giovedì 30 settembre 2010

Stefano Benni. "Pane e Tempesta".



Non si può non ridere e non si può non piangere tutte le volte che si legge un libro nuovo di Stefano Benni.
In un mondo che si spinge fino all’inverosimile, con personaggi di pura fantasia (e che fantasia!) e storie che solo una mente sopraffina come quella dell’autore può riuscire a concepire, Pane e tempesta ripropone il tema preferito di Stefano Benni: il piacere, le vere emozioni e la pace (non solo quella interiore) e, infine, la libertà si ritrovano solo nelle piccole cose o in quelle che la natura ha creato, mentre l’uomo, con la sua avidità e la bramosia di onnipotenza, perderà questi privilegi per sempre. E per un siffatto tema, l’impalcatura del romanzo non poteva che essere quella meglio collaudata: piccoli, poveri, disgraziati, afflitti da mali, insignificanti esseri sotto la volta celeste, si organizzano e si impegnano in difesa, appunto, delle piccole cose e della natura, schierandosi contro la prepotenza economica che minaccia di distruggerle. Nello scontro che ne verrà fuori, si riderà per la goffaggine dell’impresa e si piangerà per gli ideali posti in ballo e l’incapacità di poterli salvare.
Il luogo è un piccolo villaggio di provincia, Montelfo, dove tutti si conoscono e si rispettano e dove la vita sembra potere procedere tra gli alti e bassi degli screzi fra vicini, degli amori e le gelosie dei ragazzini, della memoria storica del luogo con le sue interpretazioni non sempre condivise.
Un giorno, però, una pala meccanica comincia ad avanzare nel bosco circostante, minacciando di annientare il belvedere del Bar Sport, per costruire un mega centro commerciale. Gli abitanti, allora, spronati dagli anziani, abituati a mangiare “pane e tempesta” riuscendo sempre a farla franca, si coalizzano, per evitare che ciò avvenga. Naturalmente, la strenua difesa non è solo della vista sul bosco che si gode dal Bar, questo lo sanno bene tutti quanti, ma comincia da quella, dato che il Bar Sport (la piccola cosa) è il cuore pulsante della loro stessa vita e ciò che circonda il villaggio (quel che la natura ha creato) il suo scudo di protezione, che non sembra più apparire solido e duraturo come un tempo.
Nel viavai di personaggi, ciascuno con la propria identità (che si riflette anche sul nome: Ispido Manidoro, Trincone Carogna, Sofronia, Rasputin, Archimede detto Archivio, Frida Fon, lo gnomo Kinotto, Simona Bellosguardo e così via) e con i propri aneddoti (nel più tipico stile benniano), però, lo spazio per le ipocrisie e per i voltagabbana cresce in maniera vertiginosa man mano che le ruspe vanno avanti, fino al punto in cui ormai risulta chiaro il destino del Bar Sport e dello stesso volto del villaggio. Ma proprio nel momento peggiore, il nonno stregone, da una parte, e i giovani Alice Salvaloca e Piombino, dall’altra, come dire passato e presente, imparano a conoscere un nuovo concetto di libertà, purtroppo, relativo, ma che forse, s’intuisce, gli darà una nuova speranza.

lunedì 27 settembre 2010

Natsuo Kirino, “L’isola dei naufraghi”.

