venerdì 28 ottobre 2011

Santiago Gamboa, “Morte di un biografo”.

Un libro singolare, certamente, l’ultimo di Gamboa. Originale, se non nel genere, quantomeno nella trattazione. Sembra che l’eccesso di fantasia dell’autore abbia trovato sfogo fra le sue pagine, anche se dopo l’ultima, quando il frastuono rimbomba ancora nelle orecchie come una eco vicinissima, si comprende bene che ha ancora tante e tante pagine da colmare.
Superficialmente si direbbe che la trama è costituita da alcune storie che s’intrecciano, ma non è così. In realtà, in una parte del libro vengono raccontate, nel senso più puro del termine, alcune storie da altrettanti narratori; storie che, però, rimangono compartimenti stagni, con l’unica eccezione che, per un gioco dell’autore, tutti i loro protagonisti, chi prima e chi dopo, si ritrovano a mangiare un sandwich di pollo ed una coca light.
Un romanziere, che non pratica più la sua arte a causa di una grave malattia che lo ha tenuto fermo per due anni, viene stranamente invitato ad un congresso di biografi. Lui non ha mai rappresentato la vita di nessuno, ma decide di andare lo stesso. Il luogo del convegno è un albergo di Gerusalemme che offre ai suoi ospiti una grande accoglienza, anche se da fuori si ode sempre più vicino il ruggito di una guerra fra civiltà che non finirà mai.
Lì si incontrano i personaggi più singolari che accettano di raccontare le proprie storie vere, o quelle da sé conosciute, alla platea degli intervenuti. Fra le storie ci sono quelle di una pornostar italiana, quelle di due incalliti giocatori di scacchi avulsi dalla società, di un meccanico colombiano che, dopo essere rimasto vittima della malavita organizzata, decide di vendicarsi contro i suoi carnefici. E, poi, infine, c’è la storia di un pastore evangelico, José Maturana, un uomo dalle sembianze di un culturista rozzo e pieno di tatuaggi che, poco dopo aver narrato la sua singolare odissea che lo ha condotto dalla strada alla cabina di regia di un nuovo ordine religioso, muore in albergo in circostanze singolari.
In effetti, tutto lascia pensare che Maturana si sia tolto la vita, ma il protagonista della storia, il romanziere non biografo fermo ormai da tempo, non ne è del tutto convinto e, con l’aiuto di una giornalista, anch’essa con la sua storia, tutta da far nascere, e di un impiegato dell’albergo, indaga su ciò che di sé Maturana non ha detto o ciò che ha artatamente falsato. Forse in lui, infatti, sta tornando lo stimolo per la scrittura e, chi lo sa, forse sta nascendo l’ispirazione per la sua prima biografia.
Non è un noir né tantomeno un thriller o un poliziesco, ma incarna in sé un po’ dell’uno e un po’ dell’altro genere. Non è nemmeno un libro sulla guerra in Palestina o, più in generale, sugli orrori e le miserie della prevaricazione del più forte sul più debole, come non lo è sullo spirito umano e sull’importanza e la prevalenza dei sentimenti sui beni materiali. Eppure, il libro suscita riflessioni anche su questi temi. Io l’ho trovato bellissimo da leggere, mai stancante, anzi appassionante e, a tratti persino divertente. Sono rimasto affascinato dalla capacità dell’autore di dar voce a più personaggi per far loro raccontare la propria storia, col proprio linguaggio e i propri ritmi, e poi anche dal suo spirito apparentemente distaccato nel rappresentare la crudeltà che può presentarsi ogni giorno dietro l’angolo. Tuttavia, per i miei gusti personali, mi sarebbe piaciuto trarre in conclusione una morale più marcata.

mercoledì 19 ottobre 2011

Karl Ove Knausgard, “La mia lotta - vol. 2”.

