venerdì 30 settembre 2011

Siba Shakib, “Il sussurro della montagna proibita”.

L’egemonia conquistata da alcuni stati nel corso del ventesimo secolo, lo sappiamo tutti, è il frutto principalmente dello sfruttamento delle colonie e dell’ingerenza approfittatrice in paesi terzi. La splendida storia narrata nel sussurro della montagna proibita descrive la presa di coscienza da parte del popolo iraniano dell’uso distorto, egoista e usurpatore che proprio quei paesi, quali l’Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti d’America, hanno perpetrato in suo danno.
In realtà, la storia si presenta come un appassionante romanzo d’avventura che narra la lunga intera vita del suo protagonista principale, un uomo di origini umili e senza una prospettiva migliore di fare il servo della gleba, Eskandar. Egli nasce in un villaggio così povero del sud dell’Iran che non ha nemmeno un nome. E’ il 1901. Ancora giovanissimo, Eskandar si rende conto che il suo villaggio non è com’è rappresentato nei racconti degli anziani, ossia florido e con un fiume che lo attraversa; anzi, proprio la penuria d’acqua rischia adesso di farlo scomparire. Gli animali muoiono, i bambini si ammalano, le piante non crescono e il re sembra disinteressarsi di tutti questi problemi. Dapprima, gli abitanti del villaggio riferiscono la colpa della carestia e della miseria a sé stessi, dato che pensano che sia una punizione di Dio. Poi, solo dopo che, violando i precetti dei religiosi, Eskandar scala la montagna proibita e scopre che sul suo altopiano i farangi, ossia gli stranieri, stanno scavando buche ed hanno acqua e cibo a volontà, tanto da darne ai propri cani, si scopre che il vecchio fiume è stato deviato e che le cause della loro carestia proviene proprio da lì. Chi ha dato il permesso ai farangi di scombussolare l’equilibrio naturale nel quale era ricompreso il villaggio di Eskandar è il re, il quale, si è solo illuso di potere riceverne benefici, mentre, di fatto, è il primo degli sfruttati. Sull’altopiano della montagna proibita, vicino Abadan, nel sud dell’Iran, infatti, gli Inglesi hanno trovato il più grande giacimento di petrolio fino ad allora conosciuto, fondando l’Anglo-Iranian Oil company. Compagnia che di inglese ha le macchine e le risorse economiche e di iraniano la sola forza lavoro sottopagata. Inizia qui la vera avventura di Eskandar, che diviene dapprima amico per necessità