La trama di questo romanzo non è per niente originale: in un breve lasso di tempo, anche se a più riprese, approdano su un'isola disabitata dall’uomo più persone, che prima di pensare al modo per riuscire a tornare nel mondo civile, si trovano a dover fare i conti con la loro stessa sopravvivenza. Passeranno gli anni, ma rimarranno sempre là, dimenticate da tutti.L'originalità sta, invece, nel fatto che il gruppo di naufraghi è costituito da 35 uomini, di cui 24 giapponesi e 11 cinesi, e da una sola donna che, con i suoi quarant'anni passati, è la più grande d'età.Intorno a queste circostanze, spiattellate subito, nelle prime due-tre pagine del libro, l'autrice descrive un decennio di vita sull’isola, facendo vivere al lettore il crescendo di umori e il modo sempre più distorto di percepire la realtà da parte dei protagonisti. A tal proposito, encomiabile è la percezione di come l’influenza della vita civile sui naufraghi col tempo venga meno, finendo col determinare nel gruppo un equilibrio che da principio poteva sembrare inconcepibile. Amori e odi, coalizioni e litigi, speranze e delusioni sono tutte riportate ad un ambiente ristretto e assolutamente inconsueto che, a mo' di tavolo di laboratorio, rivela un esperimento a vivo sulla psiche umana.Con l'isola dei naufraghi la Kirino (autrice che, a quanto apprendo, è tra le più apprezzate in Giappone) ha portato a termine un'opera a mio giudizio difficilissima, dato il poco spazio che era rimesso alla fantasia, sapendola, anzi, imbastire di colpi di scena e capovolgimenti di fronte nei punti giusti.Anche lo stile narrativo adottato mi sembra originale, o quantomeno inconsueto, dato che, per la prima metà del romanzo può rappresentarsi come un grande pennello che passa e ripassa sullo stesso punto, rilasciando ogni volta una quantità di vernice in più, rendendo l’immagine via via sempre più nitida. E' l'immagine dell’equilibrio che i naufraghi trovano sull'isola, dopo lunghi anni di difficile sopravvivenza. Superata la metà, invece, gli eventi conoscono una svolta inattesa e, con essa, si ha anche un’accelerazione nella narrazione: non più un passa e ripassa, ma uno stile fluido, forse a volte anche precipitoso, che lo porta verso un finale, vi assicuro, inatteso e, a tratti, perfino emozionante.Messa da parte la noia che -questo va pur detto- di tanto in tanto mi ha accompagnato nella lettura, l'isola dei naufraghi va certamente considerata un'opera interessante e gravida di spunti di riflessione.

mercoledì 15 settembre 2010

Jonathan Coe, “I terribili segreti di Maxwell Sim”.


Il genio è tornato e lo ha fatto alla grande!
Ogni volta che leggo un romanzo di Coe la sensazione che ricevo è, al tempo stesso, di stupore e riverenza per il modo in cui l’autore riesce a rendere inscindibili fra loro i tre elementi del tema principale, della trama e dello stile narrativo, facendoli diventare ciascuno indispensabile agli altri e viceversa, rendendo l’opera unica nel suo genere ed originalissima.
Questo, come dicevo, mi accade ogni volta, ma con i terribili segreti di Maxwell Sim Jonathan Coe è riuscito a superare sé stesso. E questa non vuole essere una frase fatta, per dire soltanto che il libro è bellissimo e certamente degno di essere letto, ma proprio che chi lo legge riceve la netta sensazione che l’autore abbia messo sé stesso alla prova, per sperimentare nuovi metodi narrativi e compiacersi, man mano di più, di ciò che è andato creando, in un crescendo che lo ha portato ad un finale scoppiettante in cui (questo non lo dovrei dire per non togliere il piacere a chi deve ancora leggerlo, ma non riesco proprio a tenermi abbottonato) il protagonista principale, nonché narratore in prima persona, dopo un lungo travaglio interiore, che dura tutto il romanzo, scopre di essere null’altro che il frutto della fantasia del suo autore, recriminando una propria vita che non dipenda dalla sua penna (ecco, quel che non dirò sarà solo lo strabiliante modo in cui tali scoperta e recriminazioni avvengano).
La storia è accattivante, perché descrive con toni leggeri, e a volte persino con punte di pura e straordinaria ironia, la parabola di un uomo in preda alle sue stesse paure, vittima di continue disavventure, anche di quelle che riemergono dal passato, e dello stesso sistema che fa da cornice alla sua esistenza. E’, come s’intuisce presto (e come rivela anche l’editore nella quarta di copertina definendolo un romanzo picaresco), una parabola che porterà il protagonista, dapprima, sempre più in basso per poi, dopo aver toccato il fondo degli abissi, farlo riemergere fin oltre lo status e la condizione iniziale.
Il tema principale è la solitudine, nelle sue diverse manifestazioni esteriori, come l’incapacità a relazionarsi con gli altri oppure il desiderio inappagato di comunicare, ma ci sono anche gli altri temi, mai dimenticati da Coe nelle sue opere, del senso sociale delle cose, della politica affaristica e delle ingenuità in cui viene colto l’uomo del ventunesimo secolo che non sia bravo a stare al passo coi tempi.
Ogni capitolo, ma forse dovrei dire meglio, ogni paragrafo, se non ogni parola, è misurato al fine di descrivere al meglio il personaggio Maxwell Sim nella sua genuinità, nella sua purezza. Così, anche il lungo processo che lo condurrà a venir fuori da quella che oggi verrebbe definita genericamente una crisi depressiva nasce da una immagine apparentemente normalissima, che lo colpisce tanto. Un’immagine che si ritrova a contemplare e che in lui funziona da fanale: una donna con la figlia sedute lietamente al tavolo a giocare a carte.
Peccato solo per Maxwell Sim, che vive in Inghilterra, che quella immagine gli sia apparsa davanti solo quando si trovava in Australia e che per poterla tornare a contemplare e potere sperare, come nei suoi sogni, di entrarne a far parte dovrà attendere di superare numerosi ostacoli. Solo (da solo) con le sue forze.
Mi aspettavo tanto da questo libro e ho avuto anche di più!

