mercoledì 8 settembre 2010

Silvia Avallone, “Acciaio”.


Questo è un libro che più volte ho preso fra le mani in libreria e poi posato, certo di non volermi sorbire un mattone, quale appariva leggendone la sintesi velocemente. Dopo aver appreso, però, che ha vinto il Premio Campiello come opera prima ed è risultato finalista al Premio Strega, mi sono deciso a comprarlo, se non altro per saperne parlare.
Ecco cosa ne penso dopo averlo letto.
Non è un mattone, ma non è neanche una lettura distensiva.
Nello stile è facile, armonioso e scorrevole, mentre la narrazione appare alcune volte scontata e prevedibile, anche se ha il pregio di trattare avvenimenti crudi e descrivere personaggi tristi senza pesare troppo. Ciò, perché s’intuisce che, alla fine del tunnel, residuerà comunque la speranza per tutti di poter beneficiare, in misura maggiore o minore, della gioia di vivere. Anzi, proprio quella speranza il più delle volte viene vista come la molla per i personaggi per trovare il coraggio e la forza d’animo per evadere, se non altro coi sogni, dallo stato in cui versano quotidianamente.
L’ambientazione ricorda quella magistrale del “Non ti muovere” della Mazzantini ed è fatta di palazzi scalcinati di periferia, bambini che giocano per strada, urla e parolacce che volano dai balconi delle case e, soprattutto, dalle ciminiere della fabbrica che dà pane, fatica, speranza e a volte anche la morte.
Due ragazze, Anna e Francesca, sono al centro della scena, ma la scelta non è che occasionale, potendovi essere al posto loro qualunque altro dei personaggi descritti, essendo tutti parte del racconto e parte di un mondo fatto di ruggine e gatti smorti.
Qui, per citarne alcuni, si intrecciano, infatti, le storie dell’amicizia adolescenziale di Anna e Francesca, appunto, ma anche dell’amore trascinato fra Alessio ed Elena, della gelosia possessiva di Enrico, della sottomissione di Rosa, della pazienza di Sandra e della doppia vita di suo marito.
E’ dalla mescolanza delle loro vite, dunque, che si apre il sipario su uno spaccato verosimile, attuale ed anche molto ampio della nostra società, che non va aiutato come si fa per i bambini africani che muoiono di fame, non va sostenuto come si fa con le donne musulmane che si ribellano al burqa, non va protetto come si fa con le popolazioni indigene dell’amazzonia, ma che va comunque tenuto in considerazione tutte le volte che noi italiani ci interroghiamo chiedendoci: chi siamo?
Il premio attribuito a questo romanzo mi trova d’accordo, ma sol perché gli è stato conferito nella sua veste di opera prima. E’, secondo me, un più che valido incoraggiamento ad un’autrice di cui, sono certo, sentiremo parlare per parecchio tempo e di cui leggeremo opere ancor più belle di quella d’esordio.

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