giovedì 1 luglio 2010

Wendy Law-Yone, “Il seme del papavero”.


Una piccola delusione per un libro che, nel complesso, comunque, mi è piaciuto.
Come spesso accade, le note critiche che accompagnano i romanzi, specie se sono fatte dagli editori che li commercializzano, tendono a sottolinearne qualità che non si rivelano affatto o che compaiono, ma in misura decisamente più ridotta di quel che si lascia intendere. Il risultato è che, chi si è lasciato convincere dalla quarta di copertina, al termine della lettura ne ha una delusione.
Così è capitato a me leggendo Il seme del papavero. L’editore lo ha definito “intenso ed emozionante… la storia di una donna e di una rivincita. Un viaggio pieno di luce e di colore dentro un’Asia vivissima e crudele”.
Sarà forse perché recentemente ho letto tanti romanzi di provenienza orientale, forse perché sento ancora le vibrazioni di “Shantaram”, di Gregory David Roberts, il sapore amaro di “Ombre bruciate” di Kamila Shamsie, le contraddizioni di “Mehwish parla al sole” di Uzma Aslam Khan, ma proprio nel seme del papavero non ho ritrovato quell’Asia vivissima e crudele a cui altri mi avevano abituato. Così come non mi è sembrato né intenso né tantomeno emozionante. Da qui la delusione.
Il libro, però, per fortuna mia che l’ho letto, ha altre qualità. La prima fra tutte è uno stile narrativo avvincente: l’autrice, infatti, ha scelto di ripercorrere la vita di Na Ga, la protagonista, intercalando il procedere lento delle giornate che precedono il ritorno al suo (ormai, divenuto) sconosciuto paese d’origine ai ricordi più o meno vivi delle vicissitudini che l’hanno accompagnata per tutta la vita, da quando, da bambina, è stata venduta come schiava, passando dalla promessa, poi tradita, di andare a vivere in America con la famiglia che per un breve tempo si era presa cura di lei, fino ad arrivare agli anni in cui è stata costretta alla prostituzione e al carcere. Il tutto, lasciando trasparire coi tempi giusti la mentalità di Na Ga, il difficile approccio fra la sua cultura e quella occidentale e le origini della confusione mentale in cui si trova all’epoca in cui viene raccontata la sua storia.
Un altro pregio che si deve riconoscere al romanzo è il tema trattato, dato che, come lascia bene intendere, quella di Na Ga non è una storia isolata, ma altro non è che una fra le tante in cui versano ancora oggi moltissime donne originarie delle zone più remote dell’Asia che solo chi come l’autrice, originaria della Birmania, ma ormai naturalizzata cittadina americana (seppur residente in Inghilterra), può raccontare.
Infine, il miglior pregio che ho ricavato dal libro è quello che si riassume nel detto: la speranza è l’ultima a morire. Se, infatti, per tutta la trattazione affiora costantemente il desiderio di Na Gadi dare un senso alla sua vita, ricevendo però anche, tutte le volte, una delusione, nel finale, come un fiore nel deserto, si concretizza un’amicizia, nata per caso, per errore, ma conquistata e, apparentemente indissolubile, e soprattutto che, sembra tale da assegnare finalmente una direzione a una vita che, finora, non l’aveva mai avuta.
“La via per Wanting”, ovvero per il luogo simbolico, la città, Wanting, in cui la narrazione concede definitivamente il dono di una vita che abbia un senso alla protagonista, peraltro, è il titolo originale del romanzo (The road to Wanting). Chissà perché l’editore italiano lo ha poi cambiato in “il seme del papavero”? Mah!

Jamie Ford, “Il gusto proibito dello zenzero”.


Se il romanzo narra la storia d’amore travagliata, commovente a tratti deliziosa e certamente avvincente di due ragazzini appena adolescenti negli Stati Uniti d’America del 1942, il libro racchiude ben altro.
Tanto per cominciare, i due ragazzini, Henry e Keiko, pur essendo americani a tutti gli effetti, per essere nati in America, provengono da famiglie asiatiche di paesi diversi: la Cina, nel caso di Henry, e il Giappone, nel caso di Keiko, il che, nel luogo e nell’epoca in cui si svolgono i fatti, si traduce in un ostacolo insormontabile all’espressione libera dei loro sentimenti. Quel che viene fuori, anche presto, però, non è -come ci si può aspettare dapprincipio- la trita e ritrita solfa sugli emigrati provenienti da ceppi culturali molto ben radicati che pretendono di far proseguire nei loro discendenti, nati in terra straniera, le usanze e le tradizioni del popolo di appartenenza.
Il tema, infatti, parte da questo ma va ben oltre.
Nel 1942 è in atto la guerra. Il secondo conflitto mondiale, che ha visto un’escalation vertiginosa di odio degli Stati Uniti d’America, e degli americani, nei confronti del Giappone, e dei giapponesi, dopo l’attacco di Pearl Harbor. Non solo, cioè, dell’odio metaforico fra nazioni che si contendono il controllo strategico, economico e militare dell’Oceano Pacifico, ma dell’odio vero, materiale, fra la gente del popolo, vissuto per le strade delle grosse città statunitensi. Un odio che è dilagato grazie soprattutto all’ignoranza, la quale è sempre rimasta indifferente ai dati reali, per prestare ascolto maggiormente alle apparenze. Proprio per questo, la drammatica sorte che è spettata ai giapponesi in America ha minacciato costantemente persino Henry che, essendo origini cinesi, ha avuto la sfortuna di avere i tratti somatici simili a quelli di Keiko.
In questa chiave ben marcata, il libro si spinge fino a dar conto di un vero paradosso storico che è sempre stato sottaciuto: gli Stati Uniti d’America, che un vero popolo con la sua identità e la sua storia non lo hanno mai avuto, a metà del ventesimo secolo si sono spinti fino al punto da relegare in campi di concentramento tutti gli uomini di etnia nipponica, formalmente sol perché era in atto la guerra contro il Giappone. Ciò senza pensare che i civili residenti in America provenienti dal Giappone erano americani allo stesso modo di tutte le altre genti che erano provenute dal resto del mondo. A chi, infatti, in quegli anni è venuto mai in mente di discriminare allo stesso modo gli oriundi Italiani o tedeschi che risiedevano in quel paese? A nessuno. Eppure, proprio i paesi da cui questi ultimi provenivano formavano col Giappone il famoso Asse Roma-Berlino-Tokio. Il paradosso ben delineato nel libro, allora, in termini più appropriati si definisce come una vera e propria manifestazione di razzismo, di violenza psicologica, di violazione di tutte le regole morali e di tutte le norme giuridiche sul rispetto della persona umana, che hanno fondamento nell’ignoranza ed in cui, ancora una volta, ahinoi, nello sfondo c’è la grande America.
Il libro è bello e profondo. E’ da leggere certamente, anche se a scriverlo è stato un proprio un americano.