Knausgard è tornato a parlare di sé. Lo aveva già fatto, concentrandosi nel rapporto avuto con il padre e le possibili conseguenze che aveva avuto nella sua vita. Ora la sua attenzione si è spostata al rapporto in essere con l'intera famiglia, quella costituita dalla seconda moglie e i figli, e con gli amici.
Ma la grande attesa che aveva preceduto l’uscita del secondo volume della mia lotta non è stata ricompensata. Devo dirlo subito. A malincuore.
Forse anche per questo non mi esalterò, come spesso faccio in queste pagine, a parlare dell’ultimo libro letto, perché non posso compiacermi col suo autore per avere portato al termine un’opera esemplare o, comunque, degna del suo nome, ma neanche sollevare una vera e propria critica.
Mi spiego meglio. Quel che nel primo volume era apparso maggiormente apprezzabile era il modo in cui l’autore era riuscito a fare emergere, e pure in maniera dolce ed apprezzabilissima, la sua filosofia di vita, non la sua vita né il suo modo di pensare o di apparire, quanto il filo di fondo che collega ogni suo modo di essere. Nel secondo volume, invece, tutto ciò non solo viene offerto con minore delicatezza, sembrando in certi casi, anzi, di assistere al vanto di Knausgard di essere tanto modesto, ingenuo, in un certo senso anticonformista e persino a volte burbero e insopportabile, ma a tratti persino l’idea di fondo, quella di cercare sé stesso e di farsi trovare (ch’era quasi poetica e amabile) si perde in rigagnoli sempre più abbondanti di dettagli sui fatti contingenti.
Mi si dirà che tutto ciò non risponde al vero e che, anzi, il secondo volume accentua l’aspetto interiore. Io sono del parere, però, che chi si attesti su queste convinzioni non ha di certo valutato che, nel primo volume, l’interiorità dell’animo non si apprende dalle parole espresse, ma si scova fra le righe, si desume da un contesto a volte anche molto complesso lungo decine e decine di pagine, mentre qui, nel secondo, viene apertamente rivelato senza neanche troppi giri di parole. E che, anzi, qui, le parole, le tante parole, si risolvono in un interminabile sproloquio senza soluzione di continuità, che stanca il lettore in quasi seicento lunghissime e fittissime pagine che non vengono nemmeno intervallate dalla divisione in capitoli.
Certo, non mancano i momenti più significativi ed evocativi d’uno stato d’animo che fanno tornare ad amare Knausgard, ma nel complesso risultano un po’ pochi o si nascondono fin troppo bene in un “sentire comune” che chi non appartiene alle popolazioni dell’estremo Nord Europa può solo appena percepire ovvero ancora subiscono l’inevitabile limite connaturato alle opere ricomprese sotto il comune denominatore di sequel.
Nel complesso, giudicherei il libro e il suo autore “rivedibili”, se non altro perché, dopo un inizio brillante e la prospettiva di altri quattro volumi al completamento dell’opera non può certo darsi un giudizio affrettato.

venerdì 30 settembre 2011

Siba Shakib, “Il sussurro della montagna proibita”.

