mercoledì 26 settembre 2012

Jorge Molist, “Promettimi che sarai libero”.


E’ un romanzo storico, questo non lo si può negare, anche se i grandi eventi che hanno rivoluzionato il mediterraneo sul finire del XIV restano in un secondo piano, toccando quasi incidentalmente le storie dei protagonisti. Molti sono i riferimenti agli usi, agli attrezzi ai manufatti dell’epoca, alle leggi vigenti ed alle abitudini della gente, ma anche in tal caso tutti questi dettagli assumono il valore di nozioni e poco entrano a far parte degli intrecci narrativi.
Inevitabile è il raffronto con la cattedrale del mare, di Ildefonso Falcones, non soltanto perché la storia appare del tutto analoga a quella del bastaixos Arnau e si svolge nella stessa città, Barcellona, nella stessa epoca storica, XIV secolo, ma anche perché lo stesso editore, forse allo scopo di attirare l’attenzione del pubblico sul libro, lo ha lanciato come l’opera che segue naturalmente, e forse vorrebbe completare, la Cattedrale del mare, appunto.
Dal raffronto con quest’ultima opera, però, ne esce assolutamente con le ossa rotte, sembrandone una sintesi poco fantasiosa, poco pregna di particolari, poco emozionante e sensibilmente meno appetibile.
Certo è che, chi vuol passare un po’ di tempo, distraendosi dalla routine quotidiana, può trovare un questo romanzo un passatempo avvincente.
Niente più di questo. Da parte mia, almeno.

Mauro Corona, “La casa dei sette ponti”.


Se il treno vi sta riportando a casa dopo le vacanze o state aspettando un amico e siete pronti già da un pezzo e non sapete come ammazzare il tempo, ecco il libro che fa al caso vostro. Riuscirete a leggerlo tutto d’un fiato forse in poco più di un’ora, ma sarà già un tempo sufficientemente lungo per farvi estraniare dalla realtà che vi circonda.
Come sempre in tutto ciò che è scritto da Mauro Corona, quel che prevale non è la sottigliezza del pensiero, che faccia perciò emergere il raffinato senso di intendere le cose da parte del suo autore, né l’eleganza dello stile o l’accuratezza degli intrecci della fabula, nel quale è bello immergersi a lungo prima di conoscere il finale. No, non prevale niente di tutto questo, quanto semmai la semplicità, a volte persino disarmante, con cui la narrazione viene portata avanti.
Un industriale della seta toscano, capacissimo nel suo mestiere, tanto da essere sopravvissuto all’ingresso dei cinesi nel mercato, quando quasi tutti i suoi conterranei hanno fallito, si ammala di curiosità. La curiosità di sapere cosa c’è e chi vive in una casetta isolata e semi-diroccata che incontra quando percorre le valli interne dell’Appennino tosco-emiliano che conducono ai luoghi della sua infanzia.
La curiosità sarà così forte da trascinarlo in una specie di sogno ad occhi aperti, in cui ripercorre le sue origini, rivede la sua nascita e la via che lo ha condotto a diventare quel che è, ma soprattutto rimane sorpreso nel vedere quante cose ha lasciato alle sue spalle ingiustamente. Nel suo viaggio onirico, rivive la sintesi della sua vita e ritrova la forza per tirare fuori dal proprio cuore il rammarico, la nostalgia e soprattutto il coraggio di ammettere di avere intrapreso, a causa di un demone, di cui il libro tace, ma che potremmo chiamare qui, a nostro uso e consumo, per semplicità, successo, denaro o potere, una via che non gli competeva. In tal modo, per sua scelta, infine, agli occhi del mondo, fallirà anch’egli come gli altri industriali della seta, cedendo il passo all’industria cinese, ma intimamente otterrà una ricompensa morale che lo appagherà più di quanto il denaro, il successo e il potere non erano riusciti a dargli finora.
Un racconto breve che ho già detto essere tanto semplice da risultare disarmante, ma, aggiungo ora, anche tanto fermo da non lasciare spazio a diverse soluzioni. Forse poco originale, ma sicuramente non banale come alcuni hanno commentato qua e là sul web e dai quali mi dissocio apertamente.

