lunedì 9 maggio 2011

Nicole Krauss, “La grande casa”.

Appena ho finito di leggere questo libro, l’impressione è stata quella di avere avuto fra le mani un’opera degna del suo nome, ricca, ma non per questo complessa. Anzi, a dire il vero, ne ero proprio entusiasta, tanto che non vedevo l’ora di scrivere la recensione per consigliare a tutti di leggerlo. Ero rimasto, come dire, affascinato, folgorato, stregato.
Poi, è successo che, mentre viaggiavo verso la meta del fine settimana, ho voluto fare le mie considerazioni sul libro alla mia fidanzata, partendo come ho fatto adesso dalla rivelazione del piacere che mi aveva suscitato. Lei, però, il libro non l’aveva letto e, com’è naturale che fosse, ha preteso di averne raccontata prima di tutto la trama. Lì sono sorti i guai.
Infatti, rapito com’ero stato dal modo in cui ciascun personaggio parla di sé, rivelando fatti del proprio passato che hanno contribuito a farli divenire quel che sono nel momento in cui si raccontano, ho dovuto prendere atto di non avervi prestato molta attenzione. In ogni caso, in quel momento credevo di poterla raccontare, nella sua semplicità. Invece, via via che andavo avanti, sono cominciati a sorgermi dubbi sulla completezza del romanzo o, meglio, sull’attenzione risposta dall’autrice alla trama e agli intrecci da lei stessa imbastiti.
Mi spiego meglio. I fatti narrati si traggono dall’insieme di quattro storie, collocate in epoche diverse, sin dall’inizio apparentemente sganciate fra loro, ma chiaramente destinate a convergere nel finale.
Nella prima, una scrittrice di nome Nadia sta facendo il resoconto della sua vita ad un giudice. Si deduce che chi l’ascolta sia un giudice dal fatto che gli si rivolge costantemente con un “vostro onore”, ma perché si rivolga proprio a lui non si capisce né si capirà mai, neppure alla fine. Spezzano questa curiosa confessione due o tre paragrafetti incidentali di poche righe in cui viene descritta da un terzo estraneo alla scena (da un narratore esterno) l’immagine di una persona tenuta in vita a stento dai macchinari, dopo aver subito -forse- un intervento chirurgico che gli è costata la perdita di molto sangue. Il succo del racconto di Nadia è che troppo tardi si è resa conto che la sua attività di scrittrice, così come la sua serenità, o il suo equilibrio interiore, dipendevano molto da una scrivania ingombrante che gli era stata prestata dal poeta cileno Daniel Vrasky e che solo dopo più di vent’anni una donna, dicendo di essere la figlia di Daniel, si è andata a riprendere.
Nella seconda, il vedovo della scrittrice Lotte Berg, afflitto dal dolore della perdita, riflette a voce alta su un segreto della moglie che ha potuto apprendere solo in occasione della malattia degenerativa che aveva condotto quest’ultima a perdere gradualmente la memoria. La moglie, infatti, aveva avuto un figlio prima di conoscerlo e lui ora ne vuole scoprire l’identità. In occasione delle ricerche, si ricorda che un certo Daniel Vrasky che, essendosi detto un ammiratore di sua moglie, aveva preso a frequentarla, finché lei non gli aveva regalato la sua scrivania (quella stessa che Daniel darà in prestito a Nadia). Ma Daniel non risulterà essere il figlio di Lotte dato in adozione.
La terza storia è quella dell’anziano e ormai stanco Aron, appena divenuto vedovo, che si ritrova a vivere dopo due decenni col figlio Dovik, che lui tanto aveva criticato e al tempo stesso ben voluto, ma col quale non era mai riuscito ad avere un bel rapporto, invidiando invece quello che il figlio aveva avuto con la madre. Nel suo lungo monologo interiore c’è praticamente tutta la storia della loro vita insieme, anche se vissuta a migliaia di chilometri di distanza.
E infine c’è la storia di due fratelli ebrei, Leah e Yoav, cresciuti all’ombra del padre, l’antiquario George Weisz che, per via della sua professione, ma soprattutto per la sua vocazione di dare forza al concetto della “grande casa”, concepito a sua volta dal rabbino ben Zakkai, li ha costretti a vagare di città in città. Weiz, infatti, si è posto una missione nella vita, che è quella di recuperare, al costo di girare tutto il mondo, i mobili sottratti durante la shoa, per restituire un frammento della memoria di Gerusalemme ad ogni ebreo e dare così al suo popolo la possibilità di ricostruire la memoria completa delle sue origini.
Weiz cerca per sé, e troverà, la scrivania che era appartenuta a suo nonno, che è la stessa passata per le mani di Lotte Berg, Daniel Vraski e Nadia.
Delle quattro storie, che peraltro sembrano rimanere all’interno di compartimenti stagni fino alla fine, l’una, quella di Aron e Dovik, sembra fine a se stessa. Io almeno non ci ho visto nessun collegamento con le altre. Un enigma, per me, sono anche le incidentali che spezzano il racconto di Nadia. A cosa si riferissero giuro di non essere riuscito a capirlo. Persino sulla figura di Daniel Varsky avrei da ridire: perché, infatti, l’autrice ha voluto dargli un chiaro ruolo di primo piano se alla fine non si rivela essere né il figlio segreto di Lotte Berg né il padre della donna che andrà a prendersi la scrivania da Nadia? Vederlo degradare alla fine quale semplice elemento accidentale attraverso cui la scrivania è passata da una mano non si addice al ruolo a cui sembrava destinato.
Ora, pur con questi dubbi, non voglio esagerare con l’essere critico e dunque non affonderò ulteriormente il coltello nella piaga, perché, così come ho iniziato, voglio finire esaltando l’incredibile capacità espositiva dell’autrice, che ha saputo creare con talento un’opera che è al tempo stesso introspettiva, se riferita ai singoli personaggi, e di insegnamento, se riferita allo spirito e ai principi rivelati del popolo ebraico.
Un romanzo capace di mettere a confronto diverse generazioni e diversi ruoli all’interno della famiglia. Capace anche di dare ai gesti un significato eloquente. Di forte impatto emotivo, penetrante, senza compromessi.

