venerdì 11 novembre 2011

Brunonia Barry, “La ragazza che rubava le stelle”.

A quasi un anno dalla pubblicazione in Italia (ch’era stata del 25 novembre 2010) del nuovo romanzo di Brunonia Barry, quello che, per intenderci, è seguito a “la lettrice bugiarda”, che tanto aveva già fatto parlare di sé l’autrice, ho deciso anch’io di leggere “la ragazza che rubava le stelle”. Tanto ha venduto il libro e quindi, implicitamente, s’intende che tanto sia piaciuto, che in meno di un anno è già uscita la sua edizione economica (che poi è quella che ho acquistato io). Persino io, prima di leggerlo, ne ho regalato una copia ad una persona cara, sicuro di farle cosa gradita.
Ora, purtroppo, non mi rimane che contenere la mia delusione.
Zee è la protagonista del romanzo. Dal titolo e dalla lettura della trama che si legge sul risvolto di copertina, pensavo di immergermi in un’opera, magari non necessariamente profonda, ma di sicura suggestione. Non la riporto qui per esteso, ma voglio sottolineare a chi la sta già andando a cercare altrove (in mille e più siti internet, ad esempio) che, dopo il nome di Zee, risaltano le parole notte, silenzio, baia, molo, mare e, soprattutto… stelle, termine che ricorre anche nel titolo. Stride un po’, è vero, con la suggestione che tutti questi termini suscitano, il riferimento agli studi di psicologia di Zee, ma quando si legge che “il suicidio di Lilly Braedon, una delle pazienti più difficili di Zee, che ora fa la psicoterapeuta, la costringe a fare ritorno… al suo passato irrisolto”, sembra di potersi scorgere una porta aperta per immergersi interamente in quel mondo di sogno fatto, appunto, di notti, silenzi, baie, moli, mare e… stelle.
Invece, così non è. Anzi, a dirla tutta, per tutta la prima buona metà, se non per più, il libro è una specie di trattato di psicologia, peraltro anche un po’ lento e farraginoso, offerto al lettore in forma romanzata: Zee si interroga, anche con l’aiuto della sua capa, Liz Mattei, sul male che affligge Lilly Braedon, riscontrandone analogie con quello che aveva indotto la sua stessa madre, Maureen, al suicidio. Si convince così che quel caso clinico le potrà dare molte più risposte sulla sua vita e su quella di sua madre di quante non ne abbia ottenute dagli altri parenti e in particolare dal padre, Finch. A proposito di Finch, dopo la metà delle pagine, comincia ad assumere importanza la sua figura. Quest’ultimo, infatti, risulta affetto dal Parkinson ad uno stadio avanzato e Zee sente di dovergli stare vicino, pur se il momento della sua vita è davvero critico: sta per sposarsi con Michael e nel frattempo Lilly Braedon si è tolta la vita.
Da questo momento, inizia un vero e proprio nuovo romanzo. Anzitutto, con una semplicità quasi disarmante, si scioglie il rapporto con Michael e Zee intraprende una nuova storia sentimentale con Hawk, un uomo misterioso che, altrettanto misteriosamente, ha a che fare con Lilly Braedon. Poi, si avvicina sempre di più la figura di Melville, che fino a qualche tempo prima, era stato il fidanzato convivente (gay, evidentemente) di Finch e a cui Zee è sempre stata molto legata. Il tutto, come stavo accennando, però, ruota attorno a Finch, che ha bisogno di cure e dal quale Zee non si può allontanare tanto. Questa vicinanza, o forse è meglio dire, questa permanenza forzata nella vecchia casa paterna la porterà a dare un senso nuovo alla sua vita, forse anche un senso che aveva perso (come le stelle nel firmamento) o che non era mai riuscita a comprendere veramente.
L’unico merito del libro va dato alla trattazione, o tecnicamente, all’intreccio del romanzo, il quale, pur non brillando per estrosità, sembra rispondere a dei parametri matematici così perfetti da lasciare scorrere la lettura con morbidezza, nonostante il frequente uso di flashback e digressioni, ancorché non sempre necessari. A tempo debito affiorano azioni complicanti, che trovano soluzione col giusto ritmo e senza richiedere eccessive suspense. Inoltre, a ciascun personaggio è attribuito un ruolo che va a confluire in un unico finale, senza che ad ognuno di essi venga riservato un sia pur piccolo spazio per godere della propria unicità. Ma d’altra parte, dalla biografia dell’autrice si apprende che ha studiato, fra l’altro, scrittura creativa al Green Mountain College e nell'Università del New Hampshire e, perlomeno gli studi, dimostrano di esserle serviti a qualcosa.
E’ un libro che può certamente piacere ai tardo-adolescenti, in particolare a quelli che cominciano ad interrogarsi sull’origine del loro modo di essere.

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