Umberto Eco, “Il nome della rosa”.


Era da un bel po’ che non leggevo un libro, per cui, quest’estate, avendo finalmente ritrovato il tempo per farlo, ho voluto riprendere alla grande, andando a sceglierne uno di quelli, che non sono neanche pochi, che prima o poi nella vita tutti dovrebbero leggere. Così la mia scelta è ricaduta sul Nome della rosa, di Umberto Eco.
Premetto di essere stato uno dei tanti ad avere visto e rivisto il film, amandolo ogni volta di più, ma devo anche dire che la lettura del libro - come quasi sempre avviene quando si fa il raffronto tra i due generi di opera - è stata una cosa ben diversa, più suggestiva, ma anche più densa di riferimenti storici, di riflessioni dei protagonisti e di spunti di riflessione per i lettori. E’ vero che, leggendo, sentivo echeggiare nella mia testa la voce del (doppiatore del) grande Joan Connery (che, per chi non lo sapesse, ha indossato, forse nella sua interpretazione in assoluto più brillante, le vesti di Guglielmo da Baskerville, protagonista principale del romanzo) e rivedevo in ogni personaggio i volti che mi erano già noti dalla pellicola, ancorché non rispondessero esattamente alla descrizione che se ne trova sul libro, ma è anche vero che il romanzo, oltre ad essere un vero e proprio giallo, ben costruito ed avvincente, è anche e soprattutto, una fonte ricchissima di informazioni e al tempo stesso di interrogativi e moniti per tutti quelli che han sempre creduto (o preferito credere, per comodità) che la storia sia quella che si legge nei libri di scuola e che nulla di ciò che là si apprende possa essere soggetto a critiche o a diverse interpretazioni.
Il racconto si svolge interamente all’interno di un convento benedettino del Nord Italia, quasi al confine con la Francia, sede di una delle più ricche biblioteche dell’antichità, ove frate Guglielmo da Baskerville viene incaricato di scoprire cosa si cela dietro le morti di alcuni monaci, avvenute misteriosamente nel giro di pochi giorni.
L’epoca è il XIII secolo, periodo contrassegnato da accesi contrasti all’interno della Chiesa cattolica, dovuti soprattutto all’intensificarsi di quell’ideologia (che ha fra i maggiori esponenti San Francesco) secondo cui la Chiesa di Cristo debba pensare a curare la salvezza delle anime, disinteressandosi dei beni materiali e senza doversi necessariamente ricoprire di ori ed ingenti ricchezze. Ideologia che viene avversata da un potere trasversale che, se formalmente fa capo unicamente al Papa, di fatto, conosce una congerie infinita di interessi e poteri forti che, diversamente, se la si lasciasse prendere corpo, finirebbe per sgretolarsi.
Nel contrasto, nei dibattiti e nelle lunghe dispute che ne nascono, però, minaccia di insediarsi l’anticristo, il germe che spiana la strada al diavolo, consentendogli di venire a governare le cose del mondo. E’ pur vero che c’è chi intuisce una tale evenienza, ma anziché gettare acqua sul fuoco, paventandone i rischi, ne approfitta per dar man forte alle sue convinzioni. O necessità. Nasce così, o meglio, si sviluppa a macchia d’olio nello stesso periodo la santa inquisizione. La giustizia divina, affidata agli uomini del Papa, per individuare in tutti coloro che si rivelino contrari ai dogmi divini (o meglio, della Chiesa) tracce di eresia e li condanni al rogo (il vero miracolo è che San Francesco non sia mai stato trattato da eretico!).
Il tema centrale del romanzo è, allora, proprio l’anticristo. Centrale, ma per niente unico o preminente nel romanzo. Il lettore non può non finire con l’indugiare a lungo, anch’egli, come già fanno i protagonisti della storia, sulle diverse forme in cui l’anticristo si manifesta e sui luoghi in cui possa appalesarsi, giacché comprende con  Guglielmo da Baskerville che per sbrogliare la matassa di dubbi e misteri sulla causa e l’autore degli omicidi che avvengono all’interno del convento, ci si deve prima interrogare sulla sua reale portata e se per caso nulla si è fatto nella propria vita per agevolarne l’avvento.
Un romanzo che non spetta a me dire unico, per la sua capacità di appassionare il lettore pur conducendolo in argomenti di non sempre facile comprensione o che siano semplici e scontati, ma che voglio ugualmente celebrare per l’alto prestigio che ha dato alla letteratura italiana. Anzi, anche in forza di quest’ultima annotazione direi che sarebbe certamente degno di sostituire “i promessi sposi” sui banchi di scuola, senza mai fare rimpiangere il vecchio e caro Manzoni.