venerdì 15 aprile 2011

Margaret Mazzantini, “Nessuno si salva da solo”.

Coi due romanzi capolavoro “Non ti muovere” e “Venuto al mondo”, che gli sono valsi i Premi Strega e Grinzane Cavour, nel 2002, e il Premio Campiello, nel 2009, la Mazzantini non aveva ancora concluso il suo viaggio nell’oscuro mondo dell’amore, coi suoi aspetti spesso controversi, più frequentemente inspiegabili, evanescenti, ma indiscutibilmente umani e altrettanto reali.
Lo ha ripreso quest’anno con “Nessuno si salva da solo”, il romanzo che racconta di un istante e di una vita intera, contemporaneamente. L’istante è la sera in cui Delia e Gaetano, prima innamorati, sposati e divenuti genitori, si ritrovano a cenare insieme, dopo essersi lasciati da alcuni mesi. L’intera vita è il divenire della stessa coppia, dal loro primo incontro, fino ad un futuro che, pur desiderato, quantomeno per l’ancor giovane età, appare incerto e irraggiungibile.
Non c’è soluzione di continuità fra la descrizione dei fatti presenti, che si svolgono mentre il narratore esterno li va descrivendo, e quelli che sono già avvenuti e rivivono nei ricordi dei due, nelle immagini mentali a cui sono proiettati a causa di una parola, di un gesto o semplicemente di un proposito meditato per condurre in porto la serata. E, in ciò emerge il genio dell’autrice che, con maestria, ha composto i pezzi di un mosaico che risulta tanto più complesso quanto più si spinge nei meandri dell’animo umano, nelle sue più recondite riflessioni e segreti più nascosti, ma non per questo, meno logico o fluido.
L’esempio più riuscito di tale componimento (qui inteso, non solo come sistemazione dei pezzi [del mosaico], ma anche come l’intera opera narrativa) sta nella proiezione futura che la coppia, o forse sarebbe meglio dire la ex coppia, fa di sé registrando i comportamenti e i gesti di un uomo e di una donna ormai anziani che siedono ad un tavolo vicino al loro. Gli altri due, infatti, appaiono ai loro occhi soprattutto sereni, lasciandogli immaginare una vita alle spalle, anche burrascosa, ma che li ha visti, comunque, sempre insieme, consentendogli ora di gioire l’uno della vicinanza dell’altra, se non di essere anche visibilmente allegri, vivi e vincenti.
Del resto, nel millimetrico tracciato cardiotografico della vita di Delia e Gaetano quel che manca è solamente il loro futuro, dato che risulta oscuro anche a loro stessi. Ma, mentre in un guazzabuglio di anacronie analettiche (vale a dire, di contini rimandi a fatti avvenuti, in ordine sparso, prima del tempo in cui svolge la storia) l’unica azione che si svolge in ordine cronologico è la serata dei protagonisti, anche la consapevolezza di potere, quantomeno, avere la parte preponderante nella scelta del loro futuro va maturando via via che la storia va avanti; man mano che giunge loro, che ne sono coinvolti, e al lettore, che ne apprende le gesta, il chiaro messaggio che “nessuno si salva da solo”.
Forse, l’ultima fatica di Margaret Mazzantini non avrà la risonanza e i riconoscimenti che hanno avuto i suoi libri più acclamati, vuoi per via del fatto che manca una vera e propria trama coinvolgente o vuoi anche perché sembra, a tratti, condizionato da uno stile (asciutto, ma non scarno, tagliente ma non sentenziante) e da alcune immagini (grottesche e impietose) già sperimentati con successo dall’autrice e che, per ciò stesso, manca del carattere della novità che, magari, ci si sarebbe aspettati, ma non per questo non si può non considerarla un’opera eccellente.