L’egemonia conquistata da alcuni stati nel corso del ventesimo secolo, lo sappiamo tutti, è il frutto principalmente dello sfruttamento delle colonie e dell’ingerenza approfittatrice in paesi terzi. La splendida storia narrata nel sussurro della montagna proibita descrive la presa di coscienza da parte del popolo iraniano dell’uso distorto, egoista e usurpatore che proprio quei paesi, quali l’Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti d’America, hanno perpetrato in suo danno.
In realtà, la storia si presenta come un appassionante romanzo d’avventura che narra la lunga intera vita del suo protagonista principale, un uomo di origini umili e senza una prospettiva migliore di fare il servo della gleba, Eskandar. Egli nasce in un villaggio così povero del sud dell’Iran che non ha nemmeno un nome. E’ il 1901. Ancora giovanissimo, Eskandar si rende conto che il suo villaggio non è com’è rappresentato nei racconti degli anziani, ossia florido e con un fiume che lo attraversa; anzi, proprio la penuria d’acqua rischia adesso di farlo scomparire. Gli animali muoiono, i bambini si ammalano, le piante non crescono e il re sembra disinteressarsi di tutti questi problemi. Dapprima, gli abitanti del villaggio riferiscono la colpa della carestia e della miseria a sé stessi, dato che pensano che sia una punizione di Dio. Poi, solo dopo che, violando i precetti dei religiosi, Eskandar scala la montagna proibita e scopre che sul suo altopiano i farangi, ossia gli stranieri, stanno scavando buche ed hanno acqua e cibo a volontà, tanto da darne ai propri cani, si scopre che il vecchio fiume è stato deviato e che le cause della loro carestia proviene proprio da lì. Chi ha dato il permesso ai farangi di scombussolare l’equilibrio naturale nel quale era ricompreso il villaggio di Eskandar è il re, il quale, si è solo illuso di potere riceverne benefici, mentre, di fatto, è il primo degli sfruttati. Sull’altopiano della montagna proibita, vicino Abadan, nel sud dell’Iran, infatti, gli Inglesi hanno trovato il più grande giacimento di petrolio fino ad allora conosciuto, fondando l’Anglo-Iranian Oil company. Compagnia che di inglese ha le macchine e le risorse economiche e di iraniano la sola forza lavoro sottopagata. Inizia qui la vera avventura di Eskandar, che diviene dapprima amico per necessità dei farangi, per poi discostarsene e finire per odiarli, man mano che, nel corso della sua vita assume la consapevolezza di ciò che fanno ai danni del suo paese. Quelli, infatti, pur di ottenere per sé l’oro nero, hanno plasmato le genti in modo da farsi amare o da metterle in lite, al fine di fungere da liberatori, da guaritori delle lotte intestine. In ciò, peraltro, godendo dei favori dell’Iran stesso, per combattere il “nemico comune” per eccellenza, la Russia, anch’essa interessata ai giacimenti di petrolio. Eskandar fugge, diventa ricco, entra nelle grazie dei potenti e finisce di nuovo povero, in un divenire continuo in cui, da giovanissimo, diventa giovane, maturo, e poi anziano e stanco. Nella sua vita fa il cantastorie, mille mestieri artigiani, il fotografo e l’impiegato negli uffici di governo e persino la spia, ma quel che accompagna tutta la sua crescita sono le storie che la gente vive giorno per giorno; le storie che spiegano come l’ignoranza del popolo ha reso l’Iran succube dei paesi evoluti ed economicamente forti; le storie di un popolo che pur umiliato, sfruttato, involgarito dalle influenze esterne, imbarbarito dalle guerre alimentate da paesi stranieri per un suo esclusivo tronaconto, ha avuto sempre una grande coscienza sociale, ha sempre saputo rialzarsi e credere di potere ottenere la libertà, un governo ed un’economia propri; le storie che lui custodisce gelosamente, dopo averle scritte e rappresentate con fotografie, “affinché la memoria non venga perduta”, e che lascia in eredità ai suoi discendenti, perché sappiano bene da dove vengono e da chi si devono guardare. Intorno agli anni ‘50, quando sembra che il sogno iraniano diventi realizzabile, però, si profila all’orizzonte la più grande minaccia abbia mai subito: il sopraggiungere sulla scena degli Stati Uniti d’America.
Un libro già scritto nella storia, ma abilmente rappresentato dall’autrice. Encomiabile il modo di entrare nel vivo dell’animo del popolo iraniano attraverso la vita privata del protagonista, le difficoltà personali incontrate nel sentiero della vita, le conversazioni con la moglie, la figlia, la nipote, gli amici. Sullo sfondo le notizie vere di cronaca in cui si avvicendano il violento Reza Khan, il disgustoso Churchill, l’apostolo Truman, il pianificatore Roosevelt, il fantoccio Reza Pahlavi, il rivoluzionario Khomeyni e il presidente senza scrupoli, Bush.

martedì 20 settembre 2011

David Nicholls, “Le domande di Brian”.

