Lo scurnuso in napoletano è “chi tiene scuorno”, ossia prova vergogna, per sé stesso, per quello che ha fatto. E’ la persona che si identifica col sentimento che prova. Nel romanzo, lo scurnuso è anzitutto una statuetta. Una creazione meravigliosa di un giovane artigiano, che in essa ha voluto rappresentare la persona che si è presa cura di sé nella fase più critica dell’infanzia, ma che, strano a dirsi - specialmente in queste righe - non ha provato apparentemente vergogna quando l’ha mandato via di casa, non avendo più i mezzi per poterlo sostentare. Ma lo scurnuso del romanzo è anche una persona, Tommaso Jannacone, un “figuraro” napoletano che alla fine del ‘700 modella pastorelli per il presepe e altre statuette per la parte nobile e meno nobile della città, morto povero a causa della malattia che non gli ha più consentito di lavorare la creta. E’, dunque, l’uno e l’altro insieme.
La trama vuole che, quando nella vita di Jannacone l’avanzare della malattia cominciava a impedirgli di lavorare, si era fatto avanti l’orfanello Sebastiano, il suo apprendista, avuto come ricompensa per un lavoro fatto alle monache di Caserta, dimostrandosi subito capace dell’arte dei figurari. Dopo pochi anni, però, sebbene fra i due si fosse creato un rapporto stretto, paragonabile solo a quello fra un genitore e il proprio figlio, Sebastiano era stato dato come garzone in una bottega molto più avviata, in cui il suo estro e la sua bravura sarebbero servite molto di più. Di punto in bianco. Senza vergogna. Perché diceva Jannacone a Sebastiano che lì avrebbe imparato meglio il mestiere e, in quel tempo di carestia, col suo lavoro avrebbe guadagnato di più lui e avrebbe dato da mangiare anche a sé.Il fatto è che Jannacone in realtà si era vergognato, e aveva provato dispiacere per il distacco, avendo dovuto solo recitare la parte di chi non presta ascolto ai sentimenti, per non intimorire il giovane e non fargli perdere l’occasione della sua vita. Sebastiano, dal canto suo, se ne sarebbe accorto tardi, troppo tardi, quando ormai quello era morto. Per ricordarlo, però, lo rappresentò come sapeva, con la sua arte, in una statuetta, afflitta dal dolore, con le mani fasciate e lo sguardo triste e chiuso in sé, appunto, come chi prova vergogna di ciò che ha fatto.
Dopo più di un secolo e per la sua bellezza, la statuetta passa per le mani di collezionisti di presepi, gente colta e sensibile che lo tiene, se non come il pezzo più pregiato, certamente come il più espressivo e bello della collezione. In pieno secondo conflitto mondiale, si afferma che, di sicuro chi lo aveva confezionato doveva avere avuto un gran talento, mentre il mistero sulla bottega da cui fosse giunto ne incrementa l’interesse. Nell’ignoranza sulle origini e la provenienza della statuetta, gli si attribuisce un nome, che non guarda al suo mestiere o alla sua condizione fisica, ma all’espressione del suo volto. Ed è per questo che sarà chiamata lo scurnuso.
Giunti ai giorni nostri, nel finale del libro, lo scornuso finisce nelle mani di un ricco cittadino, che pensa di fare cosa gradita regalandolo alla figlia, mentre lei sembra rimanere totalmente indifferente alla cosa.
Nonostante la sua brevità, il libro si lascia apprezzare, soprattutto per la sua eleganza e lo stile sopraffino di cui, oramai, l’autrice ci ha dimostrato essere capace. Fra le sue pagine, che corrono veloci come i piaceri più sublimi ci sfiorano la fantasia, si coglie un sincero omaggio ad un popolo antico e meraviglioso, singolare ed originalissimo, come quello napoletano, con le sue tradizioni, le sue leggende e la sua atavica vitalità, che attraversa le strade delle viuzze fino ad arrivare davanti ai cancelli di maestose dimore storiche reali.
Il posto d’onore, però, è lasciato alla bellezza e all’arte in generale, la sua scoperta, il fremito che sa generare, le invidie e il pizzico di follia che accompagna chiunque ne rimanga affascinato. Tutto ciò, forse, con l’unico rammarico di assistere, al giorno d’oggi, alla decadenza di una società in cui persino il bello viene assorbito dal concetto di ricchezza.
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