lunedì 9 maggio 2011

Nicole Krauss, “La grande casa”.

Appena ho finito di leggere questo libro, l’impressione è stata quella di avere avuto fra le mani un’opera degna del suo nome, ricca, ma non per questo complessa. Anzi, a dire il vero, ne ero proprio entusiasta, tanto che non vedevo l’ora di scrivere la recensione per consigliare a tutti di leggerlo. Ero rimasto, come dire, affascinato, folgorato, stregato.
Poi, è successo che, mentre viaggiavo verso la meta del fine settimana, ho voluto fare le mie considerazioni sul libro alla mia fidanzata, partendo come ho fatto adesso dalla rivelazione del piacere che mi aveva suscitato. Lei, però, il libro non l’aveva letto e, com’è naturale che fosse, ha preteso di averne raccontata prima di tutto la trama. Lì sono sorti i guai.
Infatti, rapito com’ero stato dal modo in cui ciascun personaggio parla di sé, rivelando fatti del proprio passato che hanno contribuito a farli divenire quel che sono nel momento in cui si raccontano, ho dovuto prendere atto di non avervi prestato molta attenzione. In ogni caso, in quel momento credevo di poterla raccontare, nella sua semplicità. Invece, via via che andavo avanti, sono cominciati a sorgermi dubbi sulla completezza del romanzo o, meglio, sull’attenzione risposta dall’autrice alla trama e agli intrecci da lei stessa imbastiti.
Mi spiego meglio. I fatti narrati si traggono dall’insieme di quattro storie, collocate in epoche diverse, sin dall’inizio apparentemente sganciate fra loro, ma chiaramente destinate a convergere nel finale.
Nella prima, una scrittrice di nome Nadia sta facendo il resoconto della sua vita ad un giudice. Si deduce che chi l’ascolta sia un giudice dal fatto che gli si rivolge costantemente con un “vostro onore”, ma perché si rivolga proprio a lui non si capisce né si capirà mai, neppure alla fine. Spezzano questa curiosa confessione due o tre paragrafetti incidentali di poche righe in cui viene descritta da un terzo estraneo alla scena (da un narratore esterno) l’immagine di una persona tenuta in vita a stento dai macchinari, dopo aver subito -forse- un intervento chirurgico che gli è costata la perdita di molto sangue. Il succo del racconto di Nadia è che troppo tardi si è resa conto che la sua attività di scrittrice, così come la sua serenità, o il suo equilibrio interiore, dipendevano molto da una scrivania ingombrante che gli era stata prestata dal poeta cileno Daniel Vrasky e che solo dopo più di vent’anni una donna, dicendo di essere la figlia di Daniel, si è andata a riprendere.
Nella seconda, il vedovo della scrittrice Lotte Berg, afflitto dal dolore della perdita, riflette a voce alta su un segreto della moglie che ha potuto apprendere solo in occasione della malattia degenerativa che aveva condotto quest’ultima a perdere gradualmente la memoria. La moglie, infatti, aveva avuto un figlio prima di conoscerlo e lui ora ne vuole scoprire l’identità. In occasione delle ricerche, si ricorda che un certo Daniel Vrasky che, essendosi detto un ammiratore di sua moglie, aveva preso a frequentarla, finché lei non gli aveva regalato la sua scrivania (quella stessa che Daniel darà in prestito a Nadia). Ma Daniel non risulterà essere il figlio di Lotte dato in adozione.
La terza storia è quella dell’anziano e ormai stanco Aron, appena divenuto vedovo, che si ritrova a vivere dopo due decenni col figlio Dovik, che lui tanto aveva criticato e al tempo stesso ben voluto, ma col quale non era mai riuscito ad avere un bel rapporto, invidiando invece quello che il figlio aveva avuto con la madre. Nel suo lungo monologo interiore c’è praticamente tutta la storia della loro vita insieme, anche se vissuta a migliaia di chilometri di distanza.
E infine c’è la storia di due fratelli ebrei, Leah e Yoav, cresciuti all’ombra del padre, l’antiquario George Weisz che, per via della sua professione, ma soprattutto per la sua vocazione di dare forza al concetto della “grande casa”, concepito a sua volta dal rabbino ben Zakkai, li ha costretti a vagare di città in città. Weiz, infatti, si è posto una missione nella vita, che è quella di recuperare, al costo di girare tutto il mondo, i mobili sottratti durante la shoa, per restituire un frammento della memoria di Gerusalemme ad ogni ebreo e dare così al suo popolo la possibilità di ricostruire la memoria completa delle sue origini.
Weiz cerca per sé, e troverà, la scrivania che era appartenuta a suo nonno, che è la stessa passata per le mani di Lotte Berg, Daniel Vraski e Nadia.
Delle quattro storie, che peraltro sembrano rimanere all’interno di compartimenti stagni fino alla fine, l’una, quella di Aron e Dovik, sembra fine a se stessa. Io almeno non ci ho visto nessun collegamento con le altre. Un enigma, per me, sono anche le incidentali che spezzano il racconto di Nadia. A cosa si riferissero giuro di non essere riuscito a capirlo. Persino sulla figura di Daniel Varsky avrei da ridire: perché, infatti, l’autrice ha voluto dargli un chiaro ruolo di primo piano se alla fine non si rivela essere né il figlio segreto di Lotte Berg né il padre della donna che andrà a prendersi la scrivania da Nadia? Vederlo degradare alla fine quale semplice elemento accidentale attraverso cui la scrivania è passata da una mano non si addice al ruolo a cui sembrava destinato.
Ora, pur con questi dubbi, non voglio esagerare con l’essere critico e dunque non affonderò ulteriormente il coltello nella piaga, perché, così come ho iniziato, voglio finire esaltando l’incredibile capacità espositiva dell’autrice, che ha saputo creare con talento un’opera che è al tempo stesso introspettiva, se riferita ai singoli personaggi, e di insegnamento, se riferita allo spirito e ai principi rivelati del popolo ebraico.
Un romanzo capace di mettere a confronto diverse generazioni e diversi ruoli all’interno della famiglia. Capace anche di dare ai gesti un significato eloquente. Di forte impatto emotivo, penetrante, senza compromessi.

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