dei farangi, per poi discostarsene e finire per odiarli, man mano che, nel corso della sua vita assume la consapevolezza di ciò che fanno ai danni del suo paese. Quelli, infatti, pur di ottenere per sé l’oro nero, hanno plasmato le genti in modo da farsi amare o da metterle in lite, al fine di fungere da liberatori, da guaritori delle lotte intestine. In ciò, peraltro, godendo dei favori dell’Iran stesso, per combattere il “nemico comune” per eccellenza, la Russia, anch’essa interessata ai giacimenti di petrolio. Eskandar fugge, diventa ricco, entra nelle grazie dei potenti e finisce di nuovo povero, in un divenire continuo in cui, da giovanissimo, diventa giovane, maturo, e poi anziano e stanco. Nella sua vita fa il cantastorie, mille mestieri artigiani, il fotografo e l’impiegato negli uffici di governo e persino la spia, ma quel che accompagna tutta la sua crescita sono le storie che la gente vive giorno per giorno; le storie che spiegano come l’ignoranza del popolo ha reso l’Iran succube dei paesi evoluti ed economicamente forti; le storie di un popolo che pur umiliato, sfruttato, involgarito dalle influenze esterne, imbarbarito dalle guerre alimentate da paesi stranieri per un suo esclusivo tronaconto, ha avuto sempre una grande coscienza sociale, ha sempre saputo rialzarsi e credere di potere ottenere la libertà, un governo ed un’economia propri; le storie che lui custodisce gelosamente, dopo averle scritte e rappresentate con fotografie, “affinché la memoria non venga perduta”, e che lascia in eredità ai suoi discendenti, perché sappiano bene da dove vengono e da chi si devono guardare. Intorno agli anni ‘50, quando sembra che il sogno iraniano diventi realizzabile, però, si profila all’orizzonte la più grande minaccia abbia mai subito: il sopraggiungere sulla scena degli Stati Uniti d’America.
Un libro già scritto nella storia, ma abilmente rappresentato dall’autrice. Encomiabile il modo di entrare nel vivo dell’animo del popolo iraniano attraverso la vita privata del protagonista, le difficoltà personali incontrate nel sentiero della vita, le conversazioni con la moglie, la figlia, la nipote, gli amici. Sullo sfondo le notizie vere di cronaca in cui si avvicendano il violento Reza Khan, il disgustoso Churchill, l’apostolo Truman, il pianificatore Roosevelt, il fantoccio Reza Pahlavi, il rivoluzionario Khomeyni e il presidente senza scrupoli, Bush.

