Eva dorme è il primo romanzo della sceneggiatrice Francesca Melandri.
L’ho comprato perché un’opera prima desta sempre curiosità, ma soprattutto perché si presume sempre che il suo autore abbia dato il massimo per presentarsi al mondo dei lettori.
Alla fine non me ne sono pentito, nonostante abbia speso una cifra folle per averlo.
La storia è semplice: Eva Huber, altoatesina, figlia di un padre che lei sola non conosce e di una madre che ha subito le umiliazioni della povera gente negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, viene raggiunta telefonicamente da Vito, un ex carabiniere calabrese, l’unico uomo che stava per sposare sua madre e che, soprattutto, avrebbe degnamente ricoperto la figura del padre che lei non ha mai avuto. Vito sta per morire e vuole vederla per l’ultima volta, dopo trent’anni che fra loro non c’è stato più alcun contatto.
Nel viaggio in treno, l’unico mezzo di trasporto che trova disponibile nel giorno di pasqua, Eva ripercorre con la memoria i giorni della sua infanzia che hanno preceduto l’ingresso di Vito nella sua casa, fino a quello in cui lui, inaspettatamente, ne è uscito per sempre.
In modo più che originale, alternati ai capitoli narrati da Eva in prima persona (che portano al posto del titolo la numerazione dei chilometri percorsi in treno), ve ne sono altri narrati in terza persona (e che portano in luogo del titolo gli anni a cui si riferiscono), in cui un narratore esterno ripercorre la storia della famiglia Huber, dal 1919 fino al 1992, movendo dalle vicissitudini del nonno materno di Eva, Herman, fino ad arrivare a quelle di sua figlia Gerda, madre di Eva, e dei suoi fratelli.
Nel libro, quindi, c’è quasi un secolo della storia d’Italia, ma più precisamente (ed è proprio questo il punto), c’è un quasi secolo della storia di una piccola regione incastonata fra le Alpi italiane ed austriache che si chiama Alto Adige o Südtirol, la quale, se è divenuta formalmente già dal 1919 suolo italiano, non sempre viene riconosciuta come tale da chi ci vive né viene trattata come tale da chi vi deve far rispettare le leggi. Ci sono il fascismo ed il Südtiroler Volkspartei, ci sono Silvius Magnago ed Aldo Moro, ci sono la strage alla stazione di Bologna ed il rastrellamento di giovani ribelli svoltosi a Tesselberg (Val Pusteria) nel settembre del 1964, e tanto altro ancora. Restano fuori solo gli -ormai tardivi- accordi di Shengen del 1998, che eliminano ogni confine fisico fra Südtirol (Italia) ed Austria, quando ormai la globalizzazione e gli interessi sovranazionali hanno seppellito ogni interesse prima fatto valere con la forza e la violenza.
Il romanzo è, dunque, la rievocazione storica, in tempo di pace, di episodi, per lo più drammatici relativi ad una integrazione forzata di un popolo straniero in territorio italiano, che l’autrice stessa afferma in epilogo essere stati già dall’epoca insabbiati o, alla meglio, portati a conoscenza dell’opinione pubblica in forma molto attenuata, se non addirittura falsata.
Le prime pagine mi hanno fatto, non poco, storcere il naso, perché non comprendevo bene quale fosse l’oggetto del racconto, se un vero racconto vi fosse o se vi fosse quantomeno un filo logico da seguire. Poi, andando avanti ho cominciato a comprendere, e gustare, la narrazione, giungendo, come dicevo, infine, ad apprezzarlo.
Gli unici appunti che mi viene da fare sono che da una sceneggiatrice navigata come la Melandri (che, da quel che apprendo ora, ha firmato molte serie tv di successo, tra le quali Fantaghirò) mi sarei aspettato maggiori dialoghi, più fantasia ed una più attenta descrizione di luoghi, persone e cose; mentre, invece, tutto ciò è ridotto all’essenziale. Inoltre, che, seppur soltanto in rari casi, gli avvenimenti realmente accaduti sono trattati come su un manuale di storia moderna, in maniera troppo analitica.
