martedì 21 giugno 2011

Josè Saramago, “Cecità”.

Cosa succederebbe agli uomini di una nazione, se in pochi giorni diventassero tutti ciechi? Riuscirebbero a trovare una nuova forma di adattamento al loro stato, oppure no?
A un anno esatto dalla morte di Josè Saramago (18 giugno 2010) ho completato la lettura di “Cecità”, l’opera in cui, in modo spietato e tristemente pessimista, si tenta, non senza secondi fini, di dare una risposta a questi interrogativi.
Il romanzo è atroce per le scene che vengono rappresentate e per la crudezza di situazioni che, anche se inverosimili, divengono facili da immaginare. L’autore, infatti, sembra accompagnare per mano i suoi lettori in un mondo che lui stesso sembra avere scoperto da poco e del quale non riesce ancora a non stupirsi. Egli constata come, di fronte alle ovvie e più immediate conseguenze che ha portato la cecità colpendo l’intera popolazione, tutti i precetti, i sani principi, gli stessi valori morali, non hanno retto all’impatto dell’epidemia, lasciando il posto all’innata barbarie del genere umano, al suo egoismo, alla sopraffazione sul prossimo, alla paura di vedersi nuocere dagli altri e, dunque, al desiderio di fuggirne o di anticiparne le mosse violentemente.
L’obiettivo è puntato prevalentemente sull’effetto che la malattia ha provocato sulla società, piuttosto che sui singoli, anche se, sia pur sporadicamente, si sposta sulle impressioni personali e gli intimi pensieri. Ma sembra che questa duplice inquadratura sia destinata, comunque, allo scopo di porre a paragone il difetto fisico al centro della storia con una chiusura mentale che, nel pensiero dell’autore, risulta essere congenita nell’uomo, tanto da farlo apparire spesso, appunto, cieco.
La trama è creata ad arte per non fare mai stancare il lettore. All’inizio dell’epidemia, infatti, un gruppo sparuto di persone, che è quello a cui appartengono i primi a contrarre la cecità, viene forzatamente relegato in un ex manicomio, per evitare il dilagarsi del male e al tempo stesso poterne studiare le cause e la cura. Il manicomio, però, viene presto riempito di gente fino a scoppiare e il cibo, già scarso sin dall’inizio, per via della paura di quanti avrebbero dovuto consegnarlo di venire contagiati, non viene più somministrato. Diviene, dunque, presto una specie di lazzaretto, fetido e pieno di sporcizia, e al suo interno scoppiano risse e si compiono i peggiori crimini. Quando la situazione diviene insostenibile, durante un incendio, i ciechi decidono di fuggire, rischiando le pallottole dei soldati che li tengono di guardia, ma ad attenderli c’è una più amara rivelazione della realtà: anche i soldati e gli stessi membri del governo che li avevano rinchiusi sono a quel punto diventati ciechi, e con essi tutta la popolazione, e per le strade la gente girovaga come branchi di lupi affamati, insieme a cani che si nutrono delle loro carcasse, topi di fogna e spazzatura. L’acqua, l’elettricità, il gas sono inutilizzabili e nell’aria aleggia costantemente un odore di decomposizione.
Una sola donna, la moglie di uno del gruppo, misteriosamente, ha avuto fatta salva la vista, sin dall’inizio, in modo tale che, attraverso i suoi occhi, possiamo vedere ciò che accade.
Un libro atroce, come dicevo, ma al tempo stesso arguto e profondo. Direi, un’eccellente allegoria della specie umana, che ne evidenzia la vacuità dei propositi: se messo alla prova, infatti, l’uomo si dimostra pronto a rinunciare a tutti i valori che ha sposato, persino quelli che, per ironia della sorte, ha ritenuto parte della sua stessa natura.
Un libro facile da leggere, nonostante un’inspiegabile, ma chiaramente voluto, uso erroneo della punteggiatura: il punto quasi non esiste (chiude solo periodi di non meno di mezza pagina), essendo nella maggior parte dei casi sostituito da una virgola, mentre tutti gli altri simboli d’uso essenziale, come i punti interrogativi, i punti esclamativi, i due punti, le virgolette, e così via sembrano essere sconosciuti all’autore.
L’unica spiegazione che potrei dare a tale strana scelta è la fusione delle parole con un contesto caotico, impersonale, e il tentativo (ben riuscito) di poter ricondurre le stesse a chiunque. D’altra parte, a nessun personaggio è dato un nome, sia pur di fantasia, che lo identifichi, perché nella prova in cui l’autore si è voluto cimentare le azioni, le parole e le scelte possano così ricondursi a quelle di un qualsiasi uomo e non a quelle di uno solo di essi.

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