martedì 19 luglio 2011

Catherine Pancol, “Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì”.

Se avete molto tempo a disposizione e non siete inclini a una lettura impegnata, Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì è il libro che fa per voi. Settecentocinquantacinque pagine di intrighi sentimentali, malinconie, paure di sentirsi inadeguati ovvero eccessive fiducie nel prossimo e nel destino, dubbi che fanno perdere l’occasione giusta e rammarichi per ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto.
E’ l’ultimo romanzo di una trilogia che ha già venduto - così apprendo - milioni di copie in tutto il mondo, firmata dalla scrittrice francese Catherine Pancol. Scrittrice che meraviglia per la capacità di spendere fiumi di parole ed essere tanto dettagliata nella narrazione di vicende, pur banali o ordinarie, che impegnano i suoi personaggi.
Dico subito che il mio rammarico è di non avere letto i due romanzi che hanno preceduto gli scoiattoli (“Gli occhi gialli dei coccodrilli” e “Il valzer lento delle tartarughe”), soprattutto perché credo che oramai non li leggerò più. L’ultimo libro, infatti, richiama episodi accaduti nei primi due, togliendo così al lettore la curiosità di leggerli. D’altro canto, il suo maggior fascino risiede più nella capacità di catturare il lettore, di saperlo intrattenere, che nel messaggio che contiene o nel pensiero che vuole divulgare.
Esporre in poche righe la trama è un’impresa ardua, anche perché in verità dovrebbe parlarsi di più trame, ciascuna con una propria direttrice, che si ritrovano in qualche punto, si intersecano, fanno qualche passo assieme e poi tornano a seguire la propria strada. C’è Joséphine, ad esempio, con la sua indole serafica e pacata, che è avvinta dal sogno di potersi unire a Philippe, il vedovo di sua sorella Iris, che a sua volta indugia nel manifestare i propri sentimenti per lei e si trova legato a Dottie, quasi senza volerlo. Joséphine sta cercando di scrivere un libro per uscire da uno stato di insoddisfazione interiore, paura di affrontare la realtà. Di fatto, la sua poca concentrazione viene spesso resa vana dalle mille vicende che le capitano attorno, anche se un ritrovamento fortuito, nella spazzatura, la porterà ad affrontare il suo lavoro con un piglio diverso. Poi c’è, Hortense, che è la figlia maggiore Joséphine, che insegue il sogno di divenire ricca e famosa nel campo della moda e, quando le si presenta la possibilità di occupare due vetrine di Harrod’s fa di tutto per riuscirvi, mettendo a disposizione del migliore offerente, come prima cosa, la sua arma vincente: la bellezza. E poi, ancora, Zoé, la figlia minore di Joséphine, appena sedicenne, che è ben diversa, più riflessiva, della sorella, anche se sta crescendo e brama di divenire disinibita e ambiziosa come lei. Sul fronte opposto c’è Philippe, l’indeciso, ricco, interessante, che vede crescere suo figlio Alexandre e lo vede diventare maturo, con un carattere umano, profondo, ma anche complesso, chiuso in sé e che, forse, a causa della perdita della madre (Iris) si avvicina molto a una barbona conosciuta ad Hide Park. Quasi a chiudere un cerchio ideale c’è la migliore amica di Joséphin, che vive un rapporto con l’amore e l’altro sesso parallelo e decisamente diverso a quello dell’amica, ma con risultati ugualmente catastrofici, e suo figlio Gary, il tenebroso, innamorato di Hortense e da lei ricambiato, ma che per un inesorabile destino non riesce a stringere con lei alcun rapporto duraturo. Lui ha un segreto da rivelare a sé stesso, l’identità del padre, che lo porterà ad affrontare un viaggio col corpo e con la mente. Di personaggi, con le loro storie, in realtà ce ne sono tantissimi altri, che fanno da contorno a questi ed enfatizzano le loro caratteristiche e che mai confondo il lettore o gli danno la sensazione di essere messi lì semplicemente come un riempitivo. Anzi. Proprio grazie ai numerosissimi personaggi, il romanzo è pieno di (tenui) colpi di scena.
Un romanzo dai tratteggi sfumati, dai molti dialoghi da cui emerge il pensiero interiore dei personaggi, con una descrizione asciutta e non per questo poco stimolante. Un libro interessante, senza eccessi, le cui quasi ottocento pagine giustificano solo il piacere di potere indugiare a lungo su delle storie che forse abbiamo vissuto personalmente o ci siamo sentiti raccontare già dai cari amici.

lunedì 4 luglio 2011

Marco Presta, “Un calcio in bocca fa miracoli".