venerdì 3 febbraio 2012

Melania Gaia Mazzucco, “Vita”.

Vita. Ma forse si dovrebbe dire, Vita e Diamante. Perché il libro racconta le vicende che accompagnano, soprattutto nella loro prima giovinezza, due ragazzini, che si chiamano, appunto, Vita e Diamante, nati a Tufo di Minturno, un paese che, per quanto sconosciuto, nel romanzo diviene quasi leggendario.
Tufo, non è, come pensavo inizialmente, il frutto della fantasia dell’autrice, ma esiste realmente, anche se è un punto infinitamente piccolo, incastonato fra i Monti Aurunci, Roccamonfina e il Golfo di Gaeta. La maggior parte del romanzo, però, quasi per uno scherzo del destino, si svolge altrove, in un paese infinitamente grande e infinitamente lontano, dove i due, insieme a decine di compaesani e migliaia di altri conterranei vanno a cercare fortuna.
E’ il 1903 quando tutto ha inizio e la terra che li ospita, pur essendo inospitale, è l’America. Vita e Diamante dimenticano presto chi sono e da dove provengono, perché quando sbarcano sono poco più che bambini. Quel che gli rimane non è altro che un ricordo sbiadito e mitizzato delle loro origini, che si alimenta con le notizie passate di bocca in bocca, provenienti dall’altra parte dell’Oceano e che, il più delle volte, vengono filtrate dalle voci dei giornali, che non fanno altro che glorificare l’America a discapito del vecchio continente.
Crescendo, Vita e Diamante si innamorano, ma il destino li tiene divisi. Il destino, però. Solo quello. Perché il loro amore è talmente grande da superare ogni cosa, perfino i decenni che li tengono lontani. Nel frattempo, emerge il loro istinto di sopravvivenza, mentre il mondo intero è impegnato a inventarsi nuove forme di economia (da quella domestica a quella nazionale), grazie anche alle nuove tecnologie, e a ricostruirsi, purtroppo, a causa delle guerre.
Con “Vita”, che si è giustamente meritato il premio Strega nel 2003, l’autrice ha dato la luce ad un’opera di certo non originale, ma di cui non ci si finisce mai di stancare. Una vera e propria enciclopedia della memoria degli italiani finiti a cercare fortuna in America all’inizio del ventesimo secolo. Un’opera che colpisce per la quantità di particolari, anche più piccoli e apparentemente insignificanti, oltreché di notizie vere, il più delle volte drammatiche, che hanno conosciuto gli italiani d’America e quelli che vi hanno fatto ritorno, prima di divenire quel che sono oggi.
Nella memoria delle poche persone che occupano la scena, rivive la memoria di un intero popolo, senza il filtro della coscienza dovuta agli eventi successivi della storia. In ciò sta la grandezza e il fascino di questo libro, che non giudica e non si schiera, ma racconta come eravamo, senza nemmeno lasciarsi illanguidire da una probabile, tangibile e pur inafferrabile chance che la storia ci ha voluto offrire.

martedì 20 dicembre 2011

Diego De Silva, “Sono contrario alle emozioni”.