Dopo la pubblicazione in Italia di “Un giorno” (che io ho recensito in questo blog), quest’anno, la Beat Edizioni ha pensato di fare un regalo al pubblico italiano andando a rispolverare il romanzo di esordio di David Nicholls, dal titolo “Starter for ten”, uscito per la prima volta nel Regno Unito nel 2003. A quasi un decennio di distanza, dunque, possiamo avere il piacere di ripercorrere i primi passi di un autore che, se non è ancora considerato fra i grandi, certamente lo sarà presto.
Il libro, in Italia, è stato intitolato “Le domande di Brian” ed è un regalo, davvero, assai gradito. Brian è un giovane studente al suo primo anno di università. Orfano di padre e figlio unico di una madre molto apprensiva, ha grandi aspettative dalla sua esperienza nel nuovo ciclo di studi; aspettative che non riguardano solo il raggiungimento della laurea ed una conoscenza più elevata, ma che interessano specialmente la sua sfera privata, il modo di stare al mondo e di confrontarsi con gli altri. E’ il 1985 in una Inghilterra in cui, oramai, messa alle spalle persino la guerra nelle Isole Malvine (per i filobritannici, nelle Falkland), la preferenza per l’uno o per l’atro partito politico comincia ad apparire più una presa di posizione fine a sé stessa che non l’adesione ad un vero ideale nel quale riconoscersi e col quale schierarsi proficuamente. I giovani universitari, però, sentono molto il senso dell’appartenenza e si identificano con i conservatori o coi liberali, confrontandosi in una dialettica fin troppo spesso piena di ipocrisie, che li contrappone. Essere moderati, o ancor meglio, com’è nel caso di Brian, degli indecisi (o degli imbranati) può significare trovarsi nel mezzo, ossia fuori luogo e incapaci di essere ascoltati. Lo stesso avviene per chi, come ancora una volta Brian, nel rapporto con l’altro sesso, ha raggiunto la maturità senza avere alle spalle un sufficiente bagaglio di esperienze. Gli altri sembrano tutti consci sul da farsi, aderendo ad uno o ad altro modo di essere, mentre chi è rimasto indietro non può che fare affidamento sulle sue sole forze per riemergere e riportarsi alla pari con gli altri. Nello sforzo di comprendere il mondo che lo circonda, di non volere deludere chi gli sta a cuore né fare salire nessuno in cattedra, Brian completa il suo processo di maturazione, verificando però sul campo che il cammino verso una nuova fase della vita, non solo è difficile, molto più difficile di quanto non abbia immaginato prima, ma rischia anche di rendere vano quel tanto o quel poco di buono che ha creato fin lì.
Chi ha già letto “Un giorno” ritroverà lo stile inconfondibile del suo autore, senza peraltro doversi accontentare del linguaggio più farraginoso o meno eloquente tipico di uno scrittore ancora incapace di sfruttare al meglio le sue doti. L’opera anzi, si caratterizza per la completezza e l’accuratezza dei particolari ed è dotata, se vogliamo, anche di una raffinatezza che è generalmente tipica di chi conosce bene la sua arte e la sa trattare con disinvoltura.
Inoltre, e soprattutto, ritroverà la capacità di Nicholls di saper far crescere i suoi personaggi, descrivendo il divenire dei caratteri che sono loro propri. Del resto, questo è il romanzo di un’evoluzione, di una crescita interiore, di un confronto con la realtà nel quale un passo avanti in una direzione può dire farne due indietro in un’altra e viceversa. Direi che è la perfetta opera anticipatoria di “Un giorno”, la bozza (perfettamente riuscita) di un’opera ancor più grande e di più difficile composizione.
Quale opera introspettiva, “Le domande di Brian” non poteva che essere narrata in prima persona dal suo protagonista, al quale l’autore, che per lui ha strategicamente pensato, con effetto, al tempo presente, fa recitare la parte con numerosi discorsi diretti, frammezzati da manifestazioni interiori del pensiero, il più delle volte dubbi, che però non si succedono mai in maniera convulsa. Gli altri personaggi entrano nella scena o perché si esprimono anche loro in maniera diretta o perché Brian li ritrova dinanzi a sé e ne interpreta gli atteggiamenti.
Ironico, a tratti persino comico, profondo più di quanto non s’immagini a prima vista e stramaledettamente vivo, è un libro che consiglio a tutti, soprattutto perché, voltata l’ultima pagina, chiunque non può trovarsi che a riflettere su quanto di Brian c’è in sé.

giovedì 15 settembre 2011

Vanessa Diffenbaugh, “Il linguaggio segreto dei fiori”.