martedì 20 settembre 2011

David Nicholls, “Le domande di Brian”.

Dopo la pubblicazione in Italia di “Un giorno” (che io ho recensito in questo blog), quest’anno, la Beat Edizioni ha pensato di fare un regalo al pubblico italiano andando a rispolverare il romanzo di esordio di David Nicholls, dal titolo “Starter for ten”, uscito per la prima volta nel Regno Unito nel 2003. A quasi un decennio di distanza, dunque, possiamo avere il piacere di ripercorrere i primi passi di un autore che, se non è ancora considerato fra i grandi, certamente lo sarà presto.
Il libro, in Italia, è stato intitolato “Le domande di Brian” ed è un regalo, davvero, assai gradito. Brian è un giovane studente al suo primo anno di università. Orfano di padre e figlio unico di una madre molto apprensiva, ha grandi aspettative dalla sua esperienza nel nuovo ciclo di studi; aspettative che non riguardano solo il raggiungimento della laurea ed una conoscenza più elevata, ma che interessano specialmente la sua sfera privata, il modo di stare al mondo e di confrontarsi con gli altri. E’ il 1985 in una Inghilterra in cui, oramai, messa alle spalle persino la guerra nelle Isole Malvine (per i filobritannici, nelle Falkland), la preferenza per l’uno o per l’atro partito politico comincia ad apparire più una presa di posizione fine a sé stessa che non l’adesione ad un vero ideale nel quale riconoscersi e col quale schierarsi proficuamente. I giovani universitari, però, sentono molto il senso dell’appartenenza e si identificano con i conservatori o coi liberali, confrontandosi in una dialettica fin troppo spesso piena di ipocrisie, che li contrappone. Essere moderati, o ancor meglio, com’è nel caso di Brian, degli indecisi (o degli imbranati) può significare trovarsi nel mezzo, ossia fuori luogo e incapaci di essere ascoltati. Lo stesso avviene per chi, come ancora una volta Brian, nel rapporto con l’altro sesso, ha raggiunto la maturità senza avere alle spalle un sufficiente bagaglio di esperienze. Gli altri sembrano tutti consci sul da farsi, aderendo ad uno o ad altro modo di essere, mentre chi è rimasto indietro non può che fare affidamento sulle sue sole forze per riemergere e riportarsi alla pari con gli altri. Nello sforzo di comprendere il mondo che lo circonda, di non volere deludere chi gli sta a cuore né fare salire nessuno in cattedra, Brian completa il suo processo di maturazione, verificando però sul campo che il cammino verso una nuova fase della vita, non solo è difficile, molto più difficile di quanto non abbia immaginato prima, ma rischia anche di rendere vano quel tanto o quel poco di buono che ha creato fin lì.
Chi ha già letto “Un giorno” ritroverà lo stile inconfondibile del suo autore, senza peraltro doversi accontentare del linguaggio più farraginoso o meno eloquente tipico di uno scrittore ancora incapace di sfruttare al meglio le sue doti. L’opera anzi, si caratterizza per la completezza e l’accuratezza dei particolari ed è dotata, se vogliamo, anche di una raffinatezza che è generalmente tipica di chi conosce bene la sua arte e la sa trattare con disinvoltura.
Inoltre, e soprattutto, ritroverà la capacità di Nicholls di saper far crescere i suoi personaggi, descrivendo il divenire dei caratteri che sono loro propri. Del resto, questo è il romanzo di un’evoluzione, di una crescita interiore, di un confronto con la realtà nel quale un passo avanti in una direzione può dire farne due indietro in un’altra e viceversa. Direi che è la perfetta opera anticipatoria di “Un giorno”, la bozza (perfettamente riuscita) di un’opera ancor più grande e di più difficile composizione.
Quale opera introspettiva, “Le domande di Brian” non poteva che essere narrata in prima persona dal suo protagonista, al quale l’autore, che per lui ha strategicamente pensato, con effetto, al tempo presente, fa recitare la parte con numerosi discorsi diretti, frammezzati da manifestazioni interiori del pensiero, il più delle volte dubbi, che però non si succedono mai in maniera convulsa. Gli altri personaggi entrano nella scena o perché si esprimono anche loro in maniera diretta o perché Brian li ritrova dinanzi a sé e ne interpreta gli atteggiamenti.
Ironico, a tratti persino comico, profondo più di quanto non s’immagini a prima vista e stramaledettamente vivo, è un libro che consiglio a tutti, soprattutto perché, voltata l’ultima pagina, chiunque non può trovarsi che a riflettere su quanto di Brian c’è in sé.