Chi ha già letto “non avevo capito niente” e “mia suocera beve”, di Diego De Silva, avrà piacere di ritrovarsi a tu per tu con l’avvocato Vincenzo Malinconico, a sentirsi il destinatario dei suoi racconti, delle sue storie e dei suoi aneddoti, condotti sempre con fare critico verso tutto e verso tutti, in modo sfacciato e a volte sboccato, specie quando nel mirino ci sono le ipocrisie, i mezzucci ed i luoghi comuni. Questi ultimi caratteri della società, infatti, provando a sintetizzare il pensiero di Vincè (come anche io ormai mi prendo la licenza di chiamare Vincenzo Malinconico), finiscono per spiazzarti, se il tuo modo di fare segue più l’istinto che non una ragione forgiata al tavolo delle convenzioni.
Ma in “sono contrario alle emozioni” l’autore supera sé stesso: l’atteggiamento sfrontato e distaccato del protagonista cede il passo, infatti, ad un male oscuro, apparentemente ingestibile, che rischia di sopraffarlo, perché - le strade del Signore sembrano essere infinite - persino lui, che fin’ora aveva mostrato di tenere alla sua integra essenza sopra ad ogni altra cosa, sembra scivolare nel vortice delle sue stesse critiche e a non saperne più riemergere. E per ciò non bastare ancora, per cercare di venire fuori dalla situazione di stallo in cui si ritrova, compie il gesto che più di tutti da lui non ci si sarebbe immaginato: si affida ad uno psicoanalista.
Naturalmente, conoscendo il tipo, da principio, l’approccio con l’altro ha tutta la parvenza di una disputa polemica, di una battaglia in cui, senza giudicare quello che fa il suo mestiere, il caro Vincè si sente costantemente sfidato e para i colpi e di rimando gli lancia continue provocazioni. Ma qualcosa non sembra andare per il verso giusto: o il dottore ne sa una più del diavolo o forse c’è qualcosa veramente in Vincenzo che non va come dovrebbe andare.
L’intero libro, che ha pochi tratti del romanzo, mancando prima di tutto dell’aspetto narrativo, è il dialogo, anzi sarebbe più corretto dire, il monologo del protagonista che si rivolge direttamente al lettore per parlare di sé stesso. Del resto, il lettore, proprio come in una seduta psicoanalitica, non potrà che limitarsi ad ascoltare i fatti che hanno dato vita e godimento al paziente che ha appena posto in dubbio sé stesso, salvo esprimere il suo verdetto alla fine, dopo che ha voltato l’ultima pagina. Nel mio caso, se proprio lo volete sapere, il soggetto è ben sano, ma farebbe bene a non preoccuparsi troppo delle conseguenze dei suoi gesti.
Un’ennesima brillante, prova di coraggio per De Silva che affida all’avvocato Malinconico il ruolo, certamente non facile, di dissacratore. Entusiasmante per lo stile, ricorrente nei tre libri che sono dedicati all’avvocato napoletano, in cui persino un pensiero che ci può occupare la mente per un tempo non superiore al centesimo di secondo viene analizzato al rallentatore, scandendolo in ogni suo passaggio, sul quale viene poi calato il microscopio della mente di un personaggio geniale (provare per credere).
L’unica pecca, perché una almeno gliela devo trovare, è che il libro sembra destinato unicamente a chi conosce già le traversie di Vincenzo Malinconico. Anche se sono convinto che a ciò si possa facilmente trovare rimedio

mercoledì 7 dicembre 2011

Goce Smilevski, “La sorella di Freud”.