Comincia l’estate e viene fuori il desiderio di affrontare letture leggére. Io mi ero riservato il libro che mi accingo a commentare per la seconda metà di agosto, soprattutto perché più comodo da portare a spasso, date le sue modeste dimensioni. Poi, però, non ho saputo resistere alla tentazione di sapere come si fosse comportato col linguaggio scritto Marco Presta, uno che ha fatto della parola parlata la sua professione e che ci allieta la mattina su Radio 2 col suo “Ruggito del coniglio”. La risposta che ho ottenuto è stata: brillantemente!
Proprio così. Col suo primo romanzo, infatti, Marco Presta riesce a toccare tutte le corde emozionali, in uno spettro che va dalla completa allegria alla malinconia (più le prime che le seconde, preciso per chi tema di trovarsi fra le mani una macchina da lacrime).
La storia narrata è davvero semplice da leggere, ma nutrita di una sfrenata fantasia che lo fa sembrare al tempo stesso inverosimile e pur realistico. Il protagonista, che è anche narratore in prima persona di tutto il romanzo, segue l’evoluzione del suo spirito in una delle ultime fasi della sua vita. Comincia col descriversi un vecchiaccio, uno di quelli che disprezza i bambini che gli fanno le boccacce ai giardinetti, che ruba le penne per diletto, e che non si vergogna di ammettere che, giunto alla sua età, con un matrimonio fallito alle spalle, il passaggio dal desiderare una donna ed averla non deve contemplare alcun intermezzo di corteggiamento, per evitare una perdita di tempo inutile e per evitare possibili conseguenze e strascichi sullo stato affettivo. Solo che, a fare da contraltare nella sua vita c’è l’amico Armando, un vedovo in pensione, di ex professione pizzicagnolo, che ha vissuto sempre in venerazione della moglie, e che adesso ha un’unica ambizione nella vita, quella di farsi Cupido in persona e lasciare amore, prima di morire. Ma non sarà solo per seguire le gesta dell’unico vero amico, nella missione Giacomo-Chiara, che il protagonista si troverà a fare i conti col suo carattere, perché nel frattempo si ritroverà a dover vestire i panni del padre ad una figlia ritornata a casa dopo lunghi anni, perché in rotta col marito, e a gestire nel migliore dei modi il rapporto con la portinaia, oggetto dei desideri suoi e di quelli del barista, che le fa una corte spietata. La ciliegina sulla torta è data dai ricordi che riemergono dal passato, con le perle di saggezza popolare di Oreste, un tempo solo maestro di bottega, e l’idea, anche affaristica, di un futuro che si fonda sul passato in una prosecuzione ideale.
Il libro sa essere altamente ironico, fino a sollevare sincere risate, ma anche riflessivo. Suscita un piacere che nel panorama degli autori moderni si ha spesso la sensazione di non potere ritrovare. E’ una satira in senso pieno, capace di volare basso su molti aspetti della società, senza mai scadere in banali critiche o ovvie allusioni. Anzi, dimostra la grande intelligenza di far maturare nella mente del protagonista un nuovo modo di affrontare la realtà, di guardare l’esterno da una diversa prospettiva, e con ciò porre e porsi il dubbio che la giustizia (ma qui, forse, dovrei dire più propriamente giustezza delle cose) non è solamente una. Inoltre, con una naturalezza disarmante, sa porre perfettamente a raffronto personalità diverse, per persone diverse, provenienti da estrazioni diverse, e generazioni diverse. Ma la cosa bella di tutto ciò è che, leggendo, non ce ne si accorge ed, anzi, si ride, e si ride di cuore.
Se volessi sintetizzare al massimo l’idea che mi sono fatto di questo autore, leggendo il suo primo libro, direi che è dissacrante e ironico come De Silva, nostalgico e condannatorio come Benni, arguto e riflessivo come Pennac.
Da leggere, assolutamente.

giovedì 30 giugno 2011

Carlos Ruiz Zafón, “Le luci di settembre”.

