mercoledì 7 dicembre 2011

Goce Smilevski, “La sorella di Freud”.


La letteratura internazionale ha conosciuto un nuovo grande autore: Goce Smilevski. C’è addirittura chi (come Joshua Cohen) lo ha già definito “erede di Gunter Grass e José Saramago”. Ma a parte la lungimiranza del commento, quel che rimane certo è che il suo primo romanzo, “la sorella di Freud”, oltre ad essere stato già un successo in mezza Europa, ha tutte le credenziali per essere annoverato come una vera grande opera.
La narrazione ha inizio con la fine della vita di Adolfine, una delle quattro sorelle di Freud, l’unica che non ebbe figli e che non si sposò. La morte di Adolfine è annunciata, dato che si trova reclusa in un campo di concentramento e ha da poco varcato la soglia delle ormai tristemente famose “docce” con cui il regime nazista ha inteso ripulire il mondo dagli ebrei. Da quel momento, prende piede la rievocazione della sua intera vita.
Ma la vita di Adolfine, da lei narrata in prima persona, non è altro che l’imbastitura dell’intero romanzo. E nemmeno alcuni eventi storici e drammatici, come la grande guerra e la deportazione ebraica che, da principio, sembrano dover occupare la scena, ne costituiscono il leitmotiv, recedendo presto ad elementi indispensabili e determinanti, ma non decisivi. Il vero scopo dell’opera, infatti, è di meditare sulla complessità della psiche umana. Ciò che vien fatto, peraltro, riuscendosi a portare a termine, con indiscutibile successo, il difficilissimo compito di mettere in chiaro i fondamenti delle scienze che la studiano, come la psicologia e, non a caso, la sua più nota corrente, ossia la psicoanalisi, illustrandone al lettore le prime sensibili conquiste. Facendolo altresì calare nella mentalità dell’epoca in cui esse furono ottenute, non senza sottrarlo alle difficoltà che le stesse incontrarono, a causa delle ritrosie e ai retaggi culturali dovuti, finanche, ad una scienza fondata su credenze popolari.
Non è una lettura leggera. Lo si comprende subito, sin dalle prime pagine. Ma proprio per questo, si apprezza maggiormente la scioltezza del linguaggio adoperato, pur dove vengano affrontati argomenti affatto complessi.
Accanto alla rievocazione storica di una vita singolare, dalla quale peraltro trapelano, non di rado, spunti di riflessione che la portano ad essere paragonata a quella di tanti altri, se non altro per coglierne le differenze, poi, trova spazio anche l’ideologia d’una società borghese che si forma e si sviluppa a dispetto delle guerre e delle convenzioni incancrenite dalla paura di guardare oltre le abitudini conclamate e mai contestate.
Personaggi rimasti illustri nella storia viennese a cavallo fra l’800 ed il ‘900 si alternano ad altri che hanno vissuto al loro fianco e ad altri ancora frutto della fantasia dell’autore, in un andirivieni che ha come unico filo conduttore, come epicentro d’interesse, l’origine della loro personalità. Del loro “io”. Fra gli altri, inutile dirlo, un ruolo, anche se non fondamentale, o meglio, non diretto, è lasciato al padre della psicoanalisi, il quale, peraltro, non sempre è rappresentato come affidabile e integerrimo. A volte, anzi, l’autore sembra volerlo persino deridere, lasciando sfuggire un sorriso amaro a chi ne ripercorre le gesta. Ma anche questo non è che un modo, io credo, per non far dimenticare che sulla psiche umana non vi è, né vi può essere, alcuna certezza.
Un libro da non perdere. Un autore da tenere d'occhio.

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