martedì 20 dicembre 2011

Diego De Silva, “Sono contrario alle emozioni”.

Chi ha già letto “non avevo capito niente” e “mia suocera beve”, di Diego De Silva, avrà piacere di ritrovarsi a tu per tu con l’avvocato Vincenzo Malinconico, a sentirsi il destinatario dei suoi racconti, delle sue storie e dei suoi aneddoti, condotti sempre con fare critico verso tutto e verso tutti, in modo sfacciato e a volte sboccato, specie quando nel mirino ci sono le ipocrisie, i mezzucci ed i luoghi comuni. Questi ultimi caratteri della società, infatti, provando a sintetizzare il pensiero di Vincè (come anche io ormai mi prendo la licenza di chiamare Vincenzo Malinconico), finiscono per spiazzarti, se il tuo modo di fare segue più l’istinto che non una ragione forgiata al tavolo delle convenzioni.
Ma in “sono contrario alle emozioni” l’autore supera sé stesso: l’atteggiamento sfrontato e distaccato del protagonista cede il passo, infatti, ad un male oscuro, apparentemente ingestibile, che rischia di sopraffarlo, perché - le strade del Signore sembrano essere infinite - persino lui, che fin’ora aveva mostrato di tenere alla sua integra essenza sopra ad ogni altra cosa, sembra scivolare nel vortice delle sue stesse critiche e a non saperne più riemergere. E per ciò non bastare ancora, per cercare di venire fuori dalla situazione di stallo in cui si ritrova, compie il gesto che più di tutti da lui non ci si sarebbe immaginato: si affida ad uno psicoanalista.
Naturalmente, conoscendo il tipo, da principio, l’approccio con l’altro ha tutta la parvenza di una disputa polemica, di una battaglia in cui, senza giudicare quello che fa il suo mestiere, il caro Vincè si sente costantemente sfidato e para i colpi e di rimando gli lancia continue provocazioni. Ma qualcosa non sembra andare per il verso giusto: o il dottore ne sa una più del diavolo o forse c’è qualcosa veramente in Vincenzo che non va come dovrebbe andare.
L’intero libro, che ha pochi tratti del romanzo, mancando prima di tutto dell’aspetto narrativo, è il dialogo, anzi sarebbe più corretto dire, il monologo del protagonista che si rivolge direttamente al lettore per parlare di sé stesso. Del resto, il lettore, proprio come in una seduta psicoanalitica, non potrà che limitarsi ad ascoltare i fatti che hanno dato vita e godimento al paziente che ha appena posto in dubbio sé stesso, salvo esprimere il suo verdetto alla fine, dopo che ha voltato l’ultima pagina. Nel mio caso, se proprio lo volete sapere, il soggetto è ben sano, ma farebbe bene a non preoccuparsi troppo delle conseguenze dei suoi gesti.
Un’ennesima brillante, prova di coraggio per De Silva che affida all’avvocato Malinconico il ruolo, certamente non facile, di dissacratore. Entusiasmante per lo stile, ricorrente nei tre libri che sono dedicati all’avvocato napoletano, in cui persino un pensiero che ci può occupare la mente per un tempo non superiore al centesimo di secondo viene analizzato al rallentatore, scandendolo in ogni suo passaggio, sul quale viene poi calato il microscopio della mente di un personaggio geniale (provare per credere).
L’unica pecca, perché una almeno gliela devo trovare, è che il libro sembra destinato unicamente a chi conosce già le traversie di Vincenzo Malinconico. Anche se sono convinto che a ciò si possa facilmente trovare rimedio

mercoledì 7 dicembre 2011

Goce Smilevski, “La sorella di Freud”.