mercoledì 6 aprile 2011

Siegfried Lenz, “La compagnia dei teatranti”.

Nella cornice triste della casa circondariale di Isenbüttel, nel cuore della Germania, due uomini si trovano a condividere la stessa cella, riconoscendosi subito come conviventi ideali. Sono Hannes e Clemens, che si trovano lì per aver peccato di fantasia e di troppo amore. L’uno, infatti, fingendosi un vigile, si era intascato le multe che aveva irrogato a malcapitati automobilisti; l’altro, soprannominato il Professore, perché tale era prima di essere arrestato, si era portato a letto tutte le sue studentesse più belle che, a loro volta (per un caso della vita), si erano laureate col massimo dei voti. E la cosa aveva suscitato la gelosia delle brutte.
Non si può fare a meno di amare sin da subito i protagonisti della storia, per i loro sentimenti, la loro dignità e il loro amore smisurato per la libertà.
L’avventura ha inizio il giorno in cui la compagnia del Teatro nazionale, la Landesbühne, va a dare uno spettacolo all’interno del carcere. I due amici, infatti, insieme ad altri detenuti, riescono a impossessarsi del pullman della compagnia e fuggono, senza una meta precisa, finendo col trovarsi nel paese di Grünau. Caso vuole che la cittadina è nel bel mezzo della festa annuale e loro vengono accolti come veri artisti, intervenuti per l’occasione.
Il fatto è che, pur nella disorganizzazione iniziale, i finti teatranti riescono davvero a divertire e intrattenere la gente, tanto che il sindaco del paese li vuole assoldare per realizzare la sua ambizione di far diventare Grünau -usando un’espressione attuale- un polo d’attrazione artistico e culturale. Nei suoi ideali, infatti, l’arte va posta al primo posto, al pari della cultura e della memoria storica.
Anche questo secondo impegno viene accettato dai finti teatranti, ma quel che si comprende subito è che ciò che li muove non è solamente, anzi non è quasi per niente, il fine di rientrare nei ranghi della vita civile, ma si giustifica con l’amore per l’arte e quello per la cultura che pervade anche loro stessi. Su tutto, però, incombe sempre il pericolo di essere rintracciati e rimessi in carcere; pericolo che si accresce man mano che va crescendo la loro popolarità.
Il lungo racconto, che si legge in tre-quattro ore, si può dividere idealmente in due parti. Una prima, in cui si descrivono i personaggi e gli antefatti; e una seconda; in cui si svolge la storia. La fine del racconto è anche la fine dell’avventura, ma l’inizio di nuove e profonde riflessioni, sia per chi è destinato a rimanere dietro le sbarre (d’onde alcuni hanno parlato di opera picaresca, mentre in realtà, a mio modo di vedere, sarebbe più corretto definirla trascendentale) che per chi ha goduto ad apprendere le gesta di questi ultimi sfogliando le pagine che le raccolgono.
Io sono uno di questi e quelle di seguito sono le riflessioni che ho fatto dopo la lettura. Chi è dentro l’arte, chi si lascia trasportare dai sentimenti, ha un dono certamente superiore a tutti gli altri: ha la libertà dello spirito. Anche se privo della libertà di agire, vive infatti una libertà interiore che si materializza nei suoi sogni, nei suoi progetti, pur non realizzati, ma solamente desiderati.
Se il mondo, nella diversità dei suoi componenti, non è sempre disposto a capire la purezza d’animo, il candore, la ragionevole stravaganza delle passioni, ciò non potrà comunque ledere la libertà interiore di chi le prova, che continuerà a vivere e a espandersi nonostante la privazione fisica degli spazi. E ciò ancor ove se si aggiunga che la questione non si limita ad un mero relativismo.
Leggete le ultime pagine del libro e se condividerete, o ancor meglio vi attenderete, la scelta di Hannes apparterrete, almeno oggi, alla fortunata fetta di uomini che si possano dire liberi.