giovedì 15 settembre 2011

Vanessa Diffenbaugh, “Il linguaggio segreto dei fiori”.

In testa alle classifiche dei libri più venduti in questo periodo c’è il romanzo d’esordio di una tal Vanessa Diffenbaugh, dal titolo “il linguaggio segreto dei fiori”.
Forse neanche la scrittrice se lo aspettava, ma prima ancora dell’uscita, avvenuta in contemporanea mondiale lo scorso 5 maggio, si era intuito che il libro avrebbe avuto un enorme successo, per la felicità soprattutto delle case editrici che sono riuscite ad aggiudicarsene i diritti. Purtroppo (o per fortuna?) anche il mondo della letteratura è fatto così: quando un prodotto (che nel nostro gergo diremmo opera letteraria) mostra di avere le credenziali per piacere al grande pubblico (o per meglio dire, al lettore medio che non vuole faticare ad entrare nella mente dell’autore, per carpirne il pensiero) e, soprattutto, possiede quel tanto che basta per dare l’illusione di leggere una grande opera, lo spirito imprenditoriale dei produttori di carta stampata si esalta fino al punto da creare esso stesso arte. L’arte più ammaliante e persuasiva che esista: la pubblicità. Il linguaggio segreto dei fiori è un caso letterario. La sua uscita (ripeto, in contemporanea mondiale) ha costituito un evento. E tutto ciò grazie a chi per primo ha avuto l’intuito di poter suggerire (alla sua maniera) di leggere un libro di sicuro piacere ad un numero sterminato di persone. Io sono quel che ho donato, diceva il poeta soldato. Ma loro non donano niente a nessuno. Loro vendono. E quindi sono quel che hanno venduto. Dunque, adesso, sono ricchi e festanti.
Chissà cosa pensava l’autrice mentre si dedicava alla scrittura del linguaggio segreto dei fiori? Io la immagino a rubacchiare spunti un po’ di qua e un po’ di là, ad attingere dalle esperienze di vita vissuta e a mescolare il tutto con pazienza e molta fantasia. Il risultato, del resto, è un mix perfetto di psicologia spiccia e sociologia mistificata destinato inesorabilmente, dopo un ampio peregrinare, verso un lieto fine all’americana.
Mi sento, è vero, un po’ come un pesce caduto nella rete, pur dopo averla vista in lontananza ed aver tentato di evitarla. Ma visto che ci sono, e che nella lettura ho riversato anche una buona dose di interesse, non posso adesso che dirvi gli aspetti che me l’hanno fatta piacere.
Intanto, se dovessi conferire un premio a quest’opera-prima glielo darei per l’originalità. Accanto al caso umano che è Victoria, la protagonista, incapace di relazionarsi col prossimo e che a diciotto anni deve lasciare la casa famiglia in cui ha da sempre vissuto; eccetto il vaghissimo monito sociale rivolto contro un sistema di gestione dei minori orfani o abbandonati assolutamente indecente; viste e riviste le storie d’amore e di amicizia che cominciano col piede sbagliato e che col tempo si aggiustano per poi solidificarsi; infatti, in questo libro, spicca l’attenzione verso il significato che, in epoca vittoriana, era stato attribuito alle piante e ai fiori in particolare, ma che poi col tempo è andato dimenticato. E’ ciò ad essere originale. Tutti i protagonisti della storia sono dei veri amanti dei fiori e, si può dire, la loro vita ruota attorno ad essi e si consuma e si trasforma grazie ai fiori. Grazie soprattutto al fatto che hanno capito l’importanza del messaggio che ogni bocciolo, ogni ramo d’albero o ogni corteccia reca con sé.
Victoria, ad esempio, non è incapace di amare, ma sa farlo solo alla sua maniera e, dato che non si è mai raffrontata con la società, le manca l’esperienza giusta per far giungere agli altri il suo sentimento. Come dire, in sostanza, che le manca lo strumento indispensabile del linguaggio, della comunicazione, che troverà, però, col tempo, proprio attraverso i fiori.
Poi, devo anche aggiungere che la composizione appare esemplare e che anche lo stile si fa apprezzare, soprattutto perché la trama è narrata in prima persona da Victoria, che nel suo monologo interiore rivela la vera difficoltà ed i pericoli che corre una persona come lei. Certo, in alcune parti, specialmente verso la fine, si ha la sensazione che l’autrice abbia temuto di dare alle stampe un libro troppo scarno e che si sia affannata ad allungare un po’ il brodo. Ma, nel complesso, nonostante queste macchinazioni, chiudendosi il sipario ci si trova comunque con un sorriso convinto, in uno stato di piacevole, ma sia pur moderato, appagamento.

mercoledì 31 agosto 2011

Sara Gruen, “Acqua agli elefanti".

