lunedì 28 marzo 2011

Laurence Cossé, “L’incidente”. Titolo originale: “Le 31 du mois d’août”.

“Il 31 del mese di agosto”, di un anno che il titolo originale del romanzo non svela, avvenne un fatto accidentale che ebbe una eco enorme nella collettività, tale da indurre gli animi di mezzo mondo a riflettere sull’importanza di una vita.
I protagonisti noti di quell’evento (ove “noti” qui sta sia per “personaggi pubblici” che per “protagonisti di cui si è accertata la presenza sul luogo dei fatti”) furono così sfortunati da morire prima di potere raccontare la loro versione. Ma, nell’immediatezza, qualcuno ebbe la prontezza di rivelare che, oltre a loro, qualcun altro certamente era stato presente e aveva visto coi suoi occhi quel che era successo. Qualcuno che, pur essendo stato coinvolto dall’evento, era riuscito a vivere, ma si era dileguato nel mistero più profondo, facendo perdere, ancor più misteriosamente, le sue tracce.
Con un romanzo brillante, uscito per la prima volta in Francia nel 2003, e dunque prima del più famoso “la libreria del buon romanzo”, Laurence Cossé racconta alla sua maniera le ore, i giorni e i mesi successivi alla morte della principessa Diana avvenuta il 31 agosto del 1997, a seguito di un tragico incidente automobilistico avvenuto dentro il tunnel dell’Alma. Le racconta, affidandosi intermente alla sua fantasia, seguendo quasi come con una telecamera nascosta quel personaggio misterioso che ebbe la sventura di assistervi in prima persona, che chiama in maniera semplice col suggestivo nome di Lou.
Al di là delle conseguenze dell’incidente, infatti, le indagini sulle sue cause ritennero di accertare che l’auto in corsa su cui viaggiava Lady D. aveva dapprima urtato contro un’altra auto, che procedeva ad andatura regolare, una Fiat Uno bianca, che tuttavia non è mai stata ritrovata e il cui autista, tanto meno, è stato mai identificato. Quell’autista, nel romanzo della Cossé, è Lou, una ragazza modesta, senza grilli per la testa, felice della sua vita normale e capace di compiacersi delle sue piccole conquiste.
Quando avevo parlato della “libreria del buon romanzo” ne avevo apprezzato soprattutto l’originalità e la capacità dell’autrice di rappresentare fatti inventati in modo tanto realistici da indurre a pensare che l’autrice lo avesse vissuto in prima persona. Le stesse cose direi adesso per “l’incidente”, con l’aggiunta, forse anche condizionata dal raffronto con l’altro, che essendo anteriore, tali caratteri non sono qui ancora compiutamente affermati, ma rivelano decisamente la maestria che avrebbe portato l’autrice a distinguersi oggi.
Quel che è certo è che, rappresentare uno stato d’animo, in un crescendo di emotività, di dubbi, di decisioni prese in extremis e che non consentono di potere tornare indietro, non dev’essere stata un’impresa facile. Tanto più quando, sia pur in modo marginale e non dichiarato, fra gli intenti dell’autrice vi è quello di suscitare un’opinione innocentista nei lettori e molti di questi hanno già, presumibilmente, puntato il dito contro quella maledetta macchina-ostacolo che Lady D. si sarebbe trovata sulla sua strada.
Al di là di ciò, è comunque chiaro un altro messaggio, che mi piace trovare non-scritto nel titolo del romanzo: qualunque evento, bello o brutto, noto alle cronache o rimasto del tutto ignoto al pubblico, se ti tocca da vicino è tale da stravolgerti completamente la vita. Ma soprattutto, per quel che più importa, quell’evento può giungere in qualunque momento, come per Lou è arrivato in un qualunque giorno 31 di un mese di agosto, che poi solo il destino ha voluto far diventare il 31 agosto 1997. In quest’ottica, cambiare il titolo del romanzo non credo che sia stata una felice idea; indagare poi sul perché l’editore italiano lo abbia fatto diventa un’indagine impossibile.

lunedì 21 marzo 2011

Fred Vargas, “I tre evangelisti”.