lunedì 4 aprile 2011

Andrew Sean Greer, “La storia di un matrimonio”.

In vista di un evento particolarmente importante nella mia vita (che non ho bisogno di rivelare al buon intenditor), mi è stato regalato questo libro. Chi me lo ha donato, però, forse, pensava che narrasse la storia di un matrimonio-tipo, nella sua alternanza fra gioie e dolori, fatta col prevedibile sarcasmo e l’ironia tipici di una commediola nordamericana.
Invece, la storia del matrimonio di Pearlie Cook, raccontata da lei, protagonista principale, in prima persona, è tutt’altro che leggera.
Quel che si legge nella quarta di copertina, in effetti, rischia di mandare fuori pista chi non lo ha ancora letto. Lì ci si domanda (ma sembra proprio che la cosa sia detta in termini ironici) “perché, leggendo La storia di un matrimonio, ci sentiamo invadere da un’ansia arcana, da un senso di vertigine e di smarrimento, come davanti a certe atmosfere torve di Edgar Allan Poe? … Sarà … per la dolorosa lucidità con cui la narratrice riesce a indagare la distanza che separa ciascuno di noi dagli altri? O perché a ogni pagina ci chiediamo: come fa a sapere tutte queste cose di noi?. Ma, come ho detto, le cose stanno diversamente.
Con ciò, non sto dicendo, si badi bene, che i modi di fare e di pensare che vengono rappresentati non siano quelli tipici americani. La storia stessa, anzi, per la sua peculiarità, che non posso certo svelare, perché costituisce l’elemento cardine del romanzo, non poteva che compiersi in quel mondo costruito a forza di contraddizioni e ipocrisie.
Però, l’eco di una guerra che non sembra dovere mai finire, la continua evidenziazione fra uomini di un colore e uomini di un altro, l’importanza della suddivisone dei ruoli fra maschio e femmina, uomo e donna, marito e moglie se non appaiono elementi originali per chi in quel mondo non vi ha mai vissuto, sono rappresentati con una tale maestria che non si può che riconoscere l’alto livello dell’opera.
In particolare, personalmente, ho molto apprezzato lo stile narrativo perché, pur non affidando la sua forza attrattiva all’avvicendarsi degli eventi, riesce ad affascinare con la sola descrizione dell’evoluzione delle sensazioni della protagonista, dei suoi diversi modi di vedere le cose, di accettare la realtà e di provare a modificarla con le proprie forze.
Non è sempre facile saper trovare la forza e il coraggio di reagire, di fronte alla previsione di un evento drammatico che sta per realizzarsi; ma, dovendolo fare, Peralie Cook impara a sue spese che il modo migliore per subire meno danni possibili è assecondare la realtà nascente, traendone tutto il poco di buono che ne può derivare. E, in questo tentativo, mentre l’autore ruota continuamente la sorgente luminosa nei trecentosessanta gradi attorno a Pearlie, il lettore, recependone il silenzioso strazio, si trova a fare il tifo per lei, cercando di appigliarsi a qualunque segnale, proveniente dal passato o dal presente, per continuare a credere che, alla fine, uscirà vincente dall’esperienza narrata nel libro.
In quest’ottica, ritengo che anche la scelta del racconto in prima persona sia il più giusto, dato che crea un rapporto diretto fra protagonista e lettore, trasformando quasi la lettura in un’attività partecipata.
Il romanzo comincia con l’affermazione di Pearlie Cook per cui “crediamo tutti di conoscere le persone che amiamo” ed è poi tutto incentrato sull’amara presa di coscienza che, in realtà, così non è. Resta solo da scoprire, in un’attesa ottimista che sembra quasi lasciata per gentile concessione dell’autore, se però alla fine, la conoscenza dell’amato, che uno ha acquisito col tempo, serva a qualcosa o resti una mera opinione affidata al vento.
Io ci ho creduto, fino all’ultima pagina.