In testa alle classifiche dei libri più venduti in questo periodo c’è il romanzo d’esordio di una tal Vanessa Diffenbaugh, dal titolo “il linguaggio segreto dei fiori”.
Forse neanche la scrittrice se lo aspettava, ma prima ancora dell’uscita, avvenuta in contemporanea mondiale lo scorso 5 maggio, si era intuito che il libro avrebbe avuto un enorme successo, per la felicità soprattutto delle case editrici che sono riuscite ad aggiudicarsene i diritti. Purtroppo (o per fortuna?) anche il mondo della letteratura è fatto così: quando un prodotto (che nel nostro gergo diremmo opera letteraria) mostra di avere le credenziali per piacere al grande pubblico (o per meglio dire, al lettore medio che non vuole faticare ad entrare nella mente dell’autore, per carpirne il pensiero) e, soprattutto, possiede quel tanto che basta per dare l’illusione di leggere una grande opera, lo spirito imprenditoriale dei produttori di carta stampata si esalta fino al punto da creare esso stesso arte. L’arte più ammaliante e persuasiva che esista: la pubblicità. Il linguaggio segreto dei fiori è un caso letterario. La sua uscita (ripeto, in contemporanea mondiale) ha costituito un evento. E tutto ciò grazie a chi per primo ha avuto l’intuito di poter suggerire (alla sua maniera) di leggere un libro di sicuro piacere ad un numero sterminato di persone. Io sono quel che ho donato, diceva il poeta soldato. Ma loro non donano niente a nessuno. Loro vendono. E quindi sono quel che hanno venduto. Dunque, adesso, sono ricchi e festanti.
Chissà cosa pensava l’autrice mentre si dedicava alla scrittura del linguaggio segreto dei fiori? Io la immagino a rubacchiare spunti un po’ di qua e un po’ di là, ad attingere dalle esperienze di vita vissuta e a mescolare il tutto con pazienza e molta fantasia. Il risultato, del resto, è un mix perfetto di psicologia spiccia e sociologia mistificata destinato inesorabilmente, dopo un ampio peregrinare, verso un lieto fine all’americana.
Mi sento, è vero, un po’ come un pesce caduto nella rete, pur dopo averla vista in lontananza ed aver tentato di evitarla. Ma visto che ci sono, e che nella lettura ho riversato anche una buona dose di interesse, non posso adesso che dirvi gli aspetti che me l’hanno fatta piacere.
Intanto, se dovessi conferire un premio a quest’opera-prima glielo darei per l’originalità. Accanto al caso umano che è Victoria, la protagonista, incapace di relazionarsi col prossimo e che a diciotto anni deve lasciare la casa famiglia in cui ha da sempre vissuto; eccetto il vaghissimo monito sociale rivolto contro un sistema di gestione dei minori orfani o abbandonati assolutamente indecente; viste e riviste le storie d’amore e di amicizia che cominciano col piede sbagliato e che col tempo si aggiustano per poi solidificarsi; infatti, in questo libro, spicca l’attenzione verso il significato che, in epoca vittoriana, era stato attribuito alle piante e ai fiori in particolare, ma che poi col tempo è andato dimenticato. E’ ciò ad essere originale. Tutti i protagonisti della storia sono dei veri amanti dei fiori e, si può dire, la loro vita ruota attorno ad essi e si consuma e si trasforma grazie ai fiori. Grazie soprattutto al fatto che hanno capito l’importanza del messaggio che ogni bocciolo, ogni ramo d’albero o ogni corteccia reca con sé.
Victoria, ad esempio, non è incapace di amare, ma sa farlo solo alla sua maniera e, dato che non si è mai raffrontata con la società, le manca l’esperienza giusta per far giungere agli altri il suo sentimento. Come dire, in sostanza, che le manca lo strumento indispensabile del linguaggio, della comunicazione, che troverà, però, col tempo, proprio attraverso i fiori.
Poi, devo anche aggiungere che la composizione appare esemplare e che anche lo stile si fa apprezzare, soprattutto perché la trama è narrata in prima persona da Victoria, che nel suo monologo interiore rivela la vera difficoltà ed i pericoli che corre una persona come lei. Certo, in alcune parti, specialmente verso la fine, si ha la sensazione che l’autrice abbia temuto di dare alle stampe un libro troppo scarno e che si sia affannata ad allungare un po’ il brodo. Ma, nel complesso, nonostante queste macchinazioni, chiudendosi il sipario ci si trova comunque con un sorriso convinto, in uno stato di piacevole, ma sia pur moderato, appagamento.