Fra i libri che ho ricevuto in dono per il compleanno (che è stato il 2 marzo) c’erano tre romanzi di Fred Vargas, pubblicati per la prima volta negli anni ‘90, ambientati a Parigi e accomunati dal fatto di avere gli stessi, particolarissimi, protagonisti, raccolti adesso in un unico volume sotto il titolo “i tre evangelisti”.
Chi ama il genere giallo certamente conoscerà l’autrice, dato che, da quel che ho appreso, sembra essere molto popolare sia in Francia che in altri paesi, ma per me che non la conoscevo, invece, è stata una bella scoperta.
Il primo dei tre romanzi, da titolo “chi è morto alzi la mano”, è il più originale: sembra di imbattersi in un genere nuovo o che, almeno, sappia cogliere un po’ qua e un po’ là spunti diversi da generi diversi, per ottenere come risultato finale un poliziesco in cui le emozioni dei protagonisti non sono il frutto della ricerca dell’omicida di turno, ma quelle che gli stessi vivono per vicende legate a fatti loro personali. Dal canto loro, del resto, Marc Vandoosler, Mathias Delamarre e Lucien Devernois, i tre evangelisti, come li definisce il loro amico Vandoosler, zio di Marc, sono uomini del tutto singolari che hanno in comune di essere sempre al verde e di essere degli storici, legati a filo doppio con l’epoca a cui dedicano i loro studi, a tal punto da esserne condizionati nel comportamento.
Anche per questo, ci si trova spesso a chiedersi se la trama del giallo non sia solo un pretesto per mettere in scena le diverse personalità rappresentate e se magari alla fine del libro si riesca a cavare una morale da condividere. Poi, in realtà, si finisce con l’appurare che la morale ricercata manca del tutto, ma si legge comunque nel complesso un libro che risulta avventuroso, intrigante e perfino divertente.
Nel primo romanzo, i tre uniscono le loro forze per andare a vivere in una casa fatiscente, detta “la topaia”, in una zona di Parigi che non sembra neanche Parigi. L’aria che si respira nel rione sembra quasi familiare e per questo nascono presto amicizie con i vicini. Ciò dura, però, fino a quando la scomparsa inattesa e spiacevole della bella donna della villa ad ovest della topaia non porta necessariamente a rimettere tutto e tutti in discussione.
L’originalità dei personaggi e del loro stile di vita, naturalmente, si perde nel secondo romanzo, che s’intitola “un po’ più in là sulla destra”. Anzi, dispiace un po’ che uno di loro, Lucien, viene quasi del tutto dimenticato e quasi mai citato, mentre un altro, Mathias, si ritrova a ricoprire una parte quasi del tutto marginale. In compenso, però, qui viene fuori una vera trama da libro giallo che non manca di destare la curiosità e di tenere svegli la notte, per vedere come andrà a finire, sebbene pecchi di essere un po’ troppo costruita: un osso umano, trovato fra gli escrementi di un cane, porterà Marc e il suo nuovo datore di lavoro, un ex poliziotto col vizio di condurre indagini per i fatti suoi, a cercare, dapprima, una vittima che sembra non esserci mai stata e poi l’autore dell’omicidio, se davvero di omicidio si è trattato.
Nel terzo romanzo, che si chiama “io sono il tenebroso”, tutti e tre gli evangelisti tornano a collaborare, loro malgrado, all’ennesimo caso di cronaca nera che piomba nelle loro vite. Il problema è che, questa volta, non possono dire di no: il sospetto omicida seriale ricercato in tutta la nazione è andato a vivere sotto il loro tetto, ma un sesto senso fa dire loro che lui non c’entri niente. Anche l’ambientazione torna ad essere quella del primo romanzo, nel senso che i protagonisti ruotano attorno, si danno appuntamento e si ritrovano nel loro quartier generale, la topaia. Qui si ritrovano anche le abitudini e le particolarità che si erano conosciute col primo romanzo e fra le trovate divertenti e gli intrighi, le deduzioni e le intuizioni si riesce ad apprezzare il raggiungimento della perfezione tecnica della trilogia.

lunedì 7 marzo 2011

Richard C. Morais, “Madame Mallory e il piccolo chef indiano”.

