martedì 25 gennaio 2011

Jonathan Coe, “La famiglia Winshow”.

Michael Owen viene assunto per scrivere “un libro tremendo, un libro senza precedenti, fatto in parte di memorie private, in parte di cronaca sociale, tutto mescolato insieme in una miscela letale e devastante”, ma quando gli viene dato l’incarico lui ancora tutto questo non lo sa. Lo apprenderà col tempo, conoscendo a poco a poco la famiglia Winshaw, i suoi segreti privati e le sue relazioni col mondo.
I componenti dell’ultima generazione della famiglia Winshow sono i simboli del potere, nelle sue diverse forme, nell’Inghilterra degli anni ’80. Politica, mercato azionario, produzione alimentare, armi, arte e informazione sono i luoghi in cui si esercita principalmente il potere e ogni Winshow trae profitto in modo quasi sempre illegale, poco trasparente e parassitario da ciascuno di tali settori, confidando nella carta vincente del sodalizio familiare.
Se, però, in un sistema che è fatto di corruzioni, ricatti e scambi di favori le armi si vendono con l’aiuto della politica, la produzione alimentare si incentiva con qualche ritocco sui mercati azionari e l’arte si riconosce solo dove la stampa che vale ne fa menzione, chi ne fa le spese è sempre e soltanto il popolo.
Mentre i personaggi accrescono la loro forza e le loro ricchezze in questo modo, dallo sfondo si vede accrescere il prestigio di Margareth Tatcher, il primo ministro inglese ricordato come la “dama di ferro”, per non avere avuto scrupoli nell’applicare le proprie leggi a svantaggio molte volte degli interessi delle masse, e sul fronte internazionale, si fa conoscenza con un certo Hussein, Saddam Hussein, che invece accresce la sua forza in Iraq, grazie alla complicità e agli aiuti degli Stati Uniti d’America, ai quali si affianca, per non essere da meno e per potere investire forze ed economie, l’Inghilterra.
Sebbene trovi un po’ d’imbarazzo a commentare l’opera, forse, più famosa di Jonathan Coe, solamente adesso, a distanza di diciassette anni dalla sua prima edizione, non posso tacere la meraviglia che ha suscitato in me quando ho ritrovato le capacità straordinarie dell’autore di mettere in scena un guazzabuglio di nomi, avvenimenti, pensieri, luoghi, dialoghi e chi più ne ha più ne metta, dedicandosi poi, con pazienza, per tutto il corso della narrazione, a districare i fili e sciogliere in nodi apparentemente più difficili, accompagnando quasi per mano il lettore, sino all’ultima riga, al bandolo della matassa. Non c’è un dialogo, infatti, che risulti semplicemente riempitivo o un dettaglio, anche banale, che non sia utile allo scopo finale. Tutto nell’accozzaglia troverà al termine il suo giusto posto e la sua corretta collocazione, come in un perfetto thriller che fa stare col fiato sospeso.
Autorevole, magistrale, unica, poi, è la capacità dell’autore di indugiare, quasi affondandovi, nei moti interiori dell’animo di Michael Owen, al quale, oltretutto, assegna in modo assolutamente originale il compito di essere anche il narratore per tutta la prima metà del romanzo, facendolo divenire poi, nella seconda parte, dopo un evento che non starò certo qui a raccontare (ma che ha un che di illuminante, almeno per Owen) un mero personaggio narrato.
La famiglia Winshow, come bene è stato detto, è un libro denuncia. C’è chi preferisce vederlo come una finestra sull’Inghilterra degli anni ’80, ma io preferisco concepirlo come un monito per le generazioni future, ancor più quando gli eventi narrati, seppur arricchiti da una notevole fantasia, tracciano la nascita di uno spirito prepotente ed egoista ancora ben noto al mondo contemporaneo e di cui, purtroppo, si conoscono anche le conseguenze, e nulla si fa per porvi rimedio.

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