mercoledì 31 agosto 2011

Sara Gruen, “Acqua agli elefanti".

 Acqua agli elefanti è la rocambolesca avventura di Jacob Jankowsky, un giovane veterinario divenuto orfano al completamento degli studi, che vive la sua prima esperienza lavorativa all’interno di un circo errante, nell’America degli anni trenta, afflitta dalla grande depressione.
L’autrice afferma, nella sua nota a corredo dell’opera, di avere compiuto degli studi approfonditi sugli artisti, gli animali, gli spettacoli e più in generale sui circhi di quell’epoca e di essersi ispirata alle vicende che li hanno riguardati e che sono rimaste celebri per la loro eccezionalità, anche quando si sono risolte, a volte, in fatti drammatici. E, in effetti, non soltanto l’ambientazione ma perfino gli atteggiamenti dei protagonisti o le modalità con cui la storia si evolve, lasciano bene immaginare il clima di apparente giovialità e tensione verso la perfezione che doveva invadere i villaggi al passaggio del circo, al cospetto dei grandi dissapori e delle difficoltà economiche che si vivevano invece al suo interno.
In questo clima, Jacob vive la sua duplice personalità di uomo dallo spirito altruista e di giovane inesperto di fronte alle vicissitudini della vita, all’interno peraltro di un mondo che non è il suo, nel quale è finito per caso e dal quale non vuole più separarsi, nonostante le sue contraddizioni e le sue inspiegabili violenze. Mentre, da un lato, infatti, il circo gli offre un’opportunità di lavoro della quale potrebbe fare a meno, dall’altra, perderebbe gli amici, a cui si è stretto, gli animali, a cui si è andato affezionando e, soprattutto, Marlena, la star dello spettacolo, di cui si è decisamente innamorato. Peccato solo che Marlena è già sposata con August, che per di più è il direttore e domatore del circo, oltre che uomo tanto capace di galanterie quanto di essere spietato e senza scrupoli.
Una storia avventurosa, quanto intrigante, piacevole da leggere che passa dall’humour alla tensione in un saliscendi più che equilibrato. Bello, anche se privo di una vera e propria morale che vada oltre lo spirito americano dell’amore che trionfa sopra il male e della quiete dopo la tempesta o, se preferite, di un tanto atteso, quanto scontato, lieto fine.
Un libro così, che oltretutto già nello stile, si avvicina molto ad una sceneggiatura cinematografica, se non fosse solo che è narrato in prima persona dal protagonista principale, non poteva che finire, com’è stato, trasposto in un film, che ha preso il titolo di “come l’acqua per gli elefanti” (con Robert Pattinson, Reese Witherspoon e Cristoph Waltz. Il film io non l’ho (ancora) visto, anche se lo immagino uno di quelli con grandi coreografie, innumerevoli quantità di personaggi che vanno e che vengono in un tripudio di colori, suoni e musiche che fanno lievitare lo spirito.
Altro da dire non c’è, per un libro che vuole solo intrattenere e niente più, se non per dire che riesce perfettamente nel suo intento.

martedì 30 agosto 2011

Jane Borodale, “La ragazza del libro dei fuochi”.