Il primo romanzo di Richard C. Morais (il cui titolo originale è “The Hundred-Foot Journey”) è l’equivalente di un cosiddetto film “di cassetta” americano: sin dalle prime battute si intuisce già come andrà a finire, per cui l’unica sua attrattiva è data dagli effetti scenici e dagli accorgimenti curiosi, avventurosi o scandalistici che vi si trovano nel mezzo. Inoltre, non offre alcuno stimolo moralistico o argomento che susciti riflessioni approfondite. Basti pensare che il tema più importante affrontato è l’esigenza, avvertita da un indiano, di custodire la tradizione francese in cucina.
In casi del genere, dunque, il giudizio non può che restringersi a un bello o a un brutto che si basi sulle scene o sulle immagini (qui, sulla capacità di saperle evocare), sull’interpretazione degli attori (qui, sulla raffigurazione dei personaggi) e sull’evoluzione della narrazione.
E, a mio parere, Madame Mallory e il piccolo chef indiano è bello. Anzi, delizioso.
Lo è perché l’idea stereotipata della metropoli indiana, da cui muove le mosse, è perfettamente raffigurata nella sua bolgia di donne e uomini che si muovono in ogni direzione, nel suo caos generale, nelle mille luci e colori. Così come ben descritte sono la silenziosa, grigia e soporifera città inglese, la moderatamente vivace provincia francese e la spocchiosa, gaudente e costosa Parigi.
Lo è anche perché nei protagonisti, che pur sono accomunati dalla stessa vocazione, quella di eccellere nell’arte culinaria, sono distinguibili caratteri diversi, ancorché ciascuno di essi non sia mai rappresentato nella sua intima personalità.
Lo è, infine, soprattutto, perché il racconto della vita di un promesso chef indiano, dai primi esperimenti davanti ai fornelli fino al raggiungimento del più elevato riconoscimento internazionale attribuibile ad un cuoco, è resa in modo semplice, senza particolari sbalzi emotivi, attraverso una narrazione che scivola via liscia come l’olio.
Che altro dire? Assolutamente nulla, se non che nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, l’autore ricorda che l’iniziativa di scrivere il libro era stata oltreché sua anche di un produttore cinematografico che gliel’avrebbe finanziato, ma che quest’ultimo non c’è più e, quindi, il progetto così come concepito inizialmente è andato a monte. Anche per questa ragione, l’autore non fa mistero del suo desiderio di vederlo comunque messo in scena. E quindi, non mi stupirebbe se tra poco ce lo trovassimo tra i film in programmazione.

giovedì 24 febbraio 2011

Andrea Vitali, “Il meccanico Landru”.

