
E, a mio parere, Madame Mallory e il piccolo chef indiano è bello. Anzi, delizioso.
Lo è perché l’idea stereotipata della metropoli indiana, da cui muove le mosse, è perfettamente raffigurata nella sua bolgia di donne e uomini che si muovono in ogni direzione, nel suo caos generale, nelle mille luci e colori. Così come ben descritte sono la silenziosa, grigia e soporifera città inglese, la moderatamente vivace provincia francese e la spocchiosa, gaudente e costosa Parigi.
Lo è anche perché nei protagonisti, che pur sono accomunati dalla stessa vocazione, quella di eccellere nell’arte culinaria, sono distinguibili caratteri diversi, ancorché ciascuno di essi non sia mai rappresentato nella sua intima personalità.
Lo è, infine, soprattutto, perché il racconto della vita di un promesso chef indiano, dai primi esperimenti davanti ai fornelli fino al raggiungimento del più elevato riconoscimento internazionale attribuibile ad un cuoco, è resa in modo semplice, senza particolari sbalzi emotivi, attraverso una narrazione che scivola via liscia come l’olio.
Che altro dire? Assolutamente nulla, se non che nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, l’autore ricorda che l’iniziativa di scrivere il libro era stata oltreché sua anche di un produttore cinematografico che gliel’avrebbe finanziato, ma che quest’ultimo non c’è più e, quindi, il progetto così come concepito inizialmente è andato a monte. Anche per questa ragione, l’autore non fa mistero del suo desiderio di vederlo comunque messo in scena. E quindi, non mi stupirebbe se tra poco ce lo trovassimo tra i film in programmazione.
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