giovedì 1 luglio 2010

Jamie Ford, “Il gusto proibito dello zenzero”.


Se il romanzo narra la storia d’amore travagliata, commovente a tratti deliziosa e certamente avvincente di due ragazzini appena adolescenti negli Stati Uniti d’America del 1942, il libro racchiude ben altro.
Tanto per cominciare, i due ragazzini, Henry e Keiko, pur essendo americani a tutti gli effetti, per essere nati in America, provengono da famiglie asiatiche di paesi diversi: la Cina, nel caso di Henry, e il Giappone, nel caso di Keiko, il che, nel luogo e nell’epoca in cui si svolgono i fatti, si traduce in un ostacolo insormontabile all’espressione libera dei loro sentimenti. Quel che viene fuori, anche presto, però, non è -come ci si può aspettare dapprincipio- la trita e ritrita solfa sugli emigrati provenienti da ceppi culturali molto ben radicati che pretendono di far proseguire nei loro discendenti, nati in terra straniera, le usanze e le tradizioni del popolo di appartenenza.
Il tema, infatti, parte da questo ma va ben oltre.
Nel 1942 è in atto la guerra. Il secondo conflitto mondiale, che ha visto un’escalation vertiginosa di odio degli Stati Uniti d’America, e degli americani, nei confronti del Giappone, e dei giapponesi, dopo l’attacco di Pearl Harbor. Non solo, cioè, dell’odio metaforico fra nazioni che si contendono il controllo strategico, economico e militare dell’Oceano Pacifico, ma dell’odio vero, materiale, fra la gente del popolo, vissuto per le strade delle grosse città statunitensi. Un odio che è dilagato grazie soprattutto all’ignoranza, la quale è sempre rimasta indifferente ai dati reali, per prestare ascolto maggiormente alle apparenze. Proprio per questo, la drammatica sorte che è spettata ai giapponesi in America ha minacciato costantemente persino Henry che, essendo origini cinesi, ha avuto la sfortuna di avere i tratti somatici simili a quelli di Keiko.
In questa chiave ben marcata, il libro si spinge fino a dar conto di un vero paradosso storico che è sempre stato sottaciuto: gli Stati Uniti d’America, che un vero popolo con la sua identità e la sua storia non lo hanno mai avuto, a metà del ventesimo secolo si sono spinti fino al punto da relegare in campi di concentramento tutti gli uomini di etnia nipponica, formalmente sol perché era in atto la guerra contro il Giappone. Ciò senza pensare che i civili residenti in America provenienti dal Giappone erano americani allo stesso modo di tutte le altre genti che erano provenute dal resto del mondo. A chi, infatti, in quegli anni è venuto mai in mente di discriminare allo stesso modo gli oriundi Italiani o tedeschi che risiedevano in quel paese? A nessuno. Eppure, proprio i paesi da cui questi ultimi provenivano formavano col Giappone il famoso Asse Roma-Berlino-Tokio. Il paradosso ben delineato nel libro, allora, in termini più appropriati si definisce come una vera e propria manifestazione di razzismo, di violenza psicologica, di violazione di tutte le regole morali e di tutte le norme giuridiche sul rispetto della persona umana, che hanno fondamento nell’ignoranza ed in cui, ancora una volta, ahinoi, nello sfondo c’è la grande America.
Il libro è bello e profondo. E’ da leggere certamente, anche se a scriverlo è stato un proprio un americano.

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