La letteratura internazionale ha conosciuto un nuovo grande autore: Goce Smilevski. C’è addirittura chi (come Joshua Cohen) lo ha già definito “erede di Gunter Grass e José Saramago”. Ma a parte la lungimiranza del commento, quel che rimane certo è che il suo primo romanzo, “la sorella di Freud”, oltre ad essere stato già un successo in mezza Europa, ha tutte le credenziali per essere annoverato come una vera grande opera.
La narrazione ha inizio con la fine della vita di Adolfine, una delle quattro sorelle di Freud, l’unica che non ebbe figli e che non si sposò. La morte di Adolfine è annunciata, dato che si trova reclusa in un campo di concentramento e ha da poco varcato la soglia delle ormai tristemente famose “docce” con cui il regime nazista ha inteso ripulire il mondo dagli ebrei. Da quel momento, prende piede la rievocazione della sua intera vita.
Ma la vita di Adolfine, da lei narrata in prima persona, non è altro che l’imbastitura dell’intero romanzo. E nemmeno alcuni eventi storici e drammatici, come la grande guerra e la deportazione ebraica che, da principio, sembrano dover occupare la scena, ne costituiscono il leitmotiv, recedendo presto ad elementi indispensabili e determinanti, ma non decisivi. Il vero scopo dell’opera, infatti, è di meditare sulla complessità della psiche umana. Ciò che vien fatto, peraltro, riuscendosi a portare a termine, con indiscutibile successo, il difficilissimo compito di mettere in chiaro i fondamenti delle scienze che la studiano, come la psicologia e, non a caso, la sua più nota corrente, ossia la psicoanalisi, illustrandone al lettore le prime sensibili conquiste. Facendolo altresì calare nella mentalità dell’epoca in cui esse furono ottenute, non senza sottrarlo alle difficoltà che le stesse incontrarono, a causa delle ritrosie e ai retaggi culturali dovuti, finanche, ad una scienza fondata su credenze popolari.
Non è una lettura leggera. Lo si comprende subito, sin dalle prime pagine. Ma proprio per questo, si apprezza maggiormente la scioltezza del linguaggio adoperato, pur dove vengano affrontati argomenti affatto complessi.
Accanto alla rievocazione storica di una vita singolare, dalla quale peraltro trapelano, non di rado, spunti di riflessione che la portano ad essere paragonata a quella di tanti altri, se non altro per coglierne le differenze, poi, trova spazio anche l’ideologia d’una società borghese che si forma e si sviluppa a dispetto delle guerre e delle convenzioni incancrenite dalla paura di guardare oltre le abitudini conclamate e mai contestate.
Personaggi rimasti illustri nella storia viennese a cavallo fra l’800 ed il ‘900 si alternano ad altri che hanno vissuto al loro fianco e ad altri ancora frutto della fantasia dell’autore, in un andirivieni che ha come unico filo conduttore, come epicentro d’interesse, l’origine della loro personalità. Del loro “io”. Fra gli altri, inutile dirlo, un ruolo, anche se non fondamentale, o meglio, non diretto, è lasciato al padre della psicoanalisi, il quale, peraltro, non sempre è rappresentato come affidabile e integerrimo. A volte, anzi, l’autore sembra volerlo persino deridere, lasciando sfuggire un sorriso amaro a chi ne ripercorre le gesta. Ma anche questo non è che un modo, io credo, per non far dimenticare che sulla psiche umana non vi è, né vi può essere, alcuna certezza.
Un libro da non perdere. Un autore da tenere d'occhio.

venerdì 2 dicembre 2011

Benedetta Cibrario, “Lo scurnuso”.