Si continua a dire che il primo romanzo di Carlos Ruiz Zafón sia stato l’“Ombra del vento”. Ciò, non per l’erronea ragione - che verrebbe, peraltro, ormai smentita dai lettori più appassionati del popolare autore - che è stato il suo primo libro a venire pubblicato in Italia, pur essendo stato solamente il quinto ad essere stato scritto. No, l’“Ombra del vento” si dice che sia il primo romanzo di Zafón in quanto sua prima opera a rientrare nella cosiddetta narrativa per adulti. Manco a farlo apposta, del resto, con l’“Ombra del vento”, Zafón ha vinto il Premio Barry assegnato proprio al miglior romanzo d’esordio nel genere mistero.
Nonostante si continui a dire così, però, ora che sono state pubblicate in Italia le opere precedenti, c’è da chiedersi se anche queste non siano degne di essere annoverate nella narrativa per adulti e mettere per ciò stesso in dubbio un primato, almeno, e un premio. Dal canto suo, l’editore italiano sembrerebbe escluderlo, visto che afferma (così nella quarta di copertina di tutte le edizioni) che, prima di arrivare al successo col suo più fortunato romanzo, Zafón “ha cominciato la sua carriera nel 1993, con una serie di libri per ragazzi”, ma quando poi si vanno a cercare i titoli dei componimenti (o, com’è stato detto, i libri per ragazzi) pubblicati dopo il 1993, vengono fuori in ordine: “Il principe nella nebbia” (1993); “Il palazzo della mezzanotte” (1994); “Le luci di settembre” (1995); e “Marina” (1999), tutti libri, cioè, in cui appare inconfondibile lo stile e la semplicità del linguaggio alla Zafón e che, se non sono degni di essere annoverati come eccellenti, non lasciano intravedere alcun elemento che li distingua dal romanzo d’esordio nella narrativa per adulti e li renda, pertanto, adatti solamente ai più giovani.
Ho finito di leggere da poco “Le luci di settembre”, un romanzo noir. Da una parte, semplicissimo, vivace e coinvolgente, dall’altra, ricco di suspense, capace di evocare le paure più ingenue che con l’età si era pensato di aver perso e di fare affiorare la pelle d’oca temendo di venire presi di soprassalto dalle proprie spalle. E’ piacevole perché non è esagerato. Ci sono ombre, misteri, inseguimenti, colluttazioni e sono pure abbondanti, ma non sono mai pesanti o ridondanti. E così pure ci sono scie di pensiero che rivelano una morale dell’autore, a metà strada fra gli avvenimenti storici presupposti e la finzione narrata, ma anche queste non viengono mai imposte al lettore, essendogli semplicemente suggerite come eventuali vie di riflessione.
La storia è ambientata nell’estate del 1937 (poco prima, cioè, della seconda guerra mondiale) in un piccolo villaggio sulla costa della Normandia, Baia Azzurra. Lì, la vedova Simone Sauvelle ha trovato lavoro come governante presso il castello di Cravenmoore, di proprietà di un ex fabbricante di giocattoli, Lazarus Jahn. Con sé, Simone ha portato i propri figli, Irene e Dorian, che sono ancora giovani. I primi tempi lasciano presagire alla famiglia un futuro luminoso. Il padrone di casa è una persona affabile e generosa, Dorian ha avuto promesso di potere imparare l’arte di costruire i giocattoli, mentre Irene, dopo aver fatto amicizia con Hannah, la giovane cuoca, si è innamorata del cugino di lei, Ismael, un giovane marinaio che la porta a conoscere i rifugi e gli anfratti più segreti della costa e le racconta le storie e le leggende che vi sono legate. Sennonché, proprio i racconti di Ismael e, in particolare, quello su inspiegabili luci che si dice appaiano in settembre da un isolotto poco distante, lasciano presagire che c’è almeno un mistero irrisolto al quale gli abitanti della Baia Azzurra hanno dato troppo poco peso. Infatti, un giorno Hannah muore misteriosamente nel bosco e mentre i ragazzi iniziano le indagini per venirne a capo, si vedono costretti a scontrarsi con un potere oscuro che agisce in modo ancor più inspiegabile e che li riporta sempre alle luci di settembre.
Altro da aggiungere non c’è, se non l’invito a leggere un libro di svago perfettamente dosato ed apprezzabile, da posare poi sullo scaffale e ricordare, semplicemnte, come un momento di piacere.