Alcuni libri sono tanto belli che meritano di essere riletti. Altri, sono così belli che meritano addirittura di essere riscritti.
E’ il caso del Meccanico Landru, l’ultimo libro di Andrea Vitali, che era stato già pubblicato nel 1992, prima di un’innumerevole quantità di opere che hanno suggellato il successo dell’autore e che hanno riscosso premi e riconoscimenti di ogni sorta. Ma il Meccanico Landru del 2010 non è una mera ristampa (almeno così apprendo, dato che non ho avuto il piacere di leggere la prima versione) quanto una rivisitazione della prima stesura alla quale sono state fatte aggiunte significative.
Se volete sapere la mia, io l’ho trovato assolutamente straordinario.
Forse l’autore sentiva la nostalgia dei personaggi usciti fuori dalla sua penna, così reali e attaccati alla loro parte, che ha sentito il bisogno di farli rivivere. E, in effetti, nonostante uno stile quasi telegrafico, tal che ogni capitolo non supera in media le due-tre pagine, non si può non immaginare che ciascuno di loro abbia avuto effettivamente vita e che si sia comportato ed abbia agito come Vitali magistralmente lo ha rappresentato.
E poi che dire della vicenda narrata? E’ una mescolanza di avvenimenti, circostanze ed episodi, intrecciati tutti fra loro sin dalle prime pagine e che procedono tutti di pari passo in maniera chiara ed avvincente verso un epilogo intuibile ma non per questo scontato.
Siamo a Bellano, piccolo comune italiano, all’inizio del 1930. I costumi, le usanze, le abitudini e perfino le aspirazioni della gente comune, del popolo, sono esattamente come ce le si immagina (o forse alcuni ricordano). Al confronto col tempo presente, sembra di avvertire un’aria serena, nonostante le scaramucce o le piccole sopraffazioni, che attinge alla semplicità della vita. Basti pensare che il romanzo comincia con l’attesa dei festeggiamenti per le nozze del principe Umberto II di Savoia con Maria José (8 gennaio 1930), ma non quelli avvenuti nella cappella Paolina del Palazzo del Quirinale a Roma, quanto quelli che il popolo di Bellano avrebbe riservato a sé in onore degli sposi, con balli, tartine e buon vino di botte.
Nell’attesa della festa, giungono in paese alcuni operai addetti al montaggio di macchinari nuovi nel cotonificio che rappresenta l’industria trainante dell’economia del paese. Fra questi operai c’è il meccanico Landru, il quale viene visto da subito con sospetto, sebbene proprio lui sia l’unico che non partecipi alla rissa che fa finire la festa delle nozze in fumo.
Il suo primo difetto (primo in ordine cronologico) è il nome, che richiama alla memoria Henri Landru, l’assassino seriale francese che venne giustiziato nella prima metà degli anni ’20 (e, dunque, non molto tempo prima i fatti raccontati), ma dopo il nome se ne cominciano ad assommare tanti, provocati dal suo atteggiamento sfrontato, approfittatore e non da ultimo dalla fortuna che lo porta sempre a farla sempre franca.
Attorno a questo personaggio un po’ amato e un po’ odiato, utile e parassita, che non può dirsi “principale”, essendolo tutti, o quasi, in egual misura, ruotano gli altri. C’è ad esempio il direttore del cotonificio, che si trova a dover fare i conti con la politica, con l’utile dell’azienda, ma anche con le esigenze dei suoi dipendenti, in particolar modo adesso che i nuovi macchinari si sostituiranno, com’è prevedibile, a molti di loro. Poi c’è la sua segretaria, amante del progresso, idealista e pronta a fuggire per mete oltreoceano col Landru e che, in nome di un amore che cela un interesse (dall’una e dall’altra parte), per quest’ultimo diventa spia, ladra e gentildonna. E poi ci sono ancora il fratello della segretaria, fascista per necessità e bamboccione; il prevosto del paese, coi suoi consigli e la sua grazia; il capostazione che non ci vede chiaro in niente; il maresciallo suo confidente; il prodigo medico del paese e tanti altri, ma soprattutto il leader locale del partito nazionale fascista, che si muove tra gli sberleffi di un tesserato suo subalterno e la paura di non dispiacere al partito.
Amori veri, ideali sprecati, sogni irrealizzabili e forse un pizzico di ironia su un potere accentratore e autoritario che ha avuto la meglio nell’Italia di quegli anni. Tutto questo e tanto di più si legge nel Meccanico Landru, lasciandosi appassionare dalle gesta dei personaggi, dalle loro storie anche bizzarre e da una strana voglia di esserci voluti essere, con loro o con altri come loro, almeno per un giorno, per avere idea di come davvero si viveva.

lunedì 14 febbraio 2011

Donatella Di Pietrantonio, “Mia madre è un fiume”.

