Non si può non ridere e non si può non piangere tutte le volte che si legge un libro nuovo di Stefano Benni.
In un mondo che si spinge fino all’inverosimile, con personaggi di pura fantasia (e che fantasia!) e storie che solo una mente sopraffina come quella dell’autore può riuscire a concepire, Pane e tempesta ripropone il tema preferito di Stefano Benni: il piacere, le vere emozioni e la pace (non solo quella interiore) e, infine, la libertà si ritrovano solo nelle piccole cose o in quelle che la natura ha creato, mentre l’uomo, con la sua avidità e la bramosia di onnipotenza, perderà questi privilegi per sempre. E per un siffatto tema, l’impalcatura del romanzo non poteva che essere quella meglio collaudata: piccoli, poveri, disgraziati, afflitti da mali, insignificanti esseri sotto la volta celeste, si organizzano e si impegnano in difesa, appunto, delle piccole cose e della natura, schierandosi contro la prepotenza economica che minaccia di distruggerle. Nello scontro che ne verrà fuori, si riderà per la goffaggine dell’impresa e si piangerà per gli ideali posti in ballo e l’incapacità di poterli salvare.
Il luogo è un piccolo villaggio di provincia, Montelfo, dove tutti si conoscono e si rispettano e dove la vita sembra potere procedere tra gli alti e bassi degli screzi fra vicini, degli amori e le gelosie dei ragazzini, della memoria storica del luogo con le sue interpretazioni non sempre condivise.
Un giorno, però, una pala meccanica comincia ad avanzare nel bosco circostante, minacciando di annientare il belvedere del Bar Sport, per costruire un mega centro commerciale. Gli abitanti, allora, spronati dagli anziani, abituati a mangiare “pane e tempesta” riuscendo sempre a farla franca, si coalizzano, per evitare che ciò avvenga. Naturalmente, la strenua difesa non è solo della vista sul bosco che si gode dal Bar, questo lo sanno bene tutti quanti, ma comincia da quella, dato che il Bar Sport (la piccola cosa) è il cuore pulsante della loro stessa vita e ciò che circonda il villaggio (quel che la natura ha creato) il suo scudo di protezione, che non sembra più apparire solido e duraturo come un tempo.
Nel viavai di personaggi, ciascuno con la propria identità (che si riflette anche sul nome: Ispido Manidoro, Trincone Carogna, Sofronia, Rasputin, Archimede detto Archivio, Frida Fon, lo gnomo Kinotto, Simona Bellosguardo e così via) e con i propri aneddoti (nel più tipico stile benniano), però, lo spazio per le ipocrisie e per i voltagabbana cresce in maniera vertiginosa man mano che le ruspe vanno avanti, fino al punto in cui ormai risulta chiaro il destino del Bar Sport e dello stesso volto del villaggio. Ma proprio nel momento peggiore, il nonno stregone, da una parte, e i giovani Alice Salvaloca e Piombino, dall’altra, come dire passato e presente, imparano a conoscere un nuovo concetto di libertà, purtroppo, relativo, ma che forse, s’intuisce, gli darà una nuova speranza.
Ok, mi hai convinta. Lo leggerò e lo regalerò
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