giovedì 19 maggio 2011

Jonathan Franzen, “Libertà”.

Un capolavoro. Così lo hanno definito gli americani. Un ottimo libro, direi io. Gradevole da leggere e così americano da riuscire a piacere ai lettori più disparati, con un solo, ma sostanziale limite (di cui dirò più avanti) che non lo fa assurgere a vera opera d’arte.
Libertà può esser letto in due modi, o come una saga familiare molto eloquente, così estesa da acchiappare anche più di tre generazioni, oppure come la fotografia dell’opinione pubblica americana all’epoca dell’insediamento del presidente Obama.
Nel primo caso, ci si trova a viaggiare fin dentro le viscere dei Berglund, un famiglia americana apparentemente ideale, con padre, madre e due figli, che però ben presto, a causa di retaggi psicologici difficili, fatti occasionali e ambizioni non condivise, finisce con lo sgretolarsi. Walter e Patty Berglund trascorrono una vita ad amarsi e a tenersi a distanza, a indugiare sulla profondità dei loro sentimenti, a provare a immaginare come sarebbe stata la loro vita se non si fossero conosciuti e a sperimentare, figurativamente o in concreto, una via di fuga dagli esempi negativi delle rispettive famiglie. Tutto ciò, mentre attorno a loro ruotano le figure, ora minacciose ora necessarie, dei figli, dei vicini di casa, degli altri parenti e degli amici. Sotto tale aspetto, la capacità dell’autore di rendere le emozioni dei protagonisti o di far vivere le loro stesse conversazioni, con la scena che li circonda, risulta davvero superlativa, nonostante qualche eccesso che potrà apparire fastidioso a chi non ama il realismo esasperato. Di sicuro, non stanca mai, pur non trascinando come potrebbe.
Nel secondo caso, il libro pecca un po’ di forza comunicativa, anche se l’intento di voler lasciare ai posteri un messaggio (che qui non si dirà) risulta abbastanza chiaro. Viene rappresentata, sia pur in modo filtrato, la situazione politica degli Stati Uniti d’America, nel periodo che va dall’indomani dell’attacco alle torri gemelle, o forse sarebbe meglio dire dal governo Bush, fino a quello di Obama. Ciò, perché fra i Berglund c’è sempre qualcuno che si trova a fare i conti o a commentare alla sua maniera la situazione politica interna e quella dei paesi arabi. In tutto ciò, però, l’impressione è che l’autore o non voglia appesantire la narrazione con riferimenti alla politica ed all’aspetto sociale, preferendo rimanere nel sistema soapoperistico della saga familiare, o non sappia materialmente intessere la trama cominciata e la rimetta per la sua parte maggiore alle cognizioni del lettore ovvero, infine, quel che, ahimé, temo sia l’ipotesi più verosimile, si dimostri lui stesso, autore, quello stereotipo americano, col cervello da bambinone cresciuto e la pistola nel cassetto, che viene raffigurato spesso da questa parte dell’Oceano.
In qualunque modo lo si legga, le due linee, sempre distinguibili, convergono in molti punti, nei quali, a mio avviso, dovrebbe emergere l’aspetto maggiormente artistico e riflessivo del romanzo, dato che ne costituiscono i momenti più elevati. Quelli in cui l’autore dovrebbe esaltarsi nel raccogliere tutti i capi della trama che ha imbastito. Invece, ben presto ci si rende conto che tali punti non riescono ad andare oltre il fuggevole picco di esaltazione che provocano, nel complesso di una storia che risulta liscia, lineare e senza particolari sconvolgimenti per chi l’apprende. In ciò risiede il limite di cui accennavo all’inizio.
Per averne un’idea, basti pensare a titolo d’esempio che, pur armati delle migliori intenzioni, padre e figlio Berglund, ossia Walter e Joey, che aderiscono ad ideali politici contrapposti, si trovano col finire sulla stessa barca, involontariamente se non contro la loro volontà, al servizio dei potenti, per i quali l’unico movente è il dio denaro. Ecco, questo momento di altissima intensità, che dovrebbe far riflettere sul relativismo degli ideali, sulla forza delle lobby, sull’indifferenza degli stati ai problemi dell’umanità, e così via; ma tutto ciò, in un libro di oltre seicento pagine, si comincia a comprendere, viene affrontato direttamente e si conclude al massimo in due o tre pagine. Dopo di che, se ne perdono le tracce, definitivamente. Peccato, veramente peccato!
E che dire del titolo? Libertà. Se non fosse che qualche riga sparsa qua che se ne ricorda con vaghezza, tanto è tenute e intimidito il senso del romanzo che si finirebbe per non spiegarselo.

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