giovedì 13 gennaio 2011

Michel Houellebecq, “La carta e il territorio”.

La carta è il territorio. Mi sono messo a pensare cosa avrei scritto di questo libro e non mi veniva in mente un buon inizio. Mi sarebbe piaciuto, infatti, cominciare dalla fine - dalla fine del romanzo, intendo - ma poi non riuscivo a immaginare come riemergere per riportarmi ai suoi primi capitoli. Eppure è tutt’altro che un ginepraio di trame intrecciate o una storia dai troppi personaggi che finiscono per confonderti le idee. Né richiede un’attenzione particolare in ordine ai temi affrontati. E’ semplicemente un romanzo. O forse due. Beh, l’ho detto e ora non posso più tirarmi indietro.
Dopo un breve prologo, il libro si divide in tre parti a cui fa seguito un lungo epilogo. Il prologo e le prime due parti raccontano il periodo più fortunato della vita di Jed Martin, artista grafico che conosce presto il successo e che diviene ricco sfondato grazie ad una serie di circostanze volute più, se non esclusivamente, da chi lo circonda e sa sfruttare l’arte pura delle sue rappresentazioni, che non da sé stesso. E’ l’unico periodo in cui Jed instaura dei veri rapporti sociali. Venuto da una famiglia in cui la madre si era tolta la vita ancor giovane e il padre era spesso assente per ragioni legate al suo lavoro, Jed cresce, infatti, solo, fino al momento, appunto, in cui comincia il romanzo.
Giunto alla terza parte, invece, il lettore ha l’impressione di aver cambiato libro. Improvvisamente si trova fra le mani un thriller, con ambienti e personaggi diversi da quelli narrati fino a quel punto. Il commissario Jacelin si torva a dover risolvere il caso più misterioso e sconvolgente che gli sia mai capitato nella sua carriera: un killer spietato ha mozzato la testa della sua vittima e del suo cane ed ha poi ridotto a brandelli i loro corpi, sparpagliandoli nella casa di campagna in cui ha commesso l’omicidio. Solo negli ultimi capitoli, la storia di Jed e quella del commissario Jacelin si incontrano, dando la svolta alle indagini che si attendeva.
Nell’epilogo, invece, la narrazione si sposta fin oltre il terzo decennio del 2000, ad osservare da lontano quel che è stato e quel che ne è adesso di Jed; di quell’artista dalle grandi risorse che fece tanto parlare di sé intorno al 2010.
Lo interpreto come un romanzo che vuole riportare l’arte e il pragmatismo nei loro giusti ambiti. Uno spaccato, certo non comune e non immediatamente accessibile, del mondo contemporaneo, nel quale si osserva come la propensione all’arte non è solo o necessariamente fonte di grazia e di successo, ma può essere anche un fardello odioso per chi ne viene coinvolto, quasi fosse una malattia inguaribile. E, infine, in cui si rammenta, con fare sottilmente polemico, come persino il gusto estetico - oltre, s’intuisce, a tanti altri valori - può risultare il prodotto di una moda indotta dalla capacità di persuasione dei grandi nomi della stampa.
Per concludere, voglio segnalare, perché la cosa mi è sembrata straordinariamente originale, che l’autore si è fatto personaggio del romanzo, apparendo e scomparendo, insegnando ed apprendendo, in uno spirito cupo, ma pregno di tensioni, che lo avvicina enormemente al protagonista Jed. Ciò, senza dir della (anch’essa più che originale) sorte che ha assegnato a sé stesso.

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