I ricordi di una vita difficile, passata nei campi a seminare il grano e far pascolare le pecore, e poi ancora a far tornare i conti nell’attesa di un destino migliore, mentre quello che è dato non lascia presagire nulla di buono, destano sempre interesse in chi non li ha vissuti in prima persona, mentre suscitano almeno una vena di nostalgia, nonostante le brutture sopportate, in chi li rivive nella memoria dopo anni, quando il destino sperato si è davvero rivelato.
Il libro esordio di Donatella Di Pietrantonio è un “fiume” di ricordi, che appartengono alla vita di una madre, ormai anziana, che ha vissuto la sua giovinezza negli anni quaranta nelle campagne dell’Abruzzo. Ma i ricordi della madre non è lei stessa a rievocarli, quanto sua figlia, dato che la vecchiaia la sta privando della capacità di raffigurarli per intero e nella giusta sequenza. Così nei continui incontri tra madre e figlia, in cui riaffiorano le memorie d’una famiglia con le sue gesta, le sue aspirazioni, e i precetti a cui obbedire, l’interesse dell’osservatore esterno e la nostalgia di chi ne è implicato si traducono in poesia.
Devo dire che l’approccio a questo libro non è stato molto facile per me, per la scelta stilistica adottata: l’unica voce narrante, infatti, che è quella della figlia, sovrappone i suoi pensieri al racconto che lei stessa fa alla madre, rievocandone il passato, o alla descrizione che fa di sé ad un ascoltatore virtuale (che è il lettore). Il tutto, peraltro, facendo un uso abbondante del discorso diretto e astraendosi totalmente dal contesto materiale in cui si trova, mentre narra in prima persona. Insomma, mi smarrivo un po’, perdevo il filo del discorso. Mi sentivo sconfitto perché non riuscivo ad aggrapparmi a nulla che rassomigliasse a un chi, a un dove, a un come e a un quando.
Andando avanti, però, tutto è cambiato e, in un’ottica diversa, perfino il discorso diretto ha finito con l’apparirmi una scelta studiata, cruciale ed eccellente, per almeno due motivi: il meno importante è che, in una raffigurazione scenica del tutto inesistente e nell’assenza anche di qualsiasi dialogo fra i personaggi, lascia immaginare le due donne calate in un contesto a loro familiare o in cui quantomeno si trovano a loro agio (io, ad esempio, me le immaginavo sempre l’una accanto all’altra. Forse talvolta che si tenevano per mano. In una stanza con divani e sedie ordinate. La televisione spenta e pochi rumori che provenivano dall’esterno. Il più delle volte, in un tardo pomeriggio, all’ora in cui cominciano ad accendersi i riscaldamenti in casa e fuori incombe il buio); il motivo più importante è che, usando il discorso diretto, la figlia, che per ovvietà non può avere vissuto la giovinezza insieme alla madre, sembra partecipare maggiormente ai suoi ricordi, mostrando quasi di averli fatti propri e di condividerli, descrivendo, così, un’intimità familiare, che purtroppo si rivela essere stata acquistata troppo tardi.
Il tema drammatico che il libro affronta, infatti, è l’inafferrabilità del tempo, raffigurata nel momento in cui l’amore fra le due donne protagoniste tocca il suo culmine, ma anche in quello in cui alle due donne non resta che assistere, a causa della malattia che riduce la memoria della madre, alla sua inesorabile dissoluzione.
Minimalista, impresso a grosse pennellate. Suadente.

mercoledì 9 febbraio 2011

Alessia Gazzola, “L’allieva”.