lunedì 28 marzo 2011

Laurence Cossé, “L’incidente”. Titolo originale: “Le 31 du mois d’août”.

“Il 31 del mese di agosto”, di un anno che il titolo originale del romanzo non svela, avvenne un fatto accidentale che ebbe una eco enorme nella collettività, tale da indurre gli animi di mezzo mondo a riflettere sull’importanza di una vita.
I protagonisti noti di quell’evento (ove “noti” qui sta sia per “personaggi pubblici” che per “protagonisti di cui si è accertata la presenza sul luogo dei fatti”) furono così sfortunati da morire prima di potere raccontare la loro versione. Ma, nell’immediatezza, qualcuno ebbe la prontezza di rivelare che, oltre a loro, qualcun altro certamente era stato presente e aveva visto coi suoi occhi quel che era successo. Qualcuno che, pur essendo stato coinvolto dall’evento, era riuscito a vivere, ma si era dileguato nel mistero più profondo, facendo perdere, ancor più misteriosamente, le sue tracce.
Con un romanzo brillante, uscito per la prima volta in Francia nel 2003, e dunque prima del più famoso “la libreria del buon romanzo”, Laurence Cossé racconta alla sua maniera le ore, i giorni e i mesi successivi alla morte della principessa Diana avvenuta il 31 agosto del 1997, a seguito di un tragico incidente automobilistico avvenuto dentro il tunnel dell’Alma. Le racconta, affidandosi intermente alla sua fantasia, seguendo quasi come con una telecamera nascosta quel personaggio misterioso che ebbe la sventura di assistervi in prima persona, che chiama in maniera semplice col suggestivo nome di Lou.
Al di là delle conseguenze dell’incidente, infatti, le indagini sulle sue cause ritennero di accertare che l’auto in corsa su cui viaggiava Lady D. aveva dapprima urtato contro un’altra auto, che procedeva ad andatura regolare, una Fiat Uno bianca, che tuttavia non è mai stata ritrovata e il cui autista, tanto meno, è stato mai identificato. Quell’autista, nel romanzo della Cossé, è Lou, una ragazza modesta, senza grilli per la testa, felice della sua vita normale e capace di compiacersi delle sue piccole conquiste.
Quando avevo parlato della “libreria del buon romanzo” ne avevo apprezzato soprattutto l’originalità e la capacità dell’autrice di rappresentare fatti inventati in modo tanto realistici da indurre a pensare che l’autrice lo avesse vissuto in prima persona. Le stesse cose direi adesso per “l’incidente”, con l’aggiunta, forse anche condizionata dal raffronto con l’altro, che essendo anteriore, tali caratteri non sono qui ancora compiutamente affermati, ma rivelano decisamente la maestria che avrebbe portato l’autrice a distinguersi oggi.
Quel che è certo è che, rappresentare uno stato d’animo, in un crescendo di emotività, di dubbi, di decisioni prese in extremis e che non consentono di potere tornare indietro, non dev’essere stata un’impresa facile. Tanto più quando, sia pur in modo marginale e non dichiarato, fra gli intenti dell’autrice vi è quello di suscitare un’opinione innocentista nei lettori e molti di questi hanno già, presumibilmente, puntato il dito contro quella maledetta macchina-ostacolo che Lady D. si sarebbe trovata sulla sua strada.
Al di là di ciò, è comunque chiaro un altro messaggio, che mi piace trovare non-scritto nel titolo del romanzo: qualunque evento, bello o brutto, noto alle cronache o rimasto del tutto ignoto al pubblico, se ti tocca da vicino è tale da stravolgerti completamente la vita. Ma soprattutto, per quel che più importa, quell’evento può giungere in qualunque momento, come per Lou è arrivato in un qualunque giorno 31 di un mese di agosto, che poi solo il destino ha voluto far diventare il 31 agosto 1997. In quest’ottica, cambiare il titolo del romanzo non credo che sia stata una felice idea; indagare poi sul perché l’editore italiano lo abbia fatto diventa un’indagine impossibile.

