In una giornata d’estate in cui il cui caldo dà alla testa, mi trovo a commentare un romanzo ambientato nella Londra del XVIII secolo, stretta nella morsa del gelo. Si tratta della ragazza del libro dei fuochi, di Jane Borodale, che è valso all’autrice il podio (ma il gradino più alto) all’Orange Prize 2010, nella sezione destinata ai romanzi d’esordio. Agnes Trussell, la protagonista, è una ragazza ancora molto giovane che ha dovuto abbandonare la sua casa del Sussex per trovare fortuna a Londra. La sua partenza ha avuto più di una ragione. In primo luogo, quella di sfuggire alla povertà e privare, così, di una bocca in più da sfamare la sua già numerosa famiglia; inoltre, quella di far perdere le sue tracce, per evitare di finire nelle grinfie della legge, nel caso in cui fosse scoperto che aveva sottratto alcune monete d’oro alla vicina di casa, dopo averla trovata morta; ma soprattutto, infine, di nascondere la gravidanza che le è stata provocata da un ragazzo pastore, che l’aveva posseduta quasi contro la sua volontà, per non venire così costretta a sposarlo e passare la vita con lui.
Nella grande città, non senza fingere sulle sue origini e sulle sue condizioni di provenienza, Agnes riesce a trovare presto una sistemazione ragguardevole, come apprendista, presso John Blacklock, un fabbricatore di giochi d’artificio. Blacklock, com’è chiamato, col suo cognome, è un personaggio singolare e misterioso che, pur nei suoi silenzi e segreti ben celati, le fa da maestro, da guida spirituale e forse anche da padre. Ciò, naturalmente, oltre a garantirle un vitto, l’alloggio e uno stipendio. In tutto il periodo che vive al fianco di Blacklock e delle sue tre domestiche, Agnes tiene nascosta la sua gravidanza, sebbene, col tempo, le risulti sempre più difficile. Per questo motivo, cerca di pianificare un modo per evadere, sia pur a malincuore, dal mondo che l’ha accolta, fallendo però ad ogni suo tentativo. D’altra parte, al di là delle circostanze sfortunate che non fanno andare in porto i suoi piani, quel che finisce maggiormente per trattenerla è il desiderio crescente di conoscere i segreti dei giochi pirotecnici creati, inventati, studiati e sperimentati dal suo mentore. L’obiettivo di quest’ultimo, e poi anche il suo, è infatti quello di dare colore ai fuochi sparati in aria, e con esso conferire a chi li osserva le suggestioni che gli stessi sanno evocare.
Dal 1996, l’Orange prize celebra - come si legge nel sito ufficiale - l’eccellenza, l’originalità e l’accessibilità ai componimenti letterari delle donne di tutto il mondo (che siano però pubblicati almeno nel Regno Unito) e il libro esordio della Borodale è senz’altro originale e sicuramente ottimo da un punto di vista linguistico. Anzi, proprio la disinvoltura dimostrata nel linguaggio adoperato, unito ad uno stile narrativo piuttosto elegante (per un autore esordiente), costituiscono il motore del romanzo, offrendo così al lettore interesse verso una storia che, per contrapposto, manca di veri colpi di scena o di un sufficiente susseguirsi di eventi che gli diano movimento, non essendo peraltro nemmeno ricco di introspezioni o ampie descrizioni ambientali. Quel che difetta, invece, è il carattere dell’eccellenza ricercato dal premio sfiorato, a parer mio perché manca di una vera e propria morale, concentrandosi piuttosto sulla fluidità di una trama che restituisce, infine, al lettore tutto ciò che, sin dalle prime pagine, si immagina di vedere realizzato. Come dire, in sostanza, che è una bella lunga storia, che fa compagnia e che intrattiene piacevolmente il lettore, ma senza la pretesa di volere essere ricordato.
In sintesi, è un romanzo che ha fascino, che appare scorrevole ed è piacevolissimo; ma anche un romanzo che sembra la perfetta esecuzione del compito in classe della ragazza di primo banco, quella che è sempre stata attenta alle lezioni di componimento, ma che all’atto pratico non è stata così rilassata da tirar fuori tutto ciò che aveva da esprimere. Il voto, più di stima che di merito, è un sette più, perché l’impegno è stato ben dimostrato, ma soprattutto perché rivela tutta la stoffa che ha ancora da sfoderare la sua giovane autrice.
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