lunedì 27 giugno 2011

Alethea Black, “Un giorno uno sconosciuto mi diede una chiave”.

Vi do un consiglio per una letturina facile facile da fare sotto l’ombrellone la prossima estate: Un giorno uno sconosciuto mi diede una chiave, di Alethea Black.
L’editore ha voluto celebrare questa pubblicazione come il primo romanzo dell’autrice, ma definirlo tale, cioè un romanzo, mi sembra un po’ eccessivo. Direi piuttosto che si tratta di un lungo racconto, uno di quelli, appunto, che fa piacere leggere quando ci si vuole lasciare trasportare dalla vaporosità di una favola, che non lascia strascichi di emozioni o residui nella memoria da continuare ad assorbire anche dopo che si è chiusa l’ultima pagina. Non sarà un caso, del resto, che dell’autrice si dice essere nota negli Stati Uniti d’America per avere pubblicato i suoi racconti su numerose riviste (ed avere per ciò stesso vinto ambiti premi).
Il fatto è che, prima di leggerlo, io me ne ero fatto un’idea del tutto sbagliata e, d’altra parte, non cercavo nulla da assaporare con la risacca del mare nelle orecchie o una brezza iodata fra i capelli (non ancora, quantomeno!). In sostanza, dando troppo credito a quella stessa voce (un po’ troppo frettolosa nell’esprimere giudizi) con cui poc’anzi non mi ero trovato d’accordo, mi ero finito col convincere davvero che “in questo suo primo romanzo [rieccolo!], Alethea Black ci consegna una storia intensa ed evocativa che parla di emozioni profonde, di nostalgia e di rimorsi, ma soprattutto della ricerca del senso da dare alla propria vita”.
Ora, vorrei dire anche che non ero alla ricerca del senso da dare alla mia vita, ma semplicemente che quella descrizione mi aveva convinto di poter trovare uno spirito davvero profondo in poche pagine, capace di suscitare in me forti sentimenti. Così, però, non è stato.
In ogni caso, così come ho cominciato, voglio continuare nel dire che questo libro, dal titolo peraltro anche molto affascinante, non è per niente da buttare, anzi. Ha uno stile che lo fa risultare davvero gradevole e piacevole da seguire. E poi la protagonista ti riesce ad entrare nel cuore sin dalle primissime righe, perché non puoi non immaginarla come una di quelle tue amiche ambiziose, ma che al tempo stesso stentano persino a volersi confrontare con la realtà, belle, ma nascoste, simpatiche, ma soltanto con chi vogliono loro e, soprattutto, che sanno non perdersi mai d’animo. Come dire, quindi: ti intenerisce.
Esattamente come in una fiaba, Leah, che è la protagonista di cui parlavo, riceve da uno sconosciuto una chiave, senza sapere cosa apra e a quale scopo sia stata consegnata proprio a lei. Per un caso della sorte, dopo un po’ di tempo, apprende di non essere la sola destinataria di una simile consegna, ma mentre il gruppo che si forma brancola nel buio, Leah, si convince sempre più che quella chiave (o la figura oscura che gliel’ha consegnata) vuole indurla a percorrere vie che altrimenti non avrebbe mai intrapreso. In tal modo, intesse nuovi rapporti umani, da cui dedurrà di potere trarre buoni profitti sia sul piano personale che professionale.
La fiaba finisce qui, quindi il lieto fine dovrete costruirvelo voi, o almeno immaginarlo. Una cosa è certa, però, nel frattempo, se avrete letto ad alta voce le pagine del libro, avrete consegnato ai vostri figli un sonno soave e degli splendidi sogni.

martedì 21 giugno 2011

Josè Saramago, “Cecità”.

