martedì 20 dicembre 2011

Diego De Silva, “Sono contrario alle emozioni”.

Chi ha già letto “non avevo capito niente” e “mia suocera beve”, di Diego De Silva, avrà piacere di ritrovarsi a tu per tu con l’avvocato Vincenzo Malinconico, a sentirsi il destinatario dei suoi racconti, delle sue storie e dei suoi aneddoti, condotti sempre con fare critico verso tutto e verso tutti, in modo sfacciato e a volte sboccato, specie quando nel mirino ci sono le ipocrisie, i mezzucci ed i luoghi comuni. Questi ultimi caratteri della società, infatti, provando a sintetizzare il pensiero di Vincè (come anche io ormai mi prendo la licenza di chiamare Vincenzo Malinconico), finiscono per spiazzarti, se il tuo modo di fare segue più l’istinto che non una ragione forgiata al tavolo delle convenzioni.
Ma in “sono contrario alle emozioni” l’autore supera sé stesso: l’atteggiamento sfrontato e distaccato del protagonista cede il passo, infatti, ad un male oscuro, apparentemente ingestibile, che rischia di sopraffarlo, perché - le strade del Signore sembrano essere infinite - persino lui, che fin’ora aveva mostrato di tenere alla sua integra essenza sopra ad ogni altra cosa, sembra scivolare nel vortice delle sue stesse critiche e a non saperne più riemergere. E per ciò non bastare ancora, per cercare di venire fuori dalla situazione di stallo in cui si ritrova, compie il gesto che più di tutti da lui non ci si sarebbe immaginato: si affida ad uno psicoanalista.
Naturalmente, conoscendo il tipo, da principio, l’approccio con l’altro ha tutta la parvenza di una disputa polemica, di una battaglia in cui, senza giudicare quello che fa il suo mestiere, il caro Vincè si sente costantemente sfidato e para i colpi e di rimando gli lancia continue provocazioni. Ma qualcosa non sembra andare per il verso giusto: o il dottore ne sa una più del diavolo o forse c’è qualcosa veramente in Vincenzo che non va come dovrebbe andare.
L’intero libro, che ha pochi tratti del romanzo, mancando prima di tutto dell’aspetto narrativo, è il dialogo, anzi sarebbe più corretto dire, il monologo del protagonista che si rivolge direttamente al lettore per parlare di sé stesso. Del resto, il lettore, proprio come in una seduta psicoanalitica, non potrà che limitarsi ad ascoltare i fatti che hanno dato vita e godimento al paziente che ha appena posto in dubbio sé stesso, salvo esprimere il suo verdetto alla fine, dopo che ha voltato l’ultima pagina. Nel mio caso, se proprio lo volete sapere, il soggetto è ben sano, ma farebbe bene a non preoccuparsi troppo delle conseguenze dei suoi gesti.
Un’ennesima brillante, prova di coraggio per De Silva che affida all’avvocato Malinconico il ruolo, certamente non facile, di dissacratore. Entusiasmante per lo stile, ricorrente nei tre libri che sono dedicati all’avvocato napoletano, in cui persino un pensiero che ci può occupare la mente per un tempo non superiore al centesimo di secondo viene analizzato al rallentatore, scandendolo in ogni suo passaggio, sul quale viene poi calato il microscopio della mente di un personaggio geniale (provare per credere).
L’unica pecca, perché una almeno gliela devo trovare, è che il libro sembra destinato unicamente a chi conosce già le traversie di Vincenzo Malinconico. Anche se sono convinto che a ciò si possa facilmente trovare rimedio

mercoledì 7 dicembre 2011

Goce Smilevski, “La sorella di Freud”.


