Massimo Gramellini, “L’ultima riga delle favole”. Longanesi Editore, 29 aprile 2010. Pp. 260. € 16,00.
Leggiucchiando qua e là i commenti di chi ha avuto per le mani prima di me “L’ultima riga delle favole”, ho trovato spesso toni entusiastici per quella che è stata definita una nuova “favola” (guarda caso), creata ad arte per imparare “a sorridere dei propri limiti e a credere di più in sé stessi” (cito testualmente Feltrinelli in lafeltrinelli.it).
L’ultima riga delle favole è la storia fantastica (inteso qui come sinonimo di inverosimile, inventato, frutto della fantasia e irrealizzabile) di Tomàs, un uomo come tanti, che nel momento in cui crede di esser morto, scopre invece di essere finito in un mondo parallelo, dal nome accattivante delle Terme dell’Anima. Alle Terme, gli viene detto di esser finito lì grazie solo al suo desiderio recondito di voler provare amore; un desiderio, a quanto pare, venuto fuori al momento giusto. Dapprima scettico, perché convinto di non potere più amare, Tomàs si comincia a ravvedere quando gli appare chiara l’immagine di Arianna, esattamente così come l’aveva immaginata nel momento in cui credeva di stare morendo. Da lì, dunque, comincia il suo percorso alle Terme, per ripulire il suo cuore e tornare ad essere un vero uomo, ossia, come imparerà alla fine del percorso, un essere che ama.
Dopo essere stato combattuto a lungo sul genere letterario da attribuire all’opera di Gramellini, mi sono deciso anch’io di definirla una favola, ma con alcuni limiti.
Il primo limite riguarda la narrazione. L’azione è quasi del tutto azzerata: ciò che predomina, infatti, sono i dialoghi che malcelano, più che spesso, direi sempre, le elucubrazioni tardo-adolescenziali intorno a concetti quali l’amore, il desiderio, la scoperta del proprio io, il rapporto con gli altri, la fiducia in sé stessi e così via.
Inoltre, manca il senso dell’avventura, come inizialmente sembra doversi ritrovare; mancano le descrizioni dei luoghi (non perché ci devono stare, ma perché avrebbero fatto bene ad esserci), come dire, manca la scena, l’ambientazione è scarna; manca inoltre la rappresentazione visiva dei movimenti e dei gesti dei protagonisti, quasi a sottolineare ancor di più che ciò che si voleva esprimere sta solo in quei dialoghi e la storia, se vi piace, inventatevela voi.
Un altro limite riguarda lo stile, che mi è apparso troppo asciutto e finalistico. Ma non sarà un caso, penso anche, che l’autore, prima che scrittore, sia anche un giornalista. In sostanza, la morale della favola non è lasciata alla sensibilità di chi legge e che la trae sapendo andare al di là delle righe. No, per niente. La morale è nelle parole, nelle frasi e nei versi che la favola stessa riporta. Peccato.
Un ultimo limite, infine, sta nel prezzo. Senza volere apparire critico (più di quanto non lo sia già stato), trovo un po’ esagerato pagare sedici euro una favoletta che si legge in una notte (caldo e zanzare permettendo). Ma ciò non per sottolineare l’eccessiva breve durata del piacere in raffronto al prezzo, quanto pensando alle tante altre favole che non mi concederò per non finire squattrinato (chissà, forse anche questa, se non mi fosse stata regalata… Ma no, questa no, l’ho chiesta e voluta io!).
Ora, per concludere, mi darete per contraddittorio, perché per dare un mio giudizio complessivo, finirò per dire che L’ultima riga delle favole mi è piaciuta. Eh già. Proprio così! Certo, non sono entusiasta come chi mi ha preceduto, ma nel vestire per una notte i panni dell’adolescente che non ha avuto ancora il tempo di riflettere sulla natura dei propri sentimenti e sulle dimensioni delle proprie emozioni, ho provato un vago e piacevole senso di nostalgia.
Proprio per questo, anzi, credo che il libro sia destinato ad un pubblico molto giovane o che sente di volerlo ancora essere, quantomeno per una notte!