Cosa succederebbe agli uomini di una nazione, se in pochi giorni diventassero tutti ciechi? Riuscirebbero a trovare una nuova forma di adattamento al loro stato, oppure no?
A un anno esatto dalla morte di Josè Saramago (18 giugno 2010) ho completato la lettura di “Cecità”, l’opera in cui, in modo spietato e tristemente pessimista, si tenta, non senza secondi fini, di dare una risposta a questi interrogativi.
Il romanzo è atroce per le scene che vengono rappresentate e per la crudezza di situazioni che, anche se inverosimili, divengono facili da immaginare. L’autore, infatti, sembra accompagnare per mano i suoi lettori in un mondo che lui stesso sembra avere scoperto da poco e del quale non riesce ancora a non stupirsi. Egli constata come, di fronte alle ovvie e più immediate conseguenze che ha portato la cecità colpendo l’intera popolazione, tutti i precetti, i sani principi, gli stessi valori morali, non hanno retto all’impatto dell’epidemia, lasciando il posto all’innata barbarie del genere umano, al suo egoismo, alla sopraffazione sul prossimo, alla paura di vedersi nuocere dagli altri e, dunque, al desiderio di fuggirne o di anticiparne le mosse violentemente.
L’obiettivo è puntato prevalentemente sull’effetto che la malattia ha provocato sulla società, piuttosto che sui singoli, anche se, sia pur sporadicamente, si sposta sulle impressioni personali e gli intimi pensieri. Ma sembra che questa duplice inquadratura sia destinata, comunque, allo scopo di porre a paragone il difetto fisico al centro della storia con una chiusura mentale che, nel pensiero dell’autore, risulta essere congenita nell’uomo, tanto da farlo apparire spesso, appunto, cieco.
La trama è creata ad arte per non fare mai stancare il lettore. All’inizio dell’epidemia, infatti, un gruppo sparuto di persone, che è quello a cui appartengono i primi a contrarre la cecità, viene forzatamente relegato in un ex manicomio, per evitare il dilagarsi del male e al tempo stesso poterne studiare le cause e la cura. Il manicomio, però, viene presto riempito di gente fino a scoppiare e il cibo, già scarso sin dall’inizio, per via della paura di quanti avrebbero dovuto consegnarlo di venire contagiati, non viene più somministrato. Diviene, dunque, presto una specie di lazzaretto, fetido e pieno di sporcizia, e al suo interno scoppiano risse e si compiono i peggiori crimini. Quando la situazione diviene insostenibile, durante un incendio, i ciechi decidono di fuggire, rischiando le pallottole dei soldati che li tengono di guardia, ma ad attenderli c’è una più amara rivelazione della realtà: anche i soldati e gli stessi membri del governo che li avevano rinchiusi sono a quel punto diventati ciechi, e con essi tutta la popolazione, e per le strade la gente girovaga come branchi di lupi affamati, insieme a cani che si nutrono delle loro carcasse, topi di fogna e spazzatura. L’acqua, l’elettricità, il gas sono inutilizzabili e nell’aria aleggia costantemente un odore di decomposizione.
Una sola donna, la moglie di uno del gruppo, misteriosamente, ha avuto fatta salva la vista, sin dall’inizio, in modo tale che, attraverso i suoi occhi, possiamo vedere ciò che accade.
Un libro atroce, come dicevo, ma al tempo stesso arguto e profondo. Direi, un’eccellente allegoria della specie umana, che ne evidenzia la vacuità dei propositi: se messo alla prova, infatti, l’uomo si dimostra pronto a rinunciare a tutti i valori che ha sposato, persino quelli che, per ironia della sorte, ha ritenuto parte della sua stessa natura.
Un libro facile da leggere, nonostante un’inspiegabile, ma chiaramente voluto, uso erroneo della punteggiatura: il punto quasi non esiste (chiude solo periodi di non meno di mezza pagina), essendo nella maggior parte dei casi sostituito da una virgola, mentre tutti gli altri simboli d’uso essenziale, come i punti interrogativi, i punti esclamativi, i due punti, le virgolette, e così via sembrano essere sconosciuti all’autore.
L’unica spiegazione che potrei dare a tale strana scelta è la fusione delle parole con un contesto caotico, impersonale, e il tentativo (ben riuscito) di poter ricondurre le stesse a chiunque. D’altra parte, a nessun personaggio è dato un nome, sia pur di fantasia, che lo identifichi, perché nella prova in cui l’autore si è voluto cimentare le azioni, le parole e le scelte possano così ricondursi a quelle di un qualsiasi uomo e non a quelle di uno solo di essi.