lunedì 21 marzo 2011

Fred Vargas, “I tre evangelisti”.

Fra i libri che ho ricevuto in dono per il compleanno (che è stato il 2 marzo) c’erano tre romanzi di Fred Vargas, pubblicati per la prima volta negli anni ‘90, ambientati a Parigi e accomunati dal fatto di avere gli stessi, particolarissimi, protagonisti, raccolti adesso in un unico volume sotto il titolo “i tre evangelisti”.
Chi ama il genere giallo certamente conoscerà l’autrice, dato che, da quel che ho appreso, sembra essere molto popolare sia in Francia che in altri paesi, ma per me che non la conoscevo, invece, è stata una bella scoperta.
Il primo dei tre romanzi, da titolo “chi è morto alzi la mano”, è il più originale: sembra di imbattersi in un genere nuovo o che, almeno, sappia cogliere un po’ qua e un po’ là spunti diversi da generi diversi, per ottenere come risultato finale un poliziesco in cui le emozioni dei protagonisti non sono il frutto della ricerca dell’omicida di turno, ma quelle che gli stessi vivono per vicende legate a fatti loro personali. Dal canto loro, del resto, Marc Vandoosler, Mathias Delamarre e Lucien Devernois, i tre evangelisti, come li definisce il loro amico Vandoosler, zio di Marc, sono uomini del tutto singolari che hanno in comune di essere sempre al verde e di essere degli storici, legati a filo doppio con l’epoca a cui dedicano i loro studi, a tal punto da esserne condizionati nel comportamento.
Anche per questo, ci si trova spesso a chiedersi se la trama del giallo non sia solo un pretesto per mettere in scena le diverse personalità rappresentate e se magari alla fine del libro si riesca a cavare una morale da condividere. Poi, in realtà, si finisce con l’appurare che la morale ricercata manca del tutto, ma si legge comunque nel complesso un libro che risulta avventuroso, intrigante e perfino divertente.
Nel primo romanzo, i tre uniscono le loro forze per andare a vivere in una casa fatiscente, detta “la topaia”, in una zona di Parigi che non sembra neanche Parigi. L’aria che si respira nel rione sembra quasi familiare e per questo nascono presto amicizie con i vicini. Ciò dura, però, fino a quando la scomparsa inattesa e spiacevole della bella donna della villa ad ovest della topaia non porta necessariamente a rimettere tutto e tutti in discussione.
L’originalità dei personaggi e del loro stile di vita, naturalmente, si perde nel secondo romanzo, che s’intitola “un po’ più in là sulla destra”. Anzi, dispiace un po’ che uno di loro, Lucien, viene quasi del tutto dimenticato e quasi mai citato, mentre un altro, Mathias, si ritrova a ricoprire una parte quasi del tutto marginale. In compenso, però, qui viene fuori una vera trama da libro giallo che non manca di destare la curiosità e di tenere svegli la notte, per vedere come andrà a finire, sebbene pecchi di essere un po’ troppo costruita: un osso umano, trovato fra gli escrementi di un cane, porterà Marc e il suo nuovo datore di lavoro, un ex poliziotto col vizio di condurre indagini per i fatti suoi, a cercare, dapprima, una vittima che sembra non esserci mai stata e poi l’autore dell’omicidio, se davvero di omicidio si è trattato.
Nel terzo romanzo, che si chiama “io sono il tenebroso”, tutti e tre gli evangelisti tornano a collaborare, loro malgrado, all’ennesimo caso di cronaca nera che piomba nelle loro vite. Il problema è che, questa volta, non possono dire di no: il sospetto omicida seriale ricercato in tutta la nazione è andato a vivere sotto il loro tetto, ma un sesto senso fa dire loro che lui non c’entri niente. Anche l’ambientazione torna ad essere quella del primo romanzo, nel senso che i protagonisti ruotano attorno, si danno appuntamento e si ritrovano nel loro quartier generale, la topaia. Qui si ritrovano anche le abitudini e le particolarità che si erano conosciute col primo romanzo e fra le trovate divertenti e gli intrighi, le deduzioni e le intuizioni si riesce ad apprezzare il raggiungimento della perfezione tecnica della trilogia.