Leggiucchiando qua e là i commenti di chi ha avuto per le mani prima di me “L’ultima riga delle favole”, ho trovato spesso toni entusiastici per quella che è stata definita una nuova “favola” (guarda caso), creata ad arte per imparare “a sorridere dei propri limiti e a credere di più in sé stessi” (cito testualmente Feltrinelli in lafeltrinelli.it).
L’ultima riga delle favole è la storia fantastica (inteso qui come sinonimo di inverosimile, inventato, frutto della fantasia e irrealizzabile) di Tomàs, un uomo come tanti, che nel momento in cui crede di esser morto, scopre invece di essere finito in un mondo parallelo, dal nome accattivante delle Terme dell’Anima. Alle Terme, gli viene detto di esser finito lì grazie solo al suo desiderio recondito di voler provare amore; un desiderio, a quanto pare, venuto fuori al momento giusto. Dapprima scettico, perché convinto di non potere più amare, Tomàs si comincia a ravvedere quando gli appare chiara l’immagine di Arianna, esattamente così come l’aveva immaginata nel momento in cui credeva di stare morendo. Da lì, dunque, comincia il suo percorso alle Terme, per ripulire il suo cuore e tornare ad essere un vero uomo, ossia, come imparerà alla fine del percorso, un essere che ama.
Dopo essere stato combattuto a lungo sul genere letterario da attribuire all’opera di Gramellini, mi sono deciso anch’io di definirla una favola, ma con alcuni limiti.
Il primo limite riguarda la narrazione. L’azione è quasi del tutto azzerata: ciò che predomina, infatti, sono i dialoghi che malcelano, più che spesso, direi sempre, le elucubrazioni tardo-adolescenziali intorno a concetti quali l’amore, il desiderio, la scoperta del proprio io, il rapporto con gli altri, la fiducia in sé stessi e così via.
Inoltre, manca il senso dell’avventura, come inizialmente sembra doversi ritrovare; mancano le descrizioni dei luoghi (non perché ci devono stare, ma perché avrebbero fatto bene ad esserci), come dire, manca la scena, l’ambientazione è scarna; manca inoltre la rappresentazione visiva dei movimenti e dei gesti dei protagonisti, quasi a sottolineare ancor di più che ciò che si voleva esprimere sta solo in quei dialoghi e la storia, se vi piace, inventatevela voi.
Un altro limite riguarda lo stile, che mi è apparso troppo asciutto e finalistico. Ma non sarà un caso, penso anche, che l’autore, prima che scrittore, sia anche un giornalista. In sostanza, la morale della favola non è lasciata alla sensibilità di chi legge e che la trae sapendo andare al di là delle righe. No, per niente. La morale è nelle parole, nelle frasi e nei versi che la favola stessa riporta. Peccato.
Un ultimo limite, infine, sta nel prezzo. Senza volere apparire critico (più di quanto non lo sia già stato), trovo un po’ esagerato pagare sedici euro una favoletta che si legge in una notte (caldo e zanzare permettendo). Ma ciò non per sottolineare l’eccessiva breve durata del piacere in raffronto al prezzo, quanto pensando alle tante altre favole che non mi concederò per non finire squattrinato (chissà, forse anche questa, se non mi fosse stata regalata… Ma no, questa no, l’ho chiesta e voluta io!).
Ora, per concludere, mi darete per contraddittorio, perché per dare un mio giudizio complessivo, finirò per dire che L’ultima riga delle favole mi è piaciuta. Eh già. Proprio così! Certo, non sono entusiasta come chi mi ha preceduto, ma nel vestire per una notte i panni dell’adolescente che non ha avuto ancora il tempo di riflettere sulla natura dei propri sentimenti e sulle dimensioni delle proprie emozioni, ho provato un vago e piacevole senso di nostalgia.
Proprio per questo, anzi, credo che il libro sia destinato ad un pubblico molto giovane o che sente di volerlo ancora essere, quantomeno per una notte!
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