La letteratura internazionale ha conosciuto un nuovo grande autore: Goce Smilevski. C’è addirittura chi (come Joshua Cohen) lo ha già definito “erede di Gunter Grass e José Saramago”. Ma a parte la lungimiranza del commento, quel che rimane certo è che il suo primo romanzo, “la sorella di Freud”, oltre ad essere stato già un successo in mezza Europa, ha tutte le credenziali per essere annoverato come una vera grande opera.
La narrazione ha inizio con la fine della vita di Adolfine, una delle quattro sorelle di Freud, l’unica che non ebbe figli e che non si sposò. La morte di Adolfine è annunciata, dato che si trova reclusa in un campo di concentramento e ha da poco varcato la soglia delle ormai tristemente famose “docce” con cui il regime nazista ha inteso ripulire il mondo dagli ebrei. Da quel momento, prende piede la rievocazione della sua intera vita.
Ma la vita di Adolfine, da lei narrata in prima persona, non è altro che l’imbastitura dell’intero romanzo. E nemmeno alcuni eventi storici e drammatici, come la grande guerra e la deportazione ebraica che, da principio, sembrano dover occupare la scena, ne costituiscono il leitmotiv, recedendo presto ad elementi indispensabili e determinanti, ma non decisivi. Il vero scopo dell’opera, infatti, è di meditare sulla complessità della psiche umana. Ciò che vien fatto, peraltro, riuscendosi a portare a termine, con indiscutibile successo, il difficilissimo compito di mettere in chiaro i fondamenti delle scienze che la studiano, come la psicologia e, non a caso, la sua più nota corrente, ossia la psicoanalisi, illustrandone al lettore le prime sensibili conquiste. Facendolo altresì calare nella mentalità dell’epoca in cui esse furono ottenute, non senza sottrarlo alle difficoltà che le stesse incontrarono, a causa delle ritrosie e ai retaggi culturali dovuti, finanche, ad una scienza fondata su credenze popolari.
Non è una lettura leggera. Lo si comprende subito, sin dalle prime pagine. Ma proprio per questo, si apprezza maggiormente la scioltezza del linguaggio adoperato, pur dove vengano affrontati argomenti affatto complessi.
Accanto alla rievocazione storica di una vita singolare, dalla quale peraltro trapelano, non di rado, spunti di riflessione che la portano ad essere paragonata a quella di tanti altri, se non altro per coglierne le differenze, poi, trova spazio anche l’ideologia d’una società borghese che si forma e si sviluppa a dispetto delle guerre e delle convenzioni incancrenite dalla paura di guardare oltre le abitudini conclamate e mai contestate.
Personaggi rimasti illustri nella storia viennese a cavallo fra l’800 ed il ‘900 si alternano ad altri che hanno vissuto al loro fianco e ad altri ancora frutto della fantasia dell’autore, in un andirivieni che ha come unico filo conduttore, come epicentro d’interesse, l’origine della loro personalità. Del loro “io”. Fra gli altri, inutile dirlo, un ruolo, anche se non fondamentale, o meglio, non diretto, è lasciato al padre della psicoanalisi, il quale, peraltro, non sempre è rappresentato come affidabile e integerrimo. A volte, anzi, l’autore sembra volerlo persino deridere, lasciando sfuggire un sorriso amaro a chi ne ripercorre le gesta. Ma anche questo non è che un modo, io credo, per non far dimenticare che sulla psiche umana non vi è, né vi può essere, alcuna certezza.
Un libro da non perdere. Un autore da tenere d'occhio.

venerdì 2 dicembre 2011

Benedetta Cibrario, “Lo scurnuso”.