Fra le tante novità editoriali annunciate per lo scorso gennaio ce n’era una la cui autrice, prima di allora ignota al grande pubblico, veniva presentata come “capace di scrivere romanzi alla Patricia Cornwell con personaggi però simili a quelli di Bridget Jones... il tutto partendo dalla stessa terra di Camilleri”. L’autrice era Alessia Gazzola, medico chirurgo di Messina, specializzando in medicina legale, e il suo romanzo d’esordio “L’allieva”.
Un po’ perché incuriosito dalla presentazione, un po’ (devo anche dirlo) per campanilismo (regionale), il 27 gennaio 2011, giorno dell’uscita, il libro era già fra le mie mani.
Ora che ho finito di leggerlo, l’unica cosa che temo è di non essere in grado di riuscire a descrivere appieno il fascino che mi ha abbracciato dalla prima all’ultima pagina. Mai, infatti, in un sol momento ho creduto di annoiarmi o di perdermi in ridondanze e in lungaggini messe là apposta per allungare il brodo; anzi, al contrario, ho costantemente pensato di avere per le mani un’opera genuina, fresca, non originalissima (se penso proprio a Bridget Jones), ma di sicuro effetto. In una parola: deliziosa.
La voce narrante è quella della protagonista principale, Alice Allevi, una specializzanda in medicina legale (vi dice niente?) che, per una serie di coincidenze fortunose e sfortunate, si trova a risolvere da sola un caso di sospetto omicidio. Alice è, infatti, bistrattata dai professori del suo dipartimento e nessuno di questi è disposto a darle credito, prendendo sotto gamba le sue timide intuizioni. Lei è perspicace, si, ma anche alquanto goffa e combina-guai; è preparata, ma anche insicura; è affascinante, ma è pure ignara delle proprie potenzialità. E poi che dire della sfera privata? Purtroppo, anche in campo amoroso, ad Alice, le cose non vanno affatto come devono andare…
Il romanzo è la storia della rivalsa di Alice camuffata da thriller, che nel suo genere definirei anche picaresca. Al suo interno c’è tutto quel che ci si può aspettare dal suo genere: l’inconciliabilità fra la pura passione per l’attività professionale svolta e la diligenza che la stessa richiede, la poca trasparenza nei rapporti coi colleghi di lavoro, il rischio di trovarsi in situazioni difficili, se non anche pericolose, l’influenza dei rapporti personali sulla sfera lavorativa, e tante altre situazioni simili che portano la protagonista a perdere sempre più la stima di sé stessa, fino a quando, però, la verità e i sentimenti, inevitabilmente, cominciano a venire galla, restituendole o concedendole per la prima volta tutte le soddisfazioni che si sarebbe aspettata da prima.
E’ un bell’esordio, non c’è dubbio, per Alice Allev… ops, per Alessia Gazzola, volevo dire, che ha certamente attinto alle proprie esperienze (tant’è che ancora adesso mi domando quanto ci sia di autobiografico in questa simpatica favola) per portare a termine un’opera completa, ma al tempo stesso schietta, con pochi ma personaggi ma ben caratterizzati e priva di qualunque azione complicante che l’avrebbe appesantita inutilmente.
Lo indicherei particolarmente come medicina per recuperare il buon umore, come una cosiddetta lettura da spiaggia, da farsi peraltro senza disdegnare, sia pur incidentalmente, la riflessione su alcuni temi attualissimi e coinvolgenti come l’effetto della fuga di notizie o delle conclusioni affrettate nella fase delle indagini preliminari all’esercizio dell’azione penale.

venerdì 4 febbraio 2011

Clara Sanchez, “Il profumo delle foglie di limone”