mercoledì 8 settembre 2010

Marie Fadel, Rafik Shami, “La città che profuma di coriandolo e di cannella”


Il libro coniuga il piacere di una passeggiata immaginaria fra le vie di Damasco e quello di apprendere, al tempo stesso, le ricette più tipiche della Siria, nella loro versione damascena.
Gli autori, fratello e sorella, vivono l’una ancora a Damasco e l’altro in Germania, in esilio forzato. L’idea del libro nasce dalle loro chiacchierate telefoniche tra un paese e l’altro, nelle quali, fra un ricordo personale e un accenno a fatti di pubblico dominio, vengono fuori curiosità, impressioni personali e, perché no, anche notizie storiche della capitale siriana, intervallate da numerose preziose ricette.
Le ricette, dal canto loro, oltre ad essere allettanti, sono descritte in modo tale da rivelare al lettore, oltre agli ingredienti con le loro dosi e le modalità di preparazione, gli accorgimenti utili a renderle quanto più simili a quelle volute dalla tradizione.
Inutile dire di più, se non che l’opera si presenta come assolutamente originale e suscita uno spirito emulativo.

Silvia Avallone, “Acciaio”.


Questo è un libro che più volte ho preso fra le mani in libreria e poi posato, certo di non volermi sorbire un mattone, quale appariva leggendone la sintesi velocemente. Dopo aver appreso, però, che ha vinto il Premio Campiello come opera prima ed è risultato finalista al Premio Strega, mi sono deciso a comprarlo, se non altro per saperne parlare.
Ecco cosa ne penso dopo averlo letto.
Non è un mattone, ma non è neanche una lettura distensiva.
Nello stile è facile, armonioso e scorrevole, mentre la narrazione appare alcune volte scontata e prevedibile, anche se ha il pregio di trattare avvenimenti crudi e descrivere personaggi tristi senza pesare troppo. Ciò, perché s’intuisce che, alla fine del tunnel, residuerà comunque la speranza per tutti di poter beneficiare, in misura maggiore o minore, della gioia di vivere. Anzi, proprio quella speranza il più delle volte viene vista come la molla per i personaggi per trovare il coraggio e la forza d’animo per evadere, se non altro coi sogni, dallo stato in cui versano quotidianamente.
L’ambientazione ricorda quella magistrale del “Non ti muovere” della Mazzantini ed è fatta di palazzi scalcinati di periferia, bambini che giocano per strada, urla e parolacce che volano dai balconi delle case e, soprattutto, dalle ciminiere della fabbrica che dà pane, fatica, speranza e a volte anche la morte.
Due ragazze, Anna e Francesca, sono al centro della scena, ma la scelta non è che occasionale, potendovi essere al posto loro qualunque altro dei personaggi descritti, essendo tutti parte del racconto e parte di un mondo fatto di ruggine e gatti smorti.
Qui, per citarne alcuni, si intrecciano, infatti, le storie dell’amicizia adolescenziale di Anna e Francesca, appunto, ma anche dell’amore trascinato fra Alessio ed Elena, della gelosia possessiva di Enrico, della sottomissione di Rosa, della pazienza di Sandra e della doppia vita di suo marito.
E’ dalla mescolanza delle loro vite, dunque, che si apre il sipario su uno spaccato verosimile, attuale ed anche molto ampio della nostra società, che non va aiutato come si fa per i bambini africani che muoiono di fame, non va sostenuto come si fa con le donne musulmane che si ribellano al burqa, non va protetto come si fa con le popolazioni indigene dell’amazzonia, ma che va comunque tenuto in considerazione tutte le volte che noi italiani ci interroghiamo chiedendoci: chi siamo?
Il premio attribuito a questo romanzo mi trova d’accordo, ma sol perché gli è stato conferito nella sua veste di opera prima. E’, secondo me, un più che valido incoraggiamento ad un’autrice di cui, sono certo, sentiremo parlare per parecchio tempo e di cui leggeremo opere ancor più belle di quella d’esordio.

Francesca Melandri, “Eva dorme”.


