lunedì 7 marzo 2011

Richard C. Morais, “Madame Mallory e il piccolo chef indiano”.

Il primo romanzo di Richard C. Morais (il cui titolo originale è “The Hundred-Foot Journey”) è l’equivalente di un cosiddetto film “di cassetta” americano: sin dalle prime battute si intuisce già come andrà a finire, per cui l’unica sua attrattiva è data dagli effetti scenici e dagli accorgimenti curiosi, avventurosi o scandalistici che vi si trovano nel mezzo. Inoltre, non offre alcuno stimolo moralistico o argomento che susciti riflessioni approfondite. Basti pensare che il tema più importante affrontato è l’esigenza, avvertita da un indiano, di custodire la tradizione francese in cucina.
In casi del genere, dunque, il giudizio non può che restringersi a un bello o a un brutto che si basi sulle scene o sulle immagini (qui, sulla capacità di saperle evocare), sull’interpretazione degli attori (qui, sulla raffigurazione dei personaggi) e sull’evoluzione della narrazione.
E, a mio parere, Madame Mallory e il piccolo chef indiano è bello. Anzi, delizioso.
Lo è perché l’idea stereotipata della metropoli indiana, da cui muove le mosse, è perfettamente raffigurata nella sua bolgia di donne e uomini che si muovono in ogni direzione, nel suo caos generale, nelle mille luci e colori. Così come ben descritte sono la silenziosa, grigia e soporifera città inglese, la moderatamente vivace provincia francese e la spocchiosa, gaudente e costosa Parigi.
Lo è anche perché nei protagonisti, che pur sono accomunati dalla stessa vocazione, quella di eccellere nell’arte culinaria, sono distinguibili caratteri diversi, ancorché ciascuno di essi non sia mai rappresentato nella sua intima personalità.
Lo è, infine, soprattutto, perché il racconto della vita di un promesso chef indiano, dai primi esperimenti davanti ai fornelli fino al raggiungimento del più elevato riconoscimento internazionale attribuibile ad un cuoco, è resa in modo semplice, senza particolari sbalzi emotivi, attraverso una narrazione che scivola via liscia come l’olio.
Che altro dire? Assolutamente nulla, se non che nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, l’autore ricorda che l’iniziativa di scrivere il libro era stata oltreché sua anche di un produttore cinematografico che gliel’avrebbe finanziato, ma che quest’ultimo non c’è più e, quindi, il progetto così come concepito inizialmente è andato a monte. Anche per questa ragione, l’autore non fa mistero del suo desiderio di vederlo comunque messo in scena. E quindi, non mi stupirebbe se tra poco ce lo trovassimo tra i film in programmazione.

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