 Acqua agli elefanti è la rocambolesca avventura di Jacob Jankowsky, un giovane veterinario divenuto orfano al completamento degli studi, che vive la sua prima esperienza lavorativa all’interno di un circo errante, nell’America degli anni trenta, afflitta dalla grande depressione.
L’autrice afferma, nella sua nota a corredo dell’opera, di avere compiuto degli studi approfonditi sugli artisti, gli animali, gli spettacoli e più in generale sui circhi di quell’epoca e di essersi ispirata alle vicende che li hanno riguardati e che sono rimaste celebri per la loro eccezionalità, anche quando si sono risolte, a volte, in fatti drammatici. E, in effetti, non soltanto l’ambientazione ma perfino gli atteggiamenti dei protagonisti o le modalità con cui la storia si evolve, lasciano bene immaginare il clima di apparente giovialità e tensione verso la perfezione che doveva invadere i villaggi al passaggio del circo, al cospetto dei grandi dissapori e delle difficoltà economiche che si vivevano invece al suo interno.
In questo clima, Jacob vive la sua duplice personalità di uomo dallo spirito altruista e di giovane inesperto di fronte alle vicissitudini della vita, all’interno peraltro di un mondo che non è il suo, nel quale è finito per caso e dal quale non vuole più separarsi, nonostante le sue contraddizioni e le sue inspiegabili violenze. Mentre, da un lato, infatti, il circo gli offre un’opportunità di lavoro della quale potrebbe fare a meno, dall’altra, perderebbe gli amici, a cui si è stretto, gli animali, a cui si è andato affezionando e, soprattutto, Marlena, la star dello spettacolo, di cui si è decisamente innamorato. Peccato solo che Marlena è già sposata con August, che per di più è il direttore e domatore del circo, oltre che uomo tanto capace di galanterie quanto di essere spietato e senza scrupoli.
Una storia avventurosa, quanto intrigante, piacevole da leggere che passa dall’humour alla tensione in un saliscendi più che equilibrato. Bello, anche se privo di una vera e propria morale che vada oltre lo spirito americano dell’amore che trionfa sopra il male e della quiete dopo la tempesta o, se preferite, di un tanto atteso, quanto scontato, lieto fine.
Un libro così, che oltretutto già nello stile, si avvicina molto ad una sceneggiatura cinematografica, se non fosse solo che è narrato in prima persona dal protagonista principale, non poteva che finire, com’è stato, trasposto in un film, che ha preso il titolo di “come l’acqua per gli elefanti” (con Robert Pattinson, Reese Witherspoon e Cristoph Waltz. Il film io non l’ho (ancora) visto, anche se lo immagino uno di quelli con grandi coreografie, innumerevoli quantità di personaggi che vanno e che vengono in un tripudio di colori, suoni e musiche che fanno lievitare lo spirito.
Altro da dire non c’è, per un libro che vuole solo intrattenere e niente più, se non per dire che riesce perfettamente nel suo intento.

martedì 30 agosto 2011

Jane Borodale, “La ragazza del libro dei fuochi”.