Juliàn e Sandra hanno vite completamente diverse. L’uno, ormai anziano, ha negli occhi ancor oggi i ricordi drammatici dei giorni vissuti nel campo di concentramento nazista di Mauthausen, ove era stato rinchiuso quale prigioniero politico; l’altra, neanche trentenne, si affligge per le difficoltà e i mali che la vita moderna reca con sé: la mancanza di lavoro, la paura di non riuscire a dare un padre degno al figlio che porta in grembo, l’apatia per mancanza di veri ideali.
Seppur distanti e apparentemente inconciliabili, Juliàn e Sandra, però, fanno conoscenza in un piccolo paese della Costa Blanca, in Spagna, ove scoprono essere complici involontari l’una dell’altro, finendo per sostenersi moralmente a vicenda e divenire amici.
L’occasione, nata dalla fantasia provocatrice dell’autrice, è data dal fatto che Juliàn, venuto a sapere che nel paesino spagnolo si è stanziata una stretta ma ben organizzata comunità di quei nazisti che aveva conosciuto, a sue spese, nel campo di concentramento in cui era stato rinchiuso durante la giovinezza, vi si reca con l’intento di potersi in qualche modo vendicare. Nello stesso paese, che diviene teatro di una singolare caccia all’uomo, Sandra cerca di dare un senso alla sua vita, stando per un po’ di tempo lontana dal caos delle grandi città e dalle opprimenti attenzioni della sua famiglia. Il suo tentativo la porta a familiarizzare con due gentili e apparentemente fragili signori anziani, Fredrik e Karin Christensen, che fanno le veci dei nonni che ha da sempre desiderato e che la accolgono in casa loro, prendendosi cura di lei, facendola sentire col tempo sempre di più parte integrante della famiglia. Ben presto, però, com’era inevitabile, anche per l’intervento di Juliàn, apprende che quei due gentili signori anziani sono stati tra i più sanguinari e spietati nazisti che hanno tratto fama e giovamento dal campo di Mauthausen.
Da quel momento, la storia diviene è un crescendo di spionaggi maldestri ed errori rocamboleschi, salvataggi per il rotto della cuffia e sudori freddi, rivelandosi non del tutto avvincente, ma destando un sicuro interesse.
Anche se l’opinione ricorrente su questo libro lo vuol fare rientrare fra quelli destinati a conservare la memoria storica della tragedia legata alle persecuzioni ed alle violenze operate dal nazismo, a mio parere, il vero tema, quello centrale, è la ricerca del sentimento puro dell’amicizia, sgrezzato dalle circostanze, dalle apparenze e dai secondi fini. Probabilmente il mio pensiero non sarà mai condiviso, ma la sensazione che ho è di vedere nell’elemento storico semplicemente un solco, sul quale la storia si dispiega destando l’interesse rinnovato al cospetto di fatti noti. Quel che mi convince maggiormente della mia opinione è il dato che la narrazione è affidata, in modo certamente originale, di capitolo in capitolo, a Sandra e Juliàn, alternativamente, e l’attenzione dell’uno e dell’altra è concentrata soprattutto sui rapporti umani, in generale, e sul rapporto di amicizia che nasce fra di loro, in particolare; sulle attenzioni, gli scrupoli di coscienza, le preoccupazioni, le angosce che condividono, sul piacere di rincontrarsi e di confrontarsi. Attraverso Juliàn, Sandra impara, infatti, a conoscere un passato di cui aveva sentito dire, ma sul quale non aveva mai riflettuto abbastanza, inoltre, arricchisce il suo presente, divenendo forte e più sicura di quanto non lo era mai stata, e si prepara ad affrontare meglio il futuro.
E, nel futuro di Sandra, per prima cosa c’è la nascita del figlio, quello stesso che ha portato in grembo per tutti i lunghi mesi che è rimasta in casa dei Christensen, che è stato partecipe della sua stessa avventura e il cui nome non potrà che rifletterne l’intensità.
Ciò è quel che nasconderà il suo nome, o meglio ancora, con le parole di Sandra rivolgendosi a lui: “lo que esconde tu nombre”, che poi è anche il titolo originale del libro.
A tal proposito, ancora una volta mi ritrovo a criticare la cattiva abitudine di cambiare il titolo, senza tradurlo semplicemente. “Il profumo delle foglie di limone”, per chi vuole ancora capire cosa c’entri, è semplicemente la prima sensazione olfattiva che la località della Costa Blanca aveva offerto a Sandra, appena giunta, lasciandole pregustare la permanenza soave, tranquilla e rilassante che, invece, non ha avuto.