lunedì 7 marzo 2011

Richard C. Morais, “Madame Mallory e il piccolo chef indiano”.

Il primo romanzo di Richard C. Morais (il cui titolo originale è “The Hundred-Foot Journey”) è l’equivalente di un cosiddetto film “di cassetta” americano: sin dalle prime battute si intuisce già come andrà a finire, per cui l’unica sua attrattiva è data dagli effetti scenici e dagli accorgimenti curiosi, avventurosi o scandalistici che vi si trovano nel mezzo. Inoltre, non offre alcuno stimolo moralistico o argomento che susciti riflessioni approfondite. Basti pensare che il tema più importante affrontato è l’esigenza, avvertita da un indiano, di custodire la tradizione francese in cucina.
In casi del genere, dunque, il giudizio non può che restringersi a un bello o a un brutto che si basi sulle scene o sulle immagini (qui, sulla capacità di saperle evocare), sull’interpretazione degli attori (qui, sulla raffigurazione dei personaggi) e sull’evoluzione della narrazione.
E, a mio parere, Madame Mallory e il piccolo chef indiano è bello. Anzi, delizioso.
Lo è perché l’idea stereotipata della metropoli indiana, da cui muove le mosse, è perfettamente raffigurata nella sua bolgia di donne e uomini che si muovono in ogni direzione, nel suo caos generale, nelle mille luci e colori. Così come ben descritte sono la silenziosa, grigia e soporifera città inglese, la moderatamente vivace provincia francese e la spocchiosa, gaudente e costosa Parigi.
Lo è anche perché nei protagonisti, che pur sono accomunati dalla stessa vocazione, quella di eccellere nell’arte culinaria, sono distinguibili caratteri diversi, ancorché ciascuno di essi non sia mai rappresentato nella sua intima personalità.
Lo è, infine, soprattutto, perché il racconto della vita di un promesso chef indiano, dai primi esperimenti davanti ai fornelli fino al raggiungimento del più elevato riconoscimento internazionale attribuibile ad un cuoco, è resa in modo semplice, senza particolari sbalzi emotivi, attraverso una narrazione che scivola via liscia come l’olio.
Che altro dire? Assolutamente nulla, se non che nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, l’autore ricorda che l’iniziativa di scrivere il libro era stata oltreché sua anche di un produttore cinematografico che gliel’avrebbe finanziato, ma che quest’ultimo non c’è più e, quindi, il progetto così come concepito inizialmente è andato a monte. Anche per questa ragione, l’autore non fa mistero del suo desiderio di vederlo comunque messo in scena. E quindi, non mi stupirebbe se tra poco ce lo trovassimo tra i film in programmazione.