giovedì 19 maggio 2011

Jonathan Franzen, “Libertà”.

Un capolavoro. Così lo hanno definito gli americani. Un ottimo libro, direi io. Gradevole da leggere e così americano da riuscire a piacere ai lettori più disparati, con un solo, ma sostanziale limite (di cui dirò più avanti) che non lo fa assurgere a vera opera d’arte.
Libertà può esser letto in due modi, o come una saga familiare molto eloquente, così estesa da acchiappare anche più di tre generazioni, oppure come la fotografia dell’opinione pubblica americana all’epoca dell’insediamento del presidente Obama.
Nel primo caso, ci si trova a viaggiare fin dentro le viscere dei Berglund, un famiglia americana apparentemente ideale, con padre, madre e due figli, che però ben presto, a causa di retaggi psicologici difficili, fatti occasionali e ambizioni non condivise, finisce con lo sgretolarsi. Walter e Patty Berglund trascorrono una vita ad amarsi e a tenersi a distanza, a indugiare sulla profondità dei loro sentimenti, a provare a immaginare come sarebbe stata la loro vita se non si fossero conosciuti e a sperimentare, figurativamente o in concreto, una via di fuga dagli esempi negativi delle rispettive famiglie. Tutto ciò, mentre attorno a loro ruotano le figure, ora minacciose ora necessarie, dei figli, dei vicini di casa, degli altri parenti e degli amici. Sotto tale aspetto, la capacità dell’autore di rendere le emozioni dei protagonisti o di far vivere le loro stesse conversazioni, con la scena che li circonda, risulta davvero superlativa, nonostante qualche eccesso che potrà apparire fastidioso a chi non ama il realismo esasperato. Di sicuro, non stanca mai, pur non trascinando come potrebbe.
Nel secondo caso, il libro pecca un po’ di forza comunicativa, anche se l’intento di voler lasciare ai posteri un messaggio (che qui non si dirà) risulta abbastanza chiaro. Viene rappresentata, sia pur in modo filtrato, la situazione politica degli Stati Uniti d’America, nel periodo che va dall’indomani dell’attacco alle torri gemelle, o forse sarebbe meglio dire dal governo Bush, fino a quello di Obama. Ciò, perché fra i Berglund c’è sempre qualcuno che si trova a fare i conti o a commentare alla sua maniera la situazione politica interna e quella dei paesi arabi. In tutto ciò, però, l’impressione è che l’autore o non voglia appesantire la narrazione con riferimenti alla politica ed all’aspetto sociale, preferendo rimanere nel sistema soapoperistico della saga familiare, o non sappia materialmente intessere la trama cominciata e la rimetta per la sua parte maggiore alle cognizioni del lettore ovvero, infine, quel che, ahimé, temo sia l’ipotesi più verosimile, si dimostri lui stesso, autore, quello stereotipo americano, col cervello da bambinone cresciuto e la pistola nel cassetto, che viene raffigurato spesso da questa parte dell’Oceano.
In qualunque modo lo si legga, le due linee, sempre distinguibili, convergono in molti punti, nei quali, a mio avviso, dovrebbe emergere l’aspetto maggiormente artistico e riflessivo del romanzo, dato che ne costituiscono i momenti più elevati. Quelli in cui l’autore dovrebbe esaltarsi nel raccogliere tutti i capi della trama che ha imbastito. Invece, ben presto ci si rende conto che tali punti non riescono ad andare oltre il fuggevole picco di esaltazione che provocano, nel complesso di una storia che risulta liscia, lineare e senza particolari sconvolgimenti per chi l’apprende. In ciò risiede il limite di cui accennavo all’inizio.
Per averne un’idea, basti pensare a titolo d’esempio che, pur armati delle migliori intenzioni, padre e figlio Berglund, ossia Walter e Joey, che aderiscono ad ideali politici contrapposti, si trovano col finire sulla stessa barca, involontariamente se non contro la loro volontà, al servizio dei potenti, per i quali l’unico movente è il dio denaro. Ecco, questo momento di altissima intensità, che dovrebbe far riflettere sul relativismo degli ideali, sulla forza delle lobby, sull’indifferenza degli stati ai problemi dell’umanità, e così via; ma tutto ciò, in un libro di oltre seicento pagine, si comincia a comprendere, viene affrontato direttamente e si conclude al massimo in due o tre pagine. Dopo di che, se ne perdono le tracce, definitivamente. Peccato, veramente peccato!
E che dire del titolo? Libertà. Se non fosse che qualche riga sparsa qua che se ne ricorda con vaghezza, tanto è tenute e intimidito il senso del romanzo che si finirebbe per non spiegarselo.