Di Benedetta Cibrario ho letto tutto. Almeno, tutto quel che di lei sembra essere stato pubblicato. Ossia, tre romanzi. Tutti editi Feltrinelli. Uno più bello dell’altro. L’ultimo è “lo scurnuso”, uscito in sordina nel mese di novembre.
Lo scurnuso in napoletano è “chi tiene scuorno”, ossia prova vergogna, per sé stesso, per quello che ha fatto. E’ la persona che si identifica col sentimento che prova. Nel romanzo, lo scurnuso è anzitutto una statuetta. Una creazione meravigliosa di un giovane artigiano, che in essa ha voluto rappresentare la persona che si è presa cura di sé nella fase più critica dell’infanzia, ma che, strano a dirsi - specialmente in queste righe - non ha provato apparentemente vergogna quando l’ha mandato via di casa, non avendo più i mezzi per poterlo sostentare. Ma lo scurnuso del romanzo è anche una persona, Tommaso Jannacone, un “figuraro” napoletano che alla fine del ‘700 modella pastorelli per il presepe e altre statuette per la parte nobile e meno nobile della città, morto povero a causa della malattia che non gli ha più consentito di lavorare la creta. E’, dunque, l’uno e l’altro insieme.
La trama vuole che, quando nella vita di Jannacone l’avanzare della malattia cominciava a impedirgli di lavorare, si era fatto avanti l’orfanello Sebastiano, il suo apprendista, avuto come ricompensa per un lavoro fatto alle monache di Caserta, dimostrandosi subito capace dell’arte dei figurari. Dopo pochi anni, però, sebbene fra i due si fosse creato un rapporto stretto, paragonabile solo a quello fra un genitore e il proprio figlio, Sebastiano era stato dato come garzone in una bottega molto più avviata, in cui il suo estro e la sua bravura sarebbero servite molto di più. Di punto in bianco. Senza vergogna. Perché diceva Jannacone a Sebastiano che lì avrebbe imparato meglio il mestiere e, in quel tempo di carestia, col suo lavoro avrebbe guadagnato di più lui e avrebbe dato da mangiare anche a sé.
Il fatto è che Jannacone in realtà si era vergognato, e aveva provato dispiacere per il distacco, avendo dovuto solo recitare la parte di chi non presta ascolto ai sentimenti, per non intimorire il giovane e non fargli perdere l’occasione della sua vita. Sebastiano, dal canto suo, se ne sarebbe accorto tardi, troppo tardi, quando ormai quello era morto. Per ricordarlo, però, lo rappresentò come sapeva, con la sua arte, in una statuetta, afflitta dal dolore, con le mani fasciate e lo sguardo triste e chiuso in sé, appunto, come chi prova vergogna di ciò che ha fatto.
Dopo più di un secolo e per la sua bellezza, la statuetta passa per le mani di collezionisti di presepi, gente colta e sensibile che lo tiene, se non come il pezzo più pregiato, certamente come il più espressivo e bello della collezione. In pieno secondo conflitto mondiale, si afferma che, di sicuro chi lo aveva confezionato doveva avere avuto un gran talento, mentre il mistero sulla bottega da cui fosse giunto ne incrementa l’interesse. Nell’ignoranza sulle origini e la provenienza della statuetta, gli si attribuisce un nome, che non guarda al suo mestiere o alla sua condizione fisica, ma all’espressione del suo volto. Ed è per questo che sarà chiamata lo scurnuso.
Giunti ai giorni nostri, nel finale del libro, lo scornuso finisce nelle mani di un ricco cittadino, che pensa di fare cosa gradita regalandolo alla figlia, mentre lei sembra rimanere totalmente indifferente alla cosa.
Nonostante la sua brevità, il libro si lascia apprezzare, soprattutto per la sua eleganza e lo stile sopraffino di cui, oramai, l’autrice ci ha dimostrato essere capace. Fra le sue pagine, che corrono veloci come i piaceri più sublimi ci sfiorano la fantasia, si coglie un sincero omaggio ad un popolo antico e meraviglioso, singolare ed originalissimo, come quello napoletano, con le sue tradizioni, le sue leggende e la sua atavica vitalità, che attraversa le strade delle viuzze fino ad arrivare davanti ai cancelli di maestose dimore storiche reali.
Il posto d’onore, però, è lasciato alla bellezza e all’arte in generale, la sua scoperta, il fremito che sa generare, le invidie e il pizzico di follia che accompagna chiunque ne rimanga affascinato. Tutto ciò, forse, con l’unico rammarico di assistere, al giorno d’oggi, alla decadenza di una società in cui persino il bello viene assorbito dal concetto di ricchezza.

martedì 29 novembre 2011

Marcello Simoni, “Il mercante di libri maledetti”.