Di Benedetta Cibrario ho letto tutto. Almeno, tutto quel che di lei sembra essere stato pubblicato. Ossia, tre romanzi. Tutti editi Feltrinelli. Uno più bello dell’altro. L’ultimo è “lo scurnuso”, uscito in sordina nel mese di novembre.
Lo scurnuso in napoletano è “chi tiene scuorno”, ossia prova vergogna, per sé stesso, per quello che ha fatto. E’ la persona che si identifica col sentimento che prova. Nel romanzo, lo scurnuso è anzitutto una statuetta. Una creazione meravigliosa di un giovane artigiano, che in essa ha voluto rappresentare la persona che si è presa cura di sé nella fase più critica dell’infanzia, ma che, strano a dirsi - specialmente in queste righe - non ha provato apparentemente vergogna quando l’ha mandato via di casa, non avendo più i mezzi per poterlo sostentare. Ma lo scurnuso del romanzo è anche una persona, Tommaso Jannacone, un “figuraro” napoletano che alla fine del ‘700 modella pastorelli per il presepe e altre statuette per la parte nobile e meno nobile della città, morto povero a causa della malattia che non gli ha più consentito di lavorare la creta. E’, dunque, l’uno e l’altro insieme.
La trama vuole che, quando nella vita di Jannacone l’avanzare della malattia cominciava a impedirgli di lavorare, si era fatto avanti l’orfanello Sebastiano, il suo apprendista, avuto come ricompensa per un lavoro fatto alle monache di Caserta, dimostrandosi subito capace dell’arte dei figurari. Dopo pochi anni, però, sebbene fra i due si fosse creato un rapporto stretto, paragonabile solo a quello fra un genitore e il proprio figlio, Sebastiano era stato dato come garzone in una bottega molto più avviata, in cui il suo estro e la sua bravura sarebbero servite molto di più. Di punto in bianco. Senza vergogna. Perché diceva Jannacone a Sebastiano che lì avrebbe imparato meglio il mestiere e, in quel tempo di carestia, col suo lavoro avrebbe guadagnato di più lui e avrebbe dato da mangiare anche a sé.
Il fatto è che Jannacone in realtà si era vergognato, e aveva provato dispiacere per il distacco, avendo dovuto solo recitare la parte di chi non presta ascolto ai sentimenti, per non intimorire il giovane e non fargli perdere l’occasione della sua vita. Sebastiano, dal canto suo, se ne sarebbe accorto tardi, troppo tardi, quando ormai quello era morto. Per ricordarlo, però, lo rappresentò come sapeva, con la sua arte, in una statuetta, afflitta dal dolore, con le mani fasciate e lo sguardo triste e chiuso in sé, appunto, come chi prova vergogna di ciò che ha fatto.
Dopo più di un secolo e per la sua bellezza, la statuetta passa per le mani di collezionisti di presepi, gente colta e sensibile che lo tiene, se non come il pezzo più pregiato, certamente come il più espressivo e bello della collezione. In pieno secondo conflitto mondiale, si afferma che, di sicuro chi lo aveva confezionato doveva avere avuto un gran talento, mentre il mistero sulla bottega da cui fosse giunto ne incrementa l’interesse. Nell’ignoranza sulle origini e la provenienza della statuetta, gli si attribuisce un nome, che non guarda al suo mestiere o alla sua condizione fisica, ma all’espressione del suo volto. Ed è per questo che sarà chiamata lo scurnuso.
Giunti ai giorni nostri, nel finale del libro, lo scornuso finisce nelle mani di un ricco cittadino, che pensa di fare cosa gradita regalandolo alla figlia, mentre lei sembra rimanere totalmente indifferente alla cosa.
Nonostante la sua brevità, il libro si lascia apprezzare, soprattutto per la sua eleganza e lo stile sopraffino di cui, oramai, l’autrice ci ha dimostrato essere capace. Fra le sue pagine, che corrono veloci come i piaceri più sublimi ci sfiorano la fantasia, si coglie un sincero omaggio ad un popolo antico e meraviglioso, singolare ed originalissimo, come quello napoletano, con le sue tradizioni, le sue leggende e la sua atavica vitalità, che attraversa le strade delle viuzze fino ad arrivare davanti ai cancelli di maestose dimore storiche reali.
Il posto d’onore, però, è lasciato alla bellezza e all’arte in generale, la sua scoperta, il fremito che sa generare, le invidie e il pizzico di follia che accompagna chiunque ne rimanga affascinato. Tutto ciò, forse, con l’unico rammarico di assistere, al giorno d’oggi, alla decadenza di una società in cui persino il bello viene assorbito dal concetto di ricchezza.