In una giornata d’estate in cui il cui caldo dà alla testa, mi trovo a commentare un romanzo ambientato nella Londra del XVIII secolo, stretta nella morsa del gelo. Si tratta della ragazza del libro dei fuochi, di Jane Borodale, che è valso all’autrice il podio (ma il gradino più alto) all’Orange Prize 2010, nella sezione destinata ai romanzi d’esordio. Agnes Trussell, la protagonista, è una ragazza ancora molto giovane che ha dovuto abbandonare la sua casa del Sussex per trovare fortuna a Londra. La sua partenza ha avuto più di una ragione. In primo luogo, quella di sfuggire alla povertà e privare, così, di una bocca in più da sfamare la sua già numerosa famiglia; inoltre, quella di far perdere le sue tracce, per evitare di finire nelle grinfie della legge, nel caso in cui fosse scoperto che aveva sottratto alcune monete d’oro alla vicina di casa, dopo averla trovata morta; ma soprattutto, infine, di nascondere la gravidanza che le è stata provocata da un ragazzo pastore, che l’aveva posseduta quasi contro la sua volontà, per non venire così costretta a sposarlo e passare la vita con lui.
Nella grande città, non senza fingere sulle sue origini e sulle sue condizioni di provenienza, Agnes riesce a trovare presto una sistemazione ragguardevole, come apprendista, presso John Blacklock, un fabbricatore di giochi d’artificio. Blacklock, com’è chiamato, col suo cognome, è un personaggio singolare e misterioso che, pur nei suoi silenzi e segreti ben celati, le fa da maestro, da guida spirituale e forse anche da padre. Ciò, naturalmente, oltre a garantirle un vitto, l’alloggio e uno stipendio. In tutto il periodo che vive al fianco di Blacklock e delle sue tre domestiche, Agnes tiene nascosta la sua gravidanza, sebbene, col tempo, le risulti sempre più difficile. Per questo motivo, cerca di pianificare un modo per evadere, sia pur a malincuore, dal mondo che l’ha accolta, fallendo però ad ogni suo tentativo. D’altra parte, al di là delle circostanze sfortunate che non fanno andare in porto i suoi piani, quel che finisce maggiormente per trattenerla è il desiderio crescente di conoscere i segreti dei giochi pirotecnici creati, inventati, studiati e sperimentati dal suo mentore. L’obiettivo di quest’ultimo, e poi anche il suo, è infatti quello di dare colore ai fuochi sparati in aria, e con esso conferire a chi li osserva le suggestioni che gli stessi sanno evocare.
Dal 1996, l’Orange prize celebra - come si legge nel sito ufficiale - l’eccellenza, l’originalità e l’accessibilità ai componimenti letterari delle donne di tutto il mondo (che siano però pubblicati almeno nel Regno Unito) e il libro esordio della Borodale è senz’altro originale e sicuramente ottimo da un punto di vista linguistico. Anzi, proprio la disinvoltura dimostrata nel linguaggio adoperato, unito ad uno stile narrativo piuttosto elegante (per un autore esordiente), costituiscono il motore del romanzo, offrendo così al lettore interesse verso una storia che, per contrapposto, manca di veri colpi di scena o di un sufficiente susseguirsi di eventi che gli diano movimento, non essendo peraltro nemmeno ricco di introspezioni o ampie descrizioni ambientali. Quel che difetta, invece, è il carattere dell’eccellenza ricercato dal premio sfiorato, a parer mio perché manca di una vera e propria morale, concentrandosi piuttosto sulla fluidità di una trama che restituisce, infine, al lettore tutto ciò che, sin dalle prime pagine, si immagina di vedere realizzato. Come dire, in sostanza, che è una bella lunga storia, che fa compagnia e che intrattiene piacevolmente il lettore, ma senza la pretesa di volere essere ricordato.
In sintesi, è un romanzo che ha fascino, che appare scorrevole ed è piacevolissimo; ma anche un romanzo che sembra la perfetta esecuzione del compito in classe della ragazza di primo banco, quella che è sempre stata attenta alle lezioni di componimento, ma che all’atto pratico non è stata così rilassata da tirar fuori tutto ciò che aveva da esprimere. Il voto, più di stima che di merito, è un sette più, perché l’impegno è stato ben dimostrato, ma soprattutto perché rivela tutta la stoffa che ha ancora da sfoderare la sua giovane autrice.

domenica 14 agosto 2011

Mario Vargas Llosa, “Il sogno del celta”.

