lunedì 14 febbraio 2011

Donatella Di Pietrantonio, “Mia madre è un fiume”.

I ricordi di una vita difficile, passata nei campi a seminare il grano e far pascolare le pecore, e poi ancora a far tornare i conti nell’attesa di un destino migliore, mentre quello che è dato non lascia presagire nulla di buono, destano sempre interesse in chi non li ha vissuti in prima persona, mentre suscitano almeno una vena di nostalgia, nonostante le brutture sopportate, in chi li rivive nella memoria dopo anni, quando il destino sperato si è davvero rivelato.
Il libro esordio di Donatella Di Pietrantonio è un “fiume” di ricordi, che appartengono alla vita di una madre, ormai anziana, che ha vissuto la sua giovinezza negli anni quaranta nelle campagne dell’Abruzzo. Ma i ricordi della madre non è lei stessa a rievocarli, quanto sua figlia, dato che la vecchiaia la sta privando della capacità di raffigurarli per intero e nella giusta sequenza. Così nei continui incontri tra madre e figlia, in cui riaffiorano le memorie d’una famiglia con le sue gesta, le sue aspirazioni, e i precetti a cui obbedire, l’interesse dell’osservatore esterno e la nostalgia di chi ne è implicato si traducono in poesia.
Devo dire che l’approccio a questo libro non è stato molto facile per me, per la scelta stilistica adottata: l’unica voce narrante, infatti, che è quella della figlia, sovrappone i suoi pensieri al racconto che lei stessa fa alla madre, rievocandone il passato, o alla descrizione che fa di sé ad un ascoltatore virtuale (che è il lettore). Il tutto, peraltro, facendo un uso abbondante del discorso diretto e astraendosi totalmente dal contesto materiale in cui si trova, mentre narra in prima persona. Insomma, mi smarrivo un po’, perdevo il filo del discorso. Mi sentivo sconfitto perché non riuscivo ad aggrapparmi a nulla che rassomigliasse a un chi, a un dove, a un come e a un quando.
Andando avanti, però, tutto è cambiato e, in un’ottica diversa, perfino il discorso diretto ha finito con l’apparirmi una scelta studiata, cruciale ed eccellente, per almeno due motivi: il meno importante è che, in una raffigurazione scenica del tutto inesistente e nell’assenza anche di qualsiasi dialogo fra i personaggi, lascia immaginare le due donne calate in un contesto a loro familiare o in cui quantomeno si trovano a loro agio (io, ad esempio, me le immaginavo sempre l’una accanto all’altra. Forse talvolta che si tenevano per mano. In una stanza con divani e sedie ordinate. La televisione spenta e pochi rumori che provenivano dall’esterno. Il più delle volte, in un tardo pomeriggio, all’ora in cui cominciano ad accendersi i riscaldamenti in casa e fuori incombe il buio); il motivo più importante è che, usando il discorso diretto, la figlia, che per ovvietà non può avere vissuto la giovinezza insieme alla madre, sembra partecipare maggiormente ai suoi ricordi, mostrando quasi di averli fatti propri e di condividerli, descrivendo, così, un’intimità familiare, che purtroppo si rivela essere stata acquistata troppo tardi.
Il tema drammatico che il libro affronta, infatti, è l’inafferrabilità del tempo, raffigurata nel momento in cui l’amore fra le due donne protagoniste tocca il suo culmine, ma anche in quello in cui alle due donne non resta che assistere, a causa della malattia che riduce la memoria della madre, alla sua inesorabile dissoluzione.
Minimalista, impresso a grosse pennellate. Suadente.

Nessun commento:

Posta un commento