Quand’ero ancora a metà lettura del “mercante di libri maledetti”, mi sono imbattuto, per un caso fortuito, nelle voci di alcuni lettori che lo avevano già terminato e che storcevano non poco il naso, scambiandosi commenti fra di loro. Il mio dispiacere è stato grande, perché, arrivato al punto in cui ero, vivevo ancora nell’illusione di vedere intensificare gli eventi e complicare la trama, fino al punto da aspettarmi di veder divenire l’opera così come viene presentata (nella quarta di copertina): “enigmatica come Il nome della rosa” e “avvincente come I pilastri della terra”.
Le premesse, del resto, c’erano tutte, sebbene ogni azione complicante ed ogni nuovo nodo trovava presto la sua soluzione, svilendo un po’ la prerogativa di ogni thriller di accrescere il pathos ad ogni pagina ed incalzare il lettore, tenendolo sveglio la notte a sfogliare le pagine di un mistero che diviene sempre più buio e complicato man mano che va avanti. Per intenderci, mi aspettavo il colpo di scena che sovvertisse tutte le certezze acquisite fino a quel momento, oppure il colpo di genio che mettesse insieme tutto quel ch’era stato seminato fin lì e gli desse una nuova direzione. Invece la trama ha continuato ad andare avanti, liscia, senza offrirmi grandi suggestioni né suscitarmi particolari curiosità.
La storia si svolge in pieno medioevo, all’inizio del XIII secolo, epoca dei Comuni e delle grandi monarchie europee, ma anche età d’oro delle grandi cattedrali cristiane che, per venire edificate ed crescere di prestigio, richiedono ingenti risorse economiche alle masse. A tal fine, viene sempre più sfruttato il culto delle reliquie sacre, tanto che il periodo conosce un vero e proprio commercio, che spazia per tutto il mondo cristiano, da poco allargatosi per via delle crociate, di frammenti d’ossa o di vesti ed oggetti appartenuti a martiri, beati e santi.
In questo contesto si muove il mercante Ignazio da Toldo, uomo colto e tenace, protagonista della storia, il quale, dopo esser ritornato dalla Terra santa, viene coinvolto nella ricerca dell’unica copia conosciuta dell’Uter Ventorum. Con questo titolo si designa un libro a metà strada fra il sacro e il profano, la scienza e la religione, che viene visto, o meglio, viene idealizzato come il mezzo più diretto, ma, non di meno, immorale, per apprendere la stessa sapienza degli angeli ed, eventualmente, farne uso per accrescere il potere personale di chi lo legge.
La ricerca dell’Uter Ventorum parte da una iscrizione, suddivisa in quattro parti, che Ignazio trova sulla tomba del suo amico e ultimo possessore certo del libro, Padre Vivïen de Narbonne. Sulla scia di Ignazio e di due suoi fidati amici, che lo accompagnano in quell’Europa di cattedrali e facili suggestioni, però, c’è un gruppo di cavalieri che lascia morte e spavento ad ogni apparizione e che se ne vuole appropriare per primo. La ricerca diventa, quindi, quasi una fuga senza soste, intervallata solo dalle tappe forzate che l’enigma iniziale impone al mercante.
A fronte di una traccia che, davvero, appare suggestiva e avventurosa, mancano, però, purtroppo, un’appropriata scelta dei tempi, una ottimale caratterizzazione delle figure ed una più ampia ambientazione degli avvenimenti. E’ vero che si tratta di un’opera prima, ma personalmente, dopo aver anche appreso che il libro ha spopolato in Spagna, ov’è stato pubblicato prima che da noi, mi aspettavo di più, molto di più.
Peccato!

lunedì 21 novembre 2011

Alessandro Baricco, “Mr Gwyn”.