Eva dorme è il primo romanzo della sceneggiatrice Francesca Melandri.
L’ho comprato perché un’opera prima desta sempre curiosità, ma soprattutto perché si presume sempre che il suo autore abbia dato il massimo per presentarsi al mondo dei lettori.
Alla fine non me ne sono pentito, nonostante abbia speso una cifra folle per averlo.
La storia è semplice: Eva Huber, altoatesina, figlia di un padre che lei sola non conosce e di una madre che ha subito le umiliazioni della povera gente negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, viene raggiunta telefonicamente da Vito, un ex carabiniere calabrese, l’unico uomo che stava per sposare sua madre e che, soprattutto, avrebbe degnamente ricoperto la figura del padre che lei non ha mai avuto. Vito sta per morire e vuole vederla per l’ultima volta, dopo trent’anni che fra loro non c’è stato più alcun contatto.
Nel viaggio in treno, l’unico mezzo di trasporto che trova disponibile nel giorno di pasqua, Eva ripercorre con la memoria i giorni della sua infanzia che hanno preceduto l’ingresso di Vito nella sua casa, fino a quello in cui lui, inaspettatamente, ne è uscito per sempre.
In modo più che originale, alternati ai capitoli narrati da Eva in prima persona (che portano al posto del titolo la numerazione dei chilometri percorsi in treno), ve ne sono altri narrati in terza persona (e che portano in luogo del titolo gli anni a cui si riferiscono), in cui un narratore esterno ripercorre la storia della famiglia Huber, dal 1919 fino al 1992, movendo dalle vicissitudini del nonno materno di Eva, Herman, fino ad arrivare a quelle di sua figlia Gerda, madre di Eva, e dei suoi fratelli.
Nel libro, quindi, c’è quasi un secolo della storia d’Italia, ma più precisamente (ed è proprio questo il punto), c’è un quasi secolo della storia di una piccola regione incastonata fra le Alpi italiane ed austriache che si chiama Alto Adige o Südtirol, la quale, se è divenuta formalmente già dal 1919 suolo italiano, non sempre viene riconosciuta come tale da chi ci vive né viene trattata come tale da chi vi deve far rispettare le leggi. Ci sono il fascismo ed il Südtiroler Volkspartei, ci sono Silvius Magnago ed Aldo Moro, ci sono la strage alla stazione di Bologna ed il rastrellamento di giovani ribelli svoltosi a Tesselberg (Val Pusteria) nel settembre del 1964, e tanto altro ancora. Restano fuori solo gli -ormai tardivi- accordi di Shengen del 1998, che eliminano ogni confine fisico fra Südtirol (Italia) ed Austria, quando ormai la globalizzazione e gli interessi sovranazionali hanno seppellito ogni interesse prima fatto valere con la forza e la violenza.
Il romanzo è, dunque, la rievocazione storica, in tempo di pace, di episodi, per lo più drammatici relativi ad una integrazione forzata di un popolo straniero in territorio italiano, che l’autrice stessa afferma in epilogo essere stati già dall’epoca insabbiati o, alla meglio, portati a conoscenza dell’opinione pubblica in forma molto attenuata, se non addirittura falsata.
Le prime pagine mi hanno fatto, non poco, storcere il naso, perché non comprendevo bene quale fosse l’oggetto del racconto, se un vero racconto vi fosse o se vi fosse quantomeno un filo logico da seguire. Poi, andando avanti ho cominciato a comprendere, e gustare, la narrazione, giungendo, come dicevo, infine, ad apprezzarlo.