La letteratura internazionale ha conosciuto un nuovo grande autore: Goce Smilevski. C’è addirittura chi (come Joshua Cohen) lo ha già definito “erede di Gunter Grass e José Saramago”. Ma a parte la lungimiranza del commento, quel che rimane certo è che il suo primo romanzo, “la sorella di Freud”, oltre ad essere stato già un successo in mezza Europa, ha tutte le credenziali per essere annoverato come una vera grande opera.
La narrazione ha inizio con la fine della vita di Adolfine, una delle quattro sorelle di Freud, l’unica che non ebbe figli e che non si sposò. La morte di Adolfine è annunciata, dato che si trova reclusa in un campo di concentramento e ha da poco varcato la soglia delle ormai tristemente famose “docce” con cui il regime nazista ha inteso ripulire il mondo dagli ebrei. Da quel momento, prende piede la rievocazione della sua intera vita.
Ma la vita di Adolfine, da lei narrata in prima persona, non è altro che l’imbastitura dell’intero romanzo. E nemmeno alcuni eventi storici e drammatici, come la grande guerra e la deportazione ebraica che, da principio, sembrano dover occupare la scena, ne costituiscono il leitmotiv, recedendo presto ad elementi indispensabili e determinanti, ma non decisivi. Il vero scopo dell’opera, infatti, è di meditare sulla complessità della psiche umana. Ciò che vien fatto, peraltro, riuscendosi a portare a termine, con indiscutibile successo, il difficilissimo compito di mettere in chiaro i fondamenti delle scienze che la studiano, come la psicologia e, non a caso, la sua più nota corrente, ossia la psicoanalisi, illustrandone al lettore le prime sensibili conquiste. Facendolo altresì calare nella mentalità dell’epoca in cui esse furono ottenute, non senza sottrarlo alle difficoltà che le stesse incontrarono, a causa delle ritrosie e ai retaggi culturali dovuti, finanche, ad una scienza fondata su credenze popolari.
Non è una lettura leggera. Lo si comprende subito, sin dalle prime pagine. Ma proprio per questo, si apprezza maggiormente la scioltezza del linguaggio adoperato, pur dove vengano affrontati argomenti affatto complessi.
Accanto alla rievocazione storica di una vita singolare, dalla quale peraltro trapelano, non di rado, spunti di riflessione che la portano ad essere paragonata a quella di tanti altri, se non altro per coglierne le differenze, poi, trova spazio anche l’ideologia d’una società borghese che si forma e si sviluppa a dispetto delle guerre e delle convenzioni incancrenite dalla paura di guardare oltre le abitudini conclamate e mai contestate.
Personaggi rimasti illustri nella storia viennese a cavallo fra l’800 ed il ‘900 si alternano ad altri che hanno vissuto al loro fianco e ad altri ancora frutto della fantasia dell’autore, in un andirivieni che ha come unico filo conduttore, come epicentro d’interesse, l’origine della loro personalità. Del loro “io”. Fra gli altri, inutile dirlo, un ruolo, anche se non fondamentale, o meglio, non diretto, è lasciato al padre della psicoanalisi, il quale, peraltro, non sempre è rappresentato come affidabile e integerrimo. A volte, anzi, l’autore sembra volerlo persino deridere, lasciando sfuggire un sorriso amaro a chi ne ripercorre le gesta. Ma anche questo non è che un modo, io credo, per non far dimenticare che sulla psiche umana non vi è, né vi può essere, alcuna certezza.
Un libro da non perdere. Un autore da tenere d'occhio.

venerdì 2 dicembre 2011

Benedetta Cibrario, “Lo scurnuso”.