Negli ultimi due anni ho evitato di commentare un solo libro tra quelli che ho letto. Era Emmaus, di Alessandro Baricco. Non l’ho fatto volutamente, perché ne avevo avuto un’impressione negativa. Insomma, non mi era affatto piaciuto, e non mi andava di infangare il nome di uno degli autori che apprezzo di più. Ciò, senza dire che, leggendo qualche recensione qua e là su Emmaus, saltavano fuori sinceri apprezzamenti ed elaborate riflessioni che mi facevano capire, forse, di non essere stato io all’altezza dell’opera, di non averla ben compresa, e che dunque avrei fatto meglio a rileggerla, prima di dire la mia. E’ passato molto tempo, ma Emmaus giace ancora intatto dove l’ho riposto l’ultima volta. Nel frattempo, però, lo scorso 3 novembre, è uscito Mr Gwyn, che mi ha incantato. Mr Gwyn è un personaggio all’apparenza insondabile e dagli atteggiamenti inverosimili. Uno di quelli che, visti di sfuggita, vengono sommariamente bollati come asociali, alieni o, più frettolosamente, come pazzi. Più da vicino, però, divengono degli eroi, delle calamite da cui non ci si può staccare. Sono delle vere metafore viventi. Dei santi, perché hanno conosciuto la verità e non si aspetta altro che potersi abbeverare alla fonte del loro sapere.
Egli è autore di romanzi e vanta alcune pubblicazioni di successo sulla stampa periodica, ma arriva un giorno in cui decide di non volere più fare il suo mestiere, con grande disappunto del suo agente ed unico amico, e smette di farlo. Eppure, la smania per la scrittura lo coglie impreparato in ogni momento, finché non decide che qualcosa dovrà pur fare per poterla tenere a freno. Da ciò, nasce in lui l’idea di fare il copista, ma alla sua maniera. Decide cioè di copiare per iscritto la gente o, meglio, di farne dei ritratti che non prevedano tele, colori e pennelli, ma si rivelino attraverso la scrittura. L’esperimento sarà al tempo stesso un fallimento e una rivelazione, perché, da un lato, il suo intento di non volere più scrivere in forma creativa ed ingegnosa verrà, giocoforza, svilito e, dall’altro, ogni ritratto rivelerà l’essenza di ogni essere umano, che in sé non figura quale protagonista, ma come storia. La storia di un romanzo, di un racconto, di un’idea che vive nelle pagine di un libro raccontato da altri. Non una fine, ma un divenire proteiforme.
Nel crescendo che la storia incarna in sé, svolgono un ruolo fondamentale i due personaggi minori del racconto, aiutanti del protagonista a districare la matassa che porti infine allo scopo del romanzo. Si tratta dell’agente-amico e dell’assistente di quest’ultimo, Rebecca, i quali, contribuiscono anche ad alleggerire la prosa, rendendola adatta ad essere letta da chiunque, sia pur con spirito diverso. Inoltre, si assiste al tocco d’artista che dà vita e corpo ai pensieri del protagonista, facendogli assumere sembianze umane che fungono da sprono, da monito e da ultimo persino da compagnia.
Ho letto Mr Gwyn con vero piacere. Leggerlo è stato un po’ come tornare a casa, dopo un lungo viaggio attraverso i mondi più vari, perché lo stile inconfondibile di un maestro della letteratura contemporanea, qual è Baricco, mi è apparso subito evidente, sin dalle prime pagine. E poi ho ritrovato il suo fare accattivante che, nel coinvolgerti, ti porta a dire “si” al suo credo, alle sue regole ed al suo obiettivo finale.
Dunque, non mi rimane che dire, bentornato Baricco!

mercoledì 16 novembre 2011

Stefano Benni, “La traccia dell’Angelo”.