La storia è costellata di eroi che il tempo tende a far dimenticare, specialmente quando sono divenuti tali per aver smascherato le violenze e i crimini di chi si è arricchito dando ascolto esclusivamente alla propria cupidigia. Perché, in tali casi, al primo presunto passo falso dell’eroe, colui che è stato smascherato torna a farsi più forte di prima, gettandogli addosso discredito, fomentando i dubbi sulla sua moralità e, soprattutto, sulla veridicità dei fatti rivelati, al fine di riacquistare, per sé stesso, l’onore e il prestigio persi.
Un esempio di ciò, tanto drammatico quanto intenso e straordinariamente rappresentato, ce lo da Vargas Llosa nel romanzo dato alle stampe dopo aver vinto il premio nobel per la letteratura, “il sogno del celta”.
Qui si narra la vicenda vera, ambientata nei primissimi anni del ‘900, di Sir Roger Casement, un diplomatico inglese, di origini irlandesi, divenuto sir proprio grazie al grande servigio reso alla corona britannica. Egli, infatti, di ritorno da una missione nella colonia belga del Congo, aveva rivelato le atrocità che si compivano in Africa ai danni delle popolazioni indigene, le quali venivano costrette sotto la minaccia di pene corporali, che il più delle volte venivano applicate, a raccogliere la resina per la produzione del caucciù, per conto di Leopoldo II del Belgio. Inoltre, aveva portato un rapporto analogo, se non anche più demoralizzante, per le crudeltà descritte con lucidità e completezza di dettagli e prove, dalla Foresta amazzonica ove, una compagnia, questa volta privata, ma di provenienza inglese, i cui soci erano tutti nobili e rispettabili uomini d’affari, era persino riuscita a insediarsi in tutte le istituzioni pubbliche, se non anche religiose, al fine di estrarre e rivendere il caucciù nella più completa impunità, adottando metodi brutali che vanno oltre ogni umana immaginazione, per ottenere il massimo rendimento con la minima spesa.
L’eroe Casement, forse, sarebbe rimasto tale se le esperienze in Congo e in Amazzonia non gli avessero fatto rivivere la propria condizione di irlandese vittima del colonialismo inglese e, nella sua veste di diplomatico, per ironia della sorte, di pedina forte del governo oppressore, seppur incapace di far valere i propri ideali e il proprio orgoglio nazionalistico. Per tale ragione, infatti, all’alba della prima guerra mondiale, allo scopo di liberare l’Irlanda dalle maglie inglesi, strinse accordi fatali con la Germania, col risultato di venire impiccato per sovversione, non prima, peraltro, che a suo carico venissero mosse una serie di accuse (sulla cui veridicità ancor oggi si discute) che avrebbero riportato la sua immagine al di sotto della comune rispettabilità.
La storia, dicevamo, è fatta di eroi che si dimenticano ma anche di malfattori che si vogliono dimenticare. Quel che resta di certo sono gli scontri fra il bene e il male, sollevati dall’una e dall’altra parte, ed il continuo divenire di queste due forze contrapposte nel quale, attraverso aggiustamenti, leggi, conquista di nuovi ideali, pronunciamenti di principi morali, movimenti culturali e così via, ma anche, purtroppo, grandi ipocrisie ed interessi di potenti che sembrano essere intoccabili, a volte ci sembra di aver compiuto degli enormi passi avanti e volte ci sembra di essere rimasti fermi all’era della pietra. Questo è quel che insegna lo splendido romanzo, lasciando solo intravedere, con una delicatezza che solo una mente superiore alle altre è capace di elaborare, che persino chi viene riconosciuto come un eroe, è pur sempre un uomo, come tutti gli altri, e come tale offre il fianco alle sue debolezze e rischia di non piacere ai propri stessi amici, in forza di un sogno che per lui vale tutta l’esistenza.
Il sogno del celta è un’opera magistrale, evocativa, capace di farti sentire parte della scena e di volere scendere in piazza a combattere tutte le ingiustizie sociali e a volere gridare che le ipocrisie ci stanno sopraffacendo più della violenza di chi se ne serve. Mentre leggevo, pensavo ad esempio ai milioni di cinesi che, ancor oggi, in pieno XXI secolo, lavorano in spesso in condizioni disumane, senza le dovute remunerazioni o assistenze, nell’interesse di società originarie di paesi in cui le leggi aborriscono il trattamento a cui sono condannati quegli uomini. Ci pensavo perché sono un fatto noto, a fronte di mille altri solo ipotizzabili, che non vengono contrastati e che continueranno a vivere finché la legge dei potenti non verrà soppiantata dagli ideali delle grandi masse. Il libro è un tassello che milita per questi ideali.

martedì 9 agosto 2011

C.W. Gortner, “Le confessioni di Caterina de’ Medici".

