giovedì 15 settembre 2011

Vanessa Diffenbaugh, “Il linguaggio segreto dei fiori”.

In testa alle classifiche dei libri più venduti in questo periodo c’è il romanzo d’esordio di una tal Vanessa Diffenbaugh, dal titolo “il linguaggio segreto dei fiori”.
Forse neanche la scrittrice se lo aspettava, ma prima ancora dell’uscita, avvenuta in contemporanea mondiale lo scorso 5 maggio, si era intuito che il libro avrebbe avuto un enorme successo, per la felicità soprattutto delle case editrici che sono riuscite ad aggiudicarsene i diritti. Purtroppo (o per fortuna?) anche il mondo della letteratura è fatto così: quando un prodotto (che nel nostro gergo diremmo opera letteraria) mostra di avere le credenziali per piacere al grande pubblico (o per meglio dire, al lettore medio che non vuole faticare ad entrare nella mente dell’autore, per carpirne il pensiero) e, soprattutto, possiede quel tanto che basta per dare l’illusione di leggere una grande opera, lo spirito imprenditoriale dei produttori di carta stampata si esalta fino al punto da creare esso stesso arte. L’arte più ammaliante e persuasiva che esista: la pubblicità. Il linguaggio segreto dei fiori è un caso letterario. La sua uscita (ripeto, in contemporanea mondiale) ha costituito un evento. E tutto ciò grazie a chi per primo ha avuto l’intuito di poter suggerire (alla sua maniera) di leggere un libro di sicuro piacere ad un numero sterminato di persone. Io sono quel che ho donato, diceva il poeta soldato. Ma loro non donano niente a nessuno. Loro vendono. E quindi sono quel che hanno venduto. Dunque, adesso, sono ricchi e festanti.
Chissà cosa pensava l’autrice mentre si dedicava alla scrittura del linguaggio segreto dei fiori? Io la immagino a rubacchiare spunti un po’ di qua e un po’ di là, ad attingere dalle esperienze di vita vissuta e a mescolare il tutto con pazienza e molta fantasia. Il risultato, del resto, è un mix perfetto di psicologia spiccia e sociologia mistificata destinato inesorabilmente, dopo un ampio peregrinare, verso un lieto fine all’americana.
Mi sento, è vero, un po’ come un pesce caduto nella rete, pur dopo averla vista in lontananza ed aver tentato di evitarla. Ma visto che ci sono, e che nella lettura ho riversato anche una buona dose di interesse, non posso adesso che dirvi gli aspetti che me l’hanno fatta piacere.
Intanto, se dovessi conferire un premio a quest’opera-prima glielo darei per l’originalità. Accanto al caso umano che è Victoria, la protagonista, incapace di relazionarsi col prossimo e che a diciotto anni deve lasciare la casa famiglia in cui ha da sempre vissuto; eccetto il vaghissimo monito sociale rivolto contro un sistema di gestione dei minori orfani o abbandonati assolutamente indecente; viste e riviste le storie d’amore e di amicizia che cominciano col piede sbagliato e che col tempo si aggiustano per poi solidificarsi; infatti, in questo libro, spicca l’attenzione verso il significato che, in epoca vittoriana, era stato attribuito alle piante e ai fiori in particolare, ma che poi col tempo è andato dimenticato. E’ ciò ad essere originale. Tutti i protagonisti della storia sono dei veri amanti dei fiori e, si può dire, la loro vita ruota attorno ad essi e si consuma e si trasforma grazie ai fiori. Grazie soprattutto al fatto che hanno capito l’importanza del messaggio che ogni bocciolo, ogni ramo d’albero o ogni corteccia reca con sé.
Victoria, ad esempio, non è incapace di amare, ma sa farlo solo alla sua maniera e, dato che non si è mai raffrontata con la società, le manca l’esperienza giusta per far giungere agli altri il suo sentimento. Come dire, in sostanza, che le manca lo strumento indispensabile del linguaggio, della comunicazione, che troverà, però, col tempo, proprio attraverso i fiori.
Poi, devo anche aggiungere che la composizione appare esemplare e che anche lo stile si fa apprezzare, soprattutto perché la trama è narrata in prima persona da Victoria, che nel suo monologo interiore rivela la vera difficoltà ed i pericoli che corre una persona come lei. Certo, in alcune parti, specialmente verso la fine, si ha la sensazione che l’autrice abbia temuto di dare alle stampe un libro troppo scarno e che si sia affannata ad allungare un po’ il brodo. Ma, nel complesso, nonostante queste macchinazioni, chiudendosi il sipario ci si trova comunque con un sorriso convinto, in uno stato di piacevole, ma sia pur moderato, appagamento.

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