La traccia dell’angelo” è la storia del viaggio onirico, fantastico e drammatico al tempo stesso, in cui sprofonda Morfeo, il protagonista che, già all’età di otto anni, si trova per la prima volta a tu per tu con la morte. Nella notte di natale del 1955, infatti, al bimbo che aveva avuto appena il tempo di innamorarsi della neve che cade, dell’albero addobbato a festa, dell’attesa di aprire i pacchi regalo disposti ai suoi piedi, cade in testa una persiana, facendolo quasi schiattare. Anche se si riprenderà in poco tempo, questo evento sarà considerato, nel corso di tutta la sua vita, alla base dei suoi mali veri o immaginati. A questo scopo, nel racconto, i medici ignoranti e senza scrupoli divengono metafora di un mondo egoista e profittatore, in cui perfino le debolezze umane, le paure, sia pur passeggere o trascurabili, formano oggetto di speculazione economica.
E’ una sintesi rappresentativa del mondo d’oggi. Un quadretto a grosse pennellate in cui, quale unica e neanche misera, ma certamente realistica, consolazione, però, sembra esservi ancora spazio nella battaglia del bene contro il male. E’ un messaggio di speranza.
Morfeo impara a sue spese, che nella lotta fra il bene e il male, non può farsi affidamento su un essere superiore, fuori dalle parti, estraneo alla scena o, comunque, incapace materialmente di potervi intervenire, ma che si può dare quantomeno ascolto alla voce di un angelo buono. L’angelo buono non è deus ex machina e come tale non può modificare il corso delle cose, né può farsi sempre e comunque affidamento sulla sua presenza, tuttavia può segnare una direzione o, col titolo del libro, può indicare una “traccia”.
La traccia da seguire che l’angelo buono indica a Morfeo è quella di lasciare una sola goccia di sé in questo mondo, “una goccia in più che fa andare avanti il mondo”, che evidenzi le brutture del male, specie al raffronto con le buone conseguenze del bene, poiché - sembra dire - anche se una sola goccia risulta essere incapace di opporsi da sola al male, arriverà il giorno che tutte le gocce messe insieme potranno avere un peso tale da poterlo contrastare efficacemente. O, come dire, ancora, che il bene deve essere costruito e voluto da tutta un’intera collettività, se poi la stessa vuole goderne degli effetti. E, all’interno della collettività ci si deve spingere l’un con l’altro al bene delle cose, alla semplicità, alla negazione della prevaricazione del più forte, ai giusti equilibri fra le parti.
Con questa traccia (che può essere letta anche come un suggerimento, una linea guida, o per chi non vuol riflettere, anche un insegnamento), Morfeo si sveglia dal suo lungo viaggio onirico ritrovandosi di nuovo un bambino, nella notte di natale del 1955. Una persiana cade e per poco non lo colpisce in testa. La sua testa è salva e così anche la sua vita. Da grande potrà fare quello che desidera, raccontare delle storie ispirate al bene e metterle per iscritto. Sarà questa la sua goccia in più che fa andare avanti il mondo. Il suo contributo alla causa del bene.
Mi inchino di fronte all’autore che amo tanto, per averci regalato una sua ennesima perla, racchiusa in uno scrigno tanto piccolo ma, al tempo stesso, tanto ricco di spunti di riflessione. Non per ultimo, colgo con ammirazione quel tanto di autobiografico che sembra venir fuori fra le righe (Benni è nato nell’agosto del 1947 e nel natale del 1955 aveva otto anni), oltreché l’intento dell’autore reale di porsi in contatto diretto col lettore implicito, sottoponendo al giudizio di quest’ultimo la sua intera vita da narratore, inventore di favole e personaggi, nonché quello di farsi egli stesso angelo buono, indicatore d’una traccia, per chi lo sta a sentire.
Esemplare.

martedì 15 novembre 2011

Herman Koch, “Villetta con piscina".