Caterina de’ Medici, la nobile fiorentina vissuta nel XVI secolo, divenuta sposa di Enrico II di Francia e rimasta vedova sin da giovane è raccontata in chiave rivalutativa nel nuovo romanzo dell’autore spagnolo C.W. Gortner. La sua figura, infatti, viene generalmente ricordata come quella di una monarca austera, dedita alla stregoneria e soprattutto sanguinaria, che, essendosi trovata a reggere il potere al posto dei figli, succeduti al padre in età che non gli consentiva di governare, ha approfittato della posizione assunta per perseguire scopi personali, in modo affaristico, egoistico e insensibile alle necessità del popolo. In particolare, la si ricorda per essere stata, nel periodo sanguinoso caratterizzato dagli scontri di religione fra i cattolici e gli ugonotti, come parte, se non persino mandante, della strage passata alla storia col nome della Notte di San Bartolomeo. Così, però, non è nel romanzo in cui, grazie una chiave di lettura diversa, la sua figura viene decisamente redenta e dipinta, anzi, come una delle più eminenti e simboliche dell’epoca.
Forse anche per queste ragioni, gli amanti della storiografia troveranno “le confessioni” un libro ricco di imprecisioni, lacunoso, forzato e certamente inutilizzabile ai fini storicistici. E’ pur vero, tuttavia, che manca del tutto la pretesa di offrire al lettore un’opera che, pur riecheggiando nel suo sfondo avvenimenti realmente accaduti, si definisca storica, mirando semmai ad ammantare, anzi a mescolare, la finzione con fatti veri, ancorché reinterpretati, al fine di rendere al tempo stesso un racconto plausibile e più interessante. La miglior dimostrazione di ciò è data dal fatto che la narrazione è lasciata in prima persona alla stessa Caterina de’ Medici, come se, cioè, quest’ultima si raccontasse in un suo diario personale, che sarebbe ora stato riscoperto e dato alle stampe. E, nel diario immaginario di Caterina de’ Medici quel che si legge sono soprattutto i moti dell’anima, i proponimenti, le sensazioni, le aspirazioni, i sogni o le delusioni vissute dalla sua (immaginata) autrice, mentre gli avvenimenti che hanno riguardato la sua persona e il ruolo che la stessa assunse in Francia e nel contesto europeo figurano come la causa o la conseguenza di quegli stati d’animo.
In tal modo, nelle memorie di Caterina, sono rievocati i patti di alleanza strategica per il controllo del territorio intessuti da prìncipi, re e altri nobili di alto lignaggio, che - ove le mere promesse non bastano a farli nascere - sono suggellati da matrimoni combinati tra i loro successori, pur se in età adolescenziale. Poi, si ritrovano l’odio e l’inaudita violenza insorti fra i seguaci della Chiesa di Roma e i seguaci del pensiero di Calvino, sottolineandosi nei patimenti di Caterina, come (ancor oggi, ahimé avviene) le divergenze religiose vengano strumentalizzate da chi tiene in mano le redini del potere, a suo esclusivo uso e consumo, anche semplicemente allorché i buoni propositi comportino un tale sacrificio personale che, alla lunga, non può più tollerarsi. E, infine, si assiste alla presenza di un potere forte, non ufficiale né formalizzato, che si pone al lato di quello, per contro, ufficiale e formale, e che è talmente influente da porsi in concorrenza con quest’ultimo, se non anche in contrapposizione, destabilizzandolo allo scopo di poterlo sovvertire.
In un libro certamente interessante, se non altro, per chi non ricorda o non conosce la storia o vuole semplicemente rimmergersi in essa (pur con senso critico), la trattazione purtroppo appare un po’ deludente. E’ vero che all’autore sarà risultato difficile concentrare in un romanzo di poco meno di cinquecento pagine l’intera, e tanto travagliata, vita di Caterina de’ Medici, ma è anche vero che in molti tratti, che pur richiedevano (a mio giudizio) un’illustrazione appassionata o densa, il discorso fila liscio senza rispettare le naturali aspettative del lettore. Ciò, per non dire di alcune lacune, a cui forse deve rimediarsi riprendendo in mano il libro di storia, e di altre che lasciano col dubbio che l’autore, nel suo intento redentista, si sia più volte trovato ad affrontare gli ostacoli della verità storica e a superarli con mal riuscita nonchalance.
Nel complesso, il libro piace ma senza esagerare.