lunedì 9 maggio 2011

Nicole Krauss, “La grande casa”.

Appena ho finito di leggere questo libro, l’impressione è stata quella di avere avuto fra le mani un’opera degna del suo nome, ricca, ma non per questo complessa. Anzi, a dire il vero, ne ero proprio entusiasta, tanto che non vedevo l’ora di scrivere la recensione per consigliare a tutti di leggerlo. Ero rimasto, come dire, affascinato, folgorato, stregato.
Poi, è successo che, mentre viaggiavo verso la meta del fine settimana, ho voluto fare le mie considerazioni sul libro alla mia fidanzata, partendo come ho fatto adesso dalla rivelazione del piacere che mi aveva suscitato. Lei, però, il libro non l’aveva letto e, com’è naturale che fosse, ha preteso di averne raccontata prima di tutto la trama. Lì sono sorti i guai.
Infatti, rapito com’ero stato dal modo in cui ciascun personaggio parla di sé, rivelando fatti del proprio passato che hanno contribuito a farli divenire quel che sono nel momento in cui si raccontano, ho dovuto prendere atto di non avervi prestato molta attenzione. In ogni caso, in quel momento credevo di poterla raccontare, nella sua semplicità. Invece, via via che andavo avanti, sono cominciati a sorgermi dubbi sulla completezza del romanzo o, meglio, sull’attenzione risposta dall’autrice alla trama e agli intrecci da lei stessa imbastiti.
Mi spiego meglio. I fatti narrati si traggono dall’insieme di quattro storie, collocate in epoche diverse, sin dall’inizio apparentemente sganciate fra loro, ma chiaramente destinate a convergere nel finale.
Nella prima, una scrittrice di nome Nadia sta facendo il resoconto della sua vita ad un giudice. Si deduce che chi l’ascolta sia un giudice dal fatto che gli si rivolge costantemente con un “vostro onore”, ma perché si rivolga proprio a lui non si capisce né si capirà mai, neppure alla fine. Spezzano questa curiosa confessione due o tre paragrafetti incidentali di poche righe in cui viene descritta da un terzo estraneo alla scena (da un narratore esterno) l’immagine di una persona tenuta in vita a stento dai macchinari, dopo aver subito -forse- un intervento chirurgico che gli è costata la perdita di molto sangue. Il succo del racconto di Nadia è che troppo tardi si è resa conto che la sua attività di scrittrice, così come la sua serenità, o il suo equilibrio interiore, dipendevano molto da una scrivania ingombrante che gli era stata prestata dal poeta cileno Daniel Vrasky e che solo dopo più di vent’anni una donna, dicendo di essere la figlia di Daniel, si è andata a riprendere.
Nella seconda, il vedovo della scrittrice Lotte Berg, afflitto dal dolore della perdita, riflette a voce alta su un segreto della moglie che ha potuto apprendere solo in occasione della malattia degenerativa che aveva condotto quest’ultima a perdere gradualmente la memoria. La moglie, infatti, aveva avuto un figlio prima di conoscerlo e lui ora ne vuole scoprire l’identità. In occasione delle ricerche, si ricorda che un certo Daniel Vrasky che, essendosi detto un ammiratore di sua moglie, aveva preso a frequentarla, finché lei non gli aveva regalato la sua scrivania (quella stessa che Daniel darà in prestito a Nadia). Ma Daniel non risulterà essere il figlio di Lotte dato in adozione.