Basta guardare le foto di Herman Koch per capire dal suo sguardo il sarcasmo sconfinato di cui è capace. Il suo stile è, infatti, disinibito e tale da raccontare la società moderna così come è, senza mezze misure e senza tanti giri di parole. In altri termini, alla vista di quelle fotografie, Koch appare come il pazzo a cui spesso gli autori fanno ricorso per dire cose che, altrimenti, sarebbe sconveniente rivelare; con l’unica, ma sostanziale differenza, che, in questo caso, il cosiddetto pazzo non è un protagonista della storia, ma il suo stesso autore.
Naturalmente, le mie parole non vogliono contenere nulla di offensivo, ma vogliono essere un plauso semmai ad una personalità talmente sicura e penetrante da riuscire a liberare la realtà persino dalle più piccole ipocrisie in cui ci troviamo tutti quanti immersi e delle quali abbiamo finito per non renderci più conto.
Villetta con piscina” è una prova lampante della personalità di chi lo ha concepito.
Il protagonista, Marc Schlosser, è un medico che recita, nel vero senso della parola, la sua parte. Conosce il suo mestiere e sa, quindi, che, ad esempio, se per una visita generica occorrono pochi minuti, a volte anche un solo sguardo, invece, per far colpo sul cliente e ottenere consensi e fama, servono almeno venti minuti e, se ciò non basta, anche la necessità di spingere le proprie dita in anfratti del corpo di certo poco eleganti. In tal modo il paziente ne risulterà entusiasta!
Marc racconta in prima persona la vicenda che ha maggiormente segnato la sua famiglia a far data da quando ha cominciato a frequentare un suo assistito, l’attore Ralph Meier, e sua moglie Judith. Può dirsi che il romanzo sia tutto una grande analessi (o, se si preferisce, un unico grande flashback), dato che i fatti sono avvenuti tutti prima di essere raccontati ed ora il narratore li sta rielaborando per una propria finalità strumentale. Infatti, Marc è stato convenuto innanzi alla commissione medica per rispondere della morte di Ralph Meier, dovuta alla degenerazione di una malattia che, presa in tempo, poteva essere curata. A lui, in sostanza, si imputano colpe che vanno ben oltre il mero errore medico.
Il racconto riporta i momenti di svago apparente che Marc e la moglie Caroline, con le figlie, Julia e Lisa, hanno trascorso l’estate precedente con i Meier e i loro figli, Alex e Thomas, ed in compagnia dell’amico regista Stanley Forbes e la sua giovanissima amante, Emmanuelle. Lì, trovano posto la fiducia tra coniugi e il tradimento, l’amore per i figli e la difficoltà di stabilire un contatto con loro, la cura dei propri cari e il desiderio di vendetta, ma sopra ad ogni cosa, domina la scena l’inclinazione umana a nutrirsi di apparenze.
Ralph si presenta agli occhi di Marc come un maniaco sessuale, Stanley un approfittatore del suo ruolo di cercatore di talenti, i figli tutti troppo piccoli per essere lasciati da soli, ma troppo grandi da risultare persino affascinanti agli occhi degli adulti o, peggio ancora, in certi casi, oggetto del loro desiderio. Caroline, Judith ed Emmanuelle impersonano il ruolo delle mogli felici, con nel cassetto, però, il sogno di trovarsi un amante che le possa capire.
E’ difficile aggiungere un pezzo in più, sia pur microscopico della trama, perché rischierebbe di rivelare la suspense che l’accompagna. L’autore, infatti, è stato tanto bravo da riportare, nelle prime pagine, l’epilogo della fabula, dedicandosi poi, nell’intera parte restante del libro, a scandagliare gli antefatti, prendendo spunto un po’ dagli avvenimenti ed un altro po’ dalle riflessioni a voce alta del suo protagonista. Tutto ciò, pretendendo una compartecipazione dal lettore implicito, al fine di poter giungere ad una conclusione che, altrimenti, si direbbe monca. Di certo, quel che si può dire, è che vi è un crescendo di avvenimenti ed un intensificarsi di fatti che tiene sempre alta l’attenzione e la voglia di sapere come andrà a finire.
Nel mio intimo sono convinto di aver letto un ottimo romanzo, come non se ne leggono di frequente. Così come - devo pur dire - ho trovato l’opera ben più apprezzabile del blasonato “la cena”, con cui l’autore si è fatto conoscere al grande pubblico e che al confronto, per quanto originale e penetrante, mi è risultato un po’ troppo artefatto e lento.