Gli unici appunti che mi viene da fare sono che da una sceneggiatrice navigata come la Melandri (che, da quel che apprendo ora, ha firmato molte serie tv di successo, tra le quali Fantaghirò) mi sarei aspettato maggiori dialoghi, più fantasia ed una più attenta descrizione di luoghi, persone e cose; mentre, invece, tutto ciò è ridotto all’essenziale. Inoltre, che, seppur soltanto in rari casi, gli avvenimenti realmente accaduti sono trattati come su un manuale di storia moderna, in maniera troppo analitica.
In ogni caso, il libro, opera prima della Melandri, merita di certo una lettura.

Maurizio Maggiani, “Meccanica celeste”.


Mi tolgo tanto di cappello di fronte ad un romanzo che non è un romanzo, di fronte ad una rievocazione storica degli avvenimenti, dei personaggi, delle credenze popolari e dei desideri tenuti nel cuore per una vita intera in un mondo, qual è quello descritto dall’autore, fatto di poche case sparse, alcuni villaggi, e tanti volti che sanno fare parlare di sé; un comprensorio limitato, non meglio specificato se non col termine di “distretto” sulla parte più settentrionale degli Appennini; una civiltà chiusa in sé, ma al tempo stesso completa e fiera.
L’occasione è originale: a breve verrà al mondo la prima figlia del narratore (almeno, che sia femmina è quel che lui spera) e nel desiderio di lasciare alla nuova creatura la memoria dei luoghi in cui potrà, solo per scelta sua, vivere per sempre, si avvicendano e si intrecciano i personaggi bucolici, malinconici, strampalati e divertenti, saggi e mistici, dai nomi più suggestivi come la Duse, la ‘Nita, la Santarellina, l’Omo Nudo, l’Amanteo, Don Gigliante, il Valanga e così via, con avvenimenti storici del distretto o con altri di più ampia portata, già noti al resto d’Italia ed al mondo intero, come la strage alla stazione di Bologna o i conflitti mondiali del ventesimo secolo.
Anche la nascitura, infatti, se lo vorrà, come non manca di sottolineare il suo futuro padre, sarà parte di quel mondo, ed è perciò bene istruirla ad esso. Perché, come nella meccanica celeste, appunto, nulla avviene per caso e ad ogni causa consegue un effetto, così anche gli intrighi e i misteri, le amarezze e le speranze del distretto, in cui persino le leggi dello Stato stentano a penetrare, hanno da sempre funzionato come ingredienti di una vita sana e soprattutto libera, ed è bene preservarli.
Personalmente, non ho mai amato i romanzi in cui manca una vera e propria trama, ed è per questo che ho definito la Meccanica Celeste di Maurizio Maggiani un non-romanzo, ma l’opera è così accattivante ed ogni episodio narrato così curioso e interessante che l’attenzione e il coinvolgimento in chi legge rimangono sempre alti. Lo stile, del resto, è molto scorrevole, nonostante le lunghissime digressioni. Anzi, proprio la mescolanza di fatti che ne viene fuori, l’accavallarsi di ricordi, il saltare da un avvenimento ad un altro per poi tornare indietro, dà il giusto senso letterario che l’autore, ritengo, aveva immaginato: il desiderio del narratore (questa volta) di non tralasciare nulla, con la consapevolezza, però, di non riuscirvi, avendo troppe storie importanti e significative da raccontare.
Un libro da leggere e conservare come un bel ricordo.