In una giornata d’estate in cui il cui caldo dà alla testa, mi trovo a commentare un romanzo ambientato nella Londra del XVIII secolo, stretta nella morsa del gelo. Si tratta della ragazza del libro dei fuochi, di Jane Borodale, che è valso all’autrice il podio (ma il gradino più alto) all’Orange Prize 2010, nella sezione destinata ai romanzi d’esordio. Agnes Trussell, la protagonista, è una ragazza ancora molto giovane che ha dovuto abbandonare la sua casa del Sussex per trovare fortuna a Londra. La sua partenza ha avuto più di una ragione. In primo luogo, quella di sfuggire alla povertà e privare, così, di una bocca in più da sfamare la sua già numerosa famiglia; inoltre, quella di far perdere le sue tracce, per evitare di finire nelle grinfie della legge, nel caso in cui fosse scoperto che aveva sottratto alcune monete d’oro alla vicina di casa, dopo averla trovata morta; ma soprattutto, infine, di nascondere la gravidanza che le è stata provocata da un ragazzo pastore, che l’aveva posseduta quasi contro la sua volontà, per non venire così costretta a sposarlo e passare la vita con lui.
Nella grande città, non senza fingere sulle sue origini e sulle sue condizioni di provenienza, Agnes riesce a trovare presto una sistemazione ragguardevole, come apprendista, presso John Blacklock, un fabbricatore di giochi d’artificio. Blacklock, com’è chiamato, col suo cognome, è un personaggio singolare e misterioso che, pur nei suoi silenzi e segreti ben celati, le fa da maestro, da guida spirituale e forse anche da padre. Ciò, naturalmente, oltre a garantirle un vitto, l’alloggio e uno stipendio. In tutto il periodo che vive al fianco di Blacklock e delle sue tre domestiche, Agnes tiene nascosta la sua gravidanza, sebbene, col tempo, le risulti sempre più difficile. Per questo motivo, cerca di pianificare un modo per evadere, sia pur a malincuore, dal mondo che l’ha accolta, fallendo però ad ogni suo tentativo. D’altra parte, al di là delle circostanze sfortunate che non fanno andare in porto i suoi piani, quel che finisce maggiormente per trattenerla è il desiderio crescente di conoscere i segreti dei giochi pirotecnici creati, inventati, studiati e sperimentati dal suo mentore. L’obiettivo di quest’ultimo, e poi anche il suo, è infatti quello di dare colore ai fuochi sparati in aria, e con esso conferire a chi li osserva le suggestioni che gli stessi sanno evocare.
Dal 1996, l’Orange prize celebra - come si legge nel sito ufficiale - l’eccellenza, l’originalità e l’accessibilità ai componimenti letterari delle donne di tutto il mondo (che siano però pubblicati almeno nel Regno Unito) e il libro esordio della Borodale è senz’altro originale e sicuramente ottimo da un punto di vista linguistico. Anzi, proprio la disinvoltura dimostrata nel linguaggio adoperato, unito ad uno stile narrativo piuttosto elegante (per un autore esordiente), costituiscono il motore del romanzo, offrendo così al lettore interesse verso una storia che, per contrapposto, manca di veri colpi di scena o di un sufficiente susseguirsi di eventi che gli diano movimento, non essendo peraltro nemmeno ricco di introspezioni o ampie descrizioni ambientali. Quel che difetta, invece, è il carattere dell’eccellenza ricercato dal premio sfiorato, a parer mio perché manca di una vera e propria morale, concentrandosi piuttosto sulla fluidità di una trama che restituisce, infine, al lettore tutto ciò che, sin dalle prime pagine, si immagina di vedere realizzato. Come dire, in sostanza, che è una bella lunga storia, che fa compagnia e che intrattiene piacevolmente il lettore, ma senza la pretesa di volere essere ricordato.
In sintesi, è un romanzo che ha fascino, che appare scorrevole ed è piacevolissimo; ma anche un romanzo che sembra la perfetta esecuzione del compito in classe della ragazza di primo banco, quella che è sempre stata attenta alle lezioni di componimento, ma che all’atto pratico non è stata così rilassata da tirar fuori tutto ciò che aveva da esprimere. Il voto, più di stima che di merito, è un sette più, perché l’impegno è stato ben dimostrato, ma soprattutto perché rivela tutta la stoffa che ha ancora da sfoderare la sua giovane autrice.