Di Benedetta Cibrario ho letto tutto. Almeno, tutto quel che di lei sembra essere stato pubblicato. Ossia, tre romanzi. Tutti editi Feltrinelli. Uno più bello dell’altro. L’ultimo è “lo scurnuso”, uscito in sordina nel mese di novembre.
Lo scurnuso in napoletano è “chi tiene scuorno”, ossia prova vergogna, per sé stesso, per quello che ha fatto. E’ la persona che si identifica col sentimento che prova. Nel romanzo, lo scurnuso è anzitutto una statuetta. Una creazione meravigliosa di un giovane artigiano, che in essa ha voluto rappresentare la persona che si è presa cura di sé nella fase più critica dell’infanzia, ma che, strano a dirsi - specialmente in queste righe - non ha provato apparentemente vergogna quando l’ha mandato via di casa, non avendo più i mezzi per poterlo sostentare. Ma lo scurnuso del romanzo è anche una persona, Tommaso Jannacone, un “figuraro” napoletano che alla fine del ‘700 modella pastorelli per il presepe e altre statuette per la parte nobile e meno nobile della città, morto povero a causa della malattia che non gli ha più consentito di lavorare la creta. E’, dunque, l’uno e l’altro insieme.
La trama vuole che, quando nella vita di Jannacone l’avanzare della malattia cominciava a impedirgli di lavorare, si era fatto avanti l’orfanello Sebastiano, il suo apprendista, avuto come ricompensa per un lavoro fatto alle monache di Caserta, dimostrandosi subito capace dell’arte dei figurari. Dopo pochi anni, però, sebbene fra i due si fosse creato un rapporto stretto, paragonabile solo a quello fra un genitore e il proprio figlio, Sebastiano era stato dato come garzone in una bottega molto più avviata, in cui il suo estro e la sua bravura sarebbero servite molto di più. Di punto in bianco. Senza vergogna. Perché diceva Jannacone a Sebastiano che lì avrebbe imparato meglio il mestiere e, in quel tempo di carestia, col suo lavoro avrebbe guadagnato di più lui e avrebbe dato da mangiare anche a sé.
Il fatto è che Jannacone in realtà si era vergognato, e aveva provato dispiacere per il distacco, avendo dovuto solo recitare la parte di chi non presta ascolto ai sentimenti, per non intimorire il giovane e non fargli perdere l’occasione della sua vita. Sebastiano, dal canto suo, se ne sarebbe accorto tardi, troppo tardi, quando ormai quello era morto. Per ricordarlo, però, lo rappresentò come sapeva, con la sua arte, in una statuetta, afflitta dal dolore, con le mani fasciate e lo sguardo triste e chiuso in sé, appunto, come chi prova vergogna di ciò che ha fatto.
Dopo più di un secolo e per la sua bellezza, la statuetta passa per le mani di collezionisti di presepi, gente colta e sensibile che lo tiene, se non come il pezzo più pregiato, certamente come il più espressivo e bello della collezione. In pieno secondo conflitto mondiale, si afferma che, di sicuro chi lo aveva confezionato doveva avere avuto un gran talento, mentre il mistero sulla bottega da cui fosse giunto ne incrementa l’interesse. Nell’ignoranza sulle origini e la provenienza della statuetta, gli si attribuisce un nome, che non guarda al suo mestiere o alla sua condizione fisica, ma all’espressione del suo volto. Ed è per questo che sarà chiamata lo scurnuso.
Giunti ai giorni nostri, nel finale del libro, lo scornuso finisce nelle mani di un ricco cittadino, che pensa di fare cosa gradita regalandolo alla figlia, mentre lei sembra rimanere totalmente indifferente alla cosa.
Nonostante la sua brevità, il libro si lascia apprezzare, soprattutto per la sua eleganza e lo stile sopraffino di cui, oramai, l’autrice ci ha dimostrato essere capace. Fra le sue pagine, che corrono veloci come i piaceri più sublimi ci sfiorano la fantasia, si coglie un sincero omaggio ad un popolo antico e meraviglioso, singolare ed originalissimo, come quello napoletano, con le sue tradizioni, le sue leggende e la sua atavica vitalità, che attraversa le strade delle viuzze fino ad arrivare davanti ai cancelli di maestose dimore storiche reali.
Il posto d’onore, però, è lasciato alla bellezza e all’arte in generale, la sua scoperta, il fremito che sa generare, le invidie e il pizzico di follia che accompagna chiunque ne rimanga affascinato. Tutto ciò, forse, con l’unico rammarico di assistere, al giorno d’oggi, alla decadenza di una società in cui persino il bello viene assorbito dal concetto di ricchezza.