In ogni caso, il libro, opera prima della Melandri, merita di certo una lettura.
L’ho comprato perché un’opera prima desta sempre curiosità, ma soprattutto perché si presume sempre che il suo autore abbia dato il massimo per presentarsi al mondo dei lettori.
Alla fine non me ne sono pentito, nonostante abbia speso una cifra folle per averlo.
La storia è semplice: Eva Huber, altoatesina, figlia di un padre che lei sola non conosce e di una madre che ha subito le umiliazioni della povera gente negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, viene raggiunta telefonicamente da Vito, un ex carabiniere calabrese, l’unico uomo che stava per sposare sua madre e che, soprattutto, avrebbe degnamente ricoperto la figura del padre che lei non ha mai avuto. Vito sta per morire e vuole vederla per l’ultima volta, dopo trent’anni che fra loro non c’è stato più alcun contatto.
Nel viaggio in treno, l’unico mezzo di trasporto che trova disponibile nel giorno di pasqua, Eva ripercorre con la memoria i giorni della sua infanzia che hanno preceduto l’ingresso di Vito nella sua casa, fino a quello in cui lui, inaspettatamente, ne è uscito per sempre.
In modo più che originale, alternati ai capitoli narrati da Eva in prima persona (che portano al posto del titolo la numerazione dei chilometri percorsi in treno), ve ne sono altri narrati in terza persona (e che portano in luogo del titolo gli anni a cui si riferiscono), in cui un narratore esterno ripercorre la storia della famiglia Huber, dal 1919 fino al 1992, movendo dalle vicissitudini del nonno materno di Eva, Herman, fino ad arrivare a quelle di sua figlia Gerda, madre di Eva, e dei suoi fratelli.
Nel libro, quindi, c’è quasi un secolo della storia d’Italia, ma più precisamente (ed è proprio questo il punto), c’è un quasi secolo della storia di una piccola regione incastonata fra le Alpi italiane ed austriache che si chiama Alto Adige o Südtirol, la quale, se è divenuta formalmente già dal 1919 suolo italiano, non sempre viene riconosciuta come tale da chi ci vive né viene trattata come tale da chi vi deve far rispettare le leggi. Ci sono il fascismo ed il Südtiroler Volkspartei, ci sono Silvius Magnago ed Aldo Moro, ci sono la strage alla stazione di Bologna ed il rastrellamento di giovani ribelli svoltosi a Tesselberg (Val Pusteria) nel settembre del 1964, e tanto altro ancora. Restano fuori solo gli -ormai tardivi- accordi di Shengen del 1998, che eliminano ogni confine fisico fra Südtirol (Italia) ed Austria, quando ormai la globalizzazione e gli interessi sovranazionali hanno seppellito ogni interesse prima fatto valere con la forza e la violenza.
Il romanzo è, dunque, la rievocazione storica, in tempo di pace, di episodi, per lo più drammatici relativi ad una integrazione forzata di un popolo straniero in territorio italiano, che l’autrice stessa afferma in epilogo essere stati già dall’epoca insabbiati o, alla meglio, portati a conoscenza dell’opinione pubblica in forma molto attenuata, se non addirittura falsata.
Le prime pagine mi hanno fatto, non poco, storcere il naso, perché non comprendevo bene quale fosse l’oggetto del racconto, se un vero racconto vi fosse o se vi fosse quantomeno un filo logico da seguire. Poi, andando avanti ho cominciato a comprendere, e gustare, la narrazione, giungendo, come dicevo, infine, ad apprezzarlo.
Gli unici appunti che mi viene da fare sono che da una sceneggiatrice navigata come la Melandri (che, da quel che apprendo ora, ha firmato molte serie tv di successo, tra le quali Fantaghirò) mi sarei aspettato maggiori dialoghi, più fantasia ed una più attenta descrizione di luoghi, persone e cose; mentre, invece, tutto ciò è ridotto all’essenziale. Inoltre, che, seppur soltanto in rari casi, gli avvenimenti realmente accaduti sono trattati come su un manuale di storia moderna, in maniera troppo analitica.
In ogni caso, il libro, opera prima della Melandri, merita di certo una lettura.
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