idee l’uno con l’altro, mentre invece appare subito con chiarezza che tutti si pongono dalla stessa parte, quella del progressismo. Persino Noman, inventato per rivestire la parte del redento o, più precisamente, di quello che, pur essendo cresciuto sotto l’influsso del partito creato dal generale Zia col tempo si ravvede, appare, sin dalle prime battute, se non proprio contrario al suo partito, quantomeno incerto.
In ogni caso, il libro è interessantissimo e pieno di spunti di riflessione che in queste righe non possono trovare posto per ragioni di spazio. Io lo consiglio vivamente.
Avevo appena finito di scrivere questa breve recensione quando mi sono imbattuto negli occhi languidi di un caro amico originario del Pakistan, che ha ricordato con nostalgia l’epoca che lui stesso ha definito del “grande Zia”. E da lì ho intuito che “Mehwish parla al sole”, nel suo essere spudoratamente di parte, rivela che quel tentennamento sociale di cui ho detto sin dall’inizio è un fatto reale, effettivo, che esiste, ed assolutamente attuale e non lascia immaginare affatto in quale direzione stia viaggiando, ancora oggi, il suo grande paese.