Una piccola delusione per un libro che, nel complesso, comunque, mi è piaciuto.
Come spesso accade, le note critiche che accompagnano i romanzi, specie se sono fatte dagli editori che li commercializzano, tendono a sottolinearne qualità che non si rivelano affatto o che compaiono, ma in misura decisamente più ridotta di quel che si lascia intendere. Il risultato è che, chi si è lasciato convincere dalla quarta di copertina, al termine della lettura ne ha una delusione.
Così è capitato a me leggendo Il seme del papavero. L’editore lo ha definito “intenso ed emozionante… la storia di una donna e di una rivincita. Un viaggio pieno di luce e di colore dentro un’Asia vivissima e crudele”.
Sarà forse perché recentemente ho letto tanti romanzi di provenienza orientale, forse perché sento ancora le vibrazioni di “Shantaram”, di Gregory David Roberts, il sapore amaro di “Ombre bruciate” di Kamila Shamsie, le contraddizioni di “Mehwish parla al sole” di Uzma Aslam Khan, ma proprio nel seme del papavero non ho ritrovato quell’Asia vivissima e crudele a cui altri mi avevano abituato. Così come non mi è sembrato né intenso né tantomeno emozionante. Da qui la delusione.
Il libro, però, per fortuna mia che l’ho letto, ha altre qualità. La prima fra tutte è uno stile narrativo avvincente: l’autrice, infatti, ha scelto di ripercorrere la vita di Na Ga, la protagonista, intercalando il procedere lento delle giornate che precedono il ritorno al suo (ormai, divenuto) sconosciuto paese d’origine ai ricordi più o meno vivi delle vicissitudini che l’hanno accompagnata per tutta la vita, da quando, da bambina, è stata venduta come schiava, passando dalla promessa, poi tradita, di andare a vivere in America con la famiglia che per un breve tempo si era presa cura di lei, fino ad arrivare agli anni in cui è stata costretta alla prostituzione e al carcere. Il tutto, lasciando trasparire coi tempi giusti la mentalità di Na Ga, il difficile approccio fra la sua cultura e quella occidentale e le origini della confusione mentale in cui si trova all’epoca in cui viene raccontata la sua storia.
Un altro pregio che si deve riconoscere al romanzo è il tema trattato, dato che, come lascia bene intendere, quella di Na Ga non è una storia isolata, ma altro non è che una fra le tante in cui versano ancora oggi moltissime donne originarie delle zone più remote dell’Asia che solo chi come l’autrice, originaria della Birmania, ma ormai naturalizzata cittadina americana (seppur residente in Inghilterra), può raccontare.
Infine, il miglior pregio che ho ricavato dal libro è quello che si riassume nel detto: la speranza è l’ultima a morire. Se, infatti, per tutta la trattazione affiora costantemente il desiderio di Na Gadi dare un senso alla sua vita, ricevendo però anche, tutte le volte, una delusione, nel finale, come un fiore nel deserto, si concretizza un’amicizia, nata per caso, per errore, ma conquistata e, apparentemente indissolubile, e soprattutto che, sembra tale da assegnare finalmente una direzione a una vita che, finora, non l’aveva mai avuta.
“La via per Wanting”, ovvero per il luogo simbolico, la città, Wanting, in cui la narrazione concede definitivamente il dono di una vita che abbia un senso alla protagonista, peraltro, è il titolo originale del romanzo (The road to Wanting). Chissà perché l’editore italiano lo ha poi cambiato in “il seme del papavero”? Mah!
Come spesso accade, le note critiche che accompagnano i romanzi, specie se sono fatte dagli editori che li commercializzano, tendono a sottolinearne qualità che non si rivelano affatto o che compaiono, ma in misura decisamente più ridotta di quel che si lascia intendere. Il risultato è che, chi si è lasciato convincere dalla quarta di copertina, al termine della lettura ne ha una delusione.
Così è capitato a me leggendo Il seme del papavero. L’editore lo ha definito “intenso ed emozionante… la storia di una donna e di una rivincita. Un viaggio pieno di luce e di colore dentro un’Asia vivissima e crudele”.
Sarà forse perché recentemente ho letto tanti romanzi di provenienza orientale, forse perché sento ancora le vibrazioni di “Shantaram”, di Gregory David Roberts, il sapore amaro di “Ombre bruciate” di Kamila Shamsie, le contraddizioni di “Mehwish parla al sole” di Uzma Aslam Khan, ma proprio nel seme del papavero non ho ritrovato quell’Asia vivissima e crudele a cui altri mi avevano abituato. Così come non mi è sembrato né intenso né tantomeno emozionante. Da qui la delusione.
Il libro, però, per fortuna mia che l’ho letto, ha altre qualità. La prima fra tutte è uno stile narrativo avvincente: l’autrice, infatti, ha scelto di ripercorrere la vita di Na Ga, la protagonista, intercalando il procedere lento delle giornate che precedono il ritorno al suo (ormai, divenuto) sconosciuto paese d’origine ai ricordi più o meno vivi delle vicissitudini che l’hanno accompagnata per tutta la vita, da quando, da bambina, è stata venduta come schiava, passando dalla promessa, poi tradita, di andare a vivere in America con la famiglia che per un breve tempo si era presa cura di lei, fino ad arrivare agli anni in cui è stata costretta alla prostituzione e al carcere. Il tutto, lasciando trasparire coi tempi giusti la mentalità di Na Ga, il difficile approccio fra la sua cultura e quella occidentale e le origini della confusione mentale in cui si trova all’epoca in cui viene raccontata la sua storia.
Un altro pregio che si deve riconoscere al romanzo è il tema trattato, dato che, come lascia bene intendere, quella di Na Ga non è una storia isolata, ma altro non è che una fra le tante in cui versano ancora oggi moltissime donne originarie delle zone più remote dell’Asia che solo chi come l’autrice, originaria della Birmania, ma ormai naturalizzata cittadina americana (seppur residente in Inghilterra), può raccontare.
Infine, il miglior pregio che ho ricavato dal libro è quello che si riassume nel detto: la speranza è l’ultima a morire. Se, infatti, per tutta la trattazione affiora costantemente il desiderio di Na Gadi dare un senso alla sua vita, ricevendo però anche, tutte le volte, una delusione, nel finale, come un fiore nel deserto, si concretizza un’amicizia, nata per caso, per errore, ma conquistata e, apparentemente indissolubile, e soprattutto che, sembra tale da assegnare finalmente una direzione a una vita che, finora, non l’aveva mai avuta.
“La via per Wanting”, ovvero per il luogo simbolico, la città, Wanting, in cui la narrazione concede definitivamente il dono di una vita che abbia un senso alla protagonista, peraltro, è il titolo originale del romanzo (The road to Wanting). Chissà perché l’editore italiano lo ha poi cambiato in “il seme del papavero”? Mah!
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