La terza storia è quella dell’anziano e ormai stanco Aron, appena divenuto vedovo, che si ritrova a vivere dopo due decenni col figlio Dovik, che lui tanto aveva criticato e al tempo stesso ben voluto, ma col quale non era mai riuscito ad avere un bel rapporto, invidiando invece quello che il figlio aveva avuto con la madre. Nel suo lungo monologo interiore c’è praticamente tutta la storia della loro vita insieme, anche se vissuta a migliaia di chilometri di distanza.
E infine c’è la storia di due fratelli ebrei, Leah e Yoav, cresciuti all’ombra del padre, l’antiquario George Weisz che, per via della sua professione, ma soprattutto per la sua vocazione di dare forza al concetto della “grande casa”, concepito a sua volta dal rabbino ben Zakkai, li ha costretti a vagare di città in città. Weiz, infatti, si è posto una missione nella vita, che è quella di recuperare, al costo di girare tutto il mondo, i mobili sottratti durante la shoa, per restituire un frammento della memoria di Gerusalemme ad ogni ebreo e dare così al suo popolo la possibilità di ricostruire la memoria completa delle sue origini.
Weiz cerca per sé, e troverà, la scrivania che era appartenuta a suo nonno, che è la stessa passata per le mani di Lotte Berg, Daniel Vraski e Nadia.
Delle quattro storie, che peraltro sembrano rimanere all’interno di compartimenti stagni fino alla fine, l’una, quella di Aron e Dovik, sembra fine a se stessa. Io almeno non ci ho visto nessun collegamento con le altre. Un enigma, per me, sono anche le incidentali che spezzano il racconto di Nadia. A cosa si riferissero giuro di non essere riuscito a capirlo. Persino sulla figura di Daniel Varsky avrei da ridire: perché, infatti, l’autrice ha voluto dargli un chiaro ruolo di primo piano se alla fine non si rivela essere né il figlio segreto di Lotte Berg né il padre della donna che andrà a prendersi la scrivania da Nadia? Vederlo degradare alla fine quale semplice elemento accidentale attraverso cui la scrivania è passata da una mano non si addice al ruolo a cui sembrava destinato.
Ora, pur con questi dubbi, non voglio esagerare con l’essere critico e dunque non affonderò ulteriormente il coltello nella piaga, perché, così come ho iniziato, voglio finire esaltando l’incredibile capacità espositiva dell’autrice, che ha saputo creare con talento un’opera che è al tempo stesso introspettiva, se riferita ai singoli personaggi, e di insegnamento, se riferita allo spirito e ai principi rivelati del popolo ebraico.
Un romanzo capace di mettere a confronto diverse generazioni e diversi ruoli all’interno della famiglia. Capace anche di dare ai gesti un significato eloquente. Di forte impatto emotivo, penetrante, senza compromessi.