Khaled Hosseini, “Il cacciatore di aquiloni”.




E’ certamente uno dei libri più conosciuti, più venduti e più letti degli ultimi tempi, e per questo non ha bisogno di nessuna presentazione. Mi limiterò pertanto a fare solo qualche breve considerazione, ora che anch’io, finalmente, ho avuto il piacere di leggerlo.
Anzitutto, non posso non rilevare che il clamore che ha suscitato nel mondo dei lettori sia da ritenere più che fondato. Pensavo, infatti, specie dopo aver letto decine di libri di autori mediorientali, come pachistani, siriani, turchi, eccetera, o quantomeno di autori che trattano storie ambientate in medio oriente, di ritrovarmi di fronte alla storia schietta e ormai, ahimè, consueta, di lotte intestine, incomprensioni politiche, maltrattamenti, fughe, prevaricazioni, rigidi principi o norme di comportamento sulle cui origini si indaga. Invece, ho trovato una vera opera letteraria che va ben oltre al retroscena politico e sociale dell’Afganistan e della sua cultura, pur senza prescinderne. E’, infatti, un’opera dai contenuti forti, ma dallo stile delicato ed accattivante; in cui sia il retroscena reale che la fictio narrativa risultano tanto drammatici quanto i volti dei personaggi, i dialoghi, le scene e gli avvenimenti sono descritti in maniera limpida ed espressiva da sembrare tangibili.
Per queste doti, che certamente l’hanno portato ad essere tanto apprezzato e amato dai lettori, il cacciatore di aquiloni può essere definito, a mio giudizio, l’antesignano di tutti i romanzi ambientati in medio oriente che oggi gli editori fanno a gara a mettere sul mercato (date una scorsa ai banconi delle librerie per rendervene conto).
Un merito in più, quindi, che merita di essere menzionato.
Sul punto, peraltro, non posso fare a meno anche di osservare, non senza ironia, che proprio il commento, l’unico, che si trova impresso sulla copertina del libro (“un libro indimenticabile, emozionante come pochi”), reca la firma di un’autrice sudamericana per eccellenza, Isabel Allende, quasi a simboleggiare il passaggio di testimone da una moda ad un’altra, che ci ha portati a spostare l’obiettivo da una regione remota della terra all’altra.
Infine, mi piace ricordare Il cacciatore di aquiloni, non soltanto perché suscita l’interesse ad approfondire le ragioni storiche che hanno permesso la drammatica ascesa di potere dei talebani in Afganistan, le stesse che, da ultimo, hanno portato a violente guerre che hanno interessato il mondo intero, ma anche perché, in termini più generali, invita a riflettere sulle conseguenze (spesso negative) del potere egemonico degli stati forti su quelli deboli, specie nel momento in cui questi ultimi vedono minacciata le propria stessa cultura e l’identità del loro popolo.