lunedì 14 febbraio 2011

Donatella Di Pietrantonio, “Mia madre è un fiume”.

I ricordi di una vita difficile, passata nei campi a seminare il grano e far pascolare le pecore, e poi ancora a far tornare i conti nell’attesa di un destino migliore, mentre quello che è dato non lascia presagire nulla di buono, destano sempre interesse in chi non li ha vissuti in prima persona, mentre suscitano almeno una vena di nostalgia, nonostante le brutture sopportate, in chi li rivive nella memoria dopo anni, quando il destino sperato si è davvero rivelato.
Il libro esordio di Donatella Di Pietrantonio è un “fiume” di ricordi, che appartengono alla vita di una madre, ormai anziana, che ha vissuto la sua giovinezza negli anni quaranta nelle campagne dell’Abruzzo. Ma i ricordi della madre non è lei stessa a rievocarli, quanto sua figlia, dato che la vecchiaia la sta privando della capacità di raffigurarli per intero e nella giusta sequenza. Così nei continui incontri tra madre e figlia, in cui riaffiorano le memorie d’una famiglia con le sue gesta, le sue aspirazioni, e i precetti a cui obbedire, l’interesse dell’osservatore esterno e la nostalgia di chi ne è implicato si traducono in poesia.
Devo dire che l’approccio a questo libro non è stato molto facile per me, per la scelta stilistica adottata: l’unica voce narrante, infatti, che è quella della figlia, sovrappone i suoi pensieri al racconto che lei stessa fa alla madre, rievocandone il passato, o alla descrizione che fa di sé ad un ascoltatore virtuale (che è il lettore). Il tutto, peraltro, facendo un uso abbondante del discorso diretto e astraendosi totalmente dal contesto materiale in cui si trova, mentre narra in prima persona. Insomma, mi smarrivo un po’, perdevo il filo del discorso. Mi sentivo sconfitto perché non riuscivo ad aggrapparmi a nulla che rassomigliasse a un chi, a un dove, a un come e a un quando.
Andando avanti, però, tutto è cambiato e, in un’ottica diversa, perfino il discorso diretto ha finito con l’apparirmi una scelta studiata, cruciale ed eccellente, per almeno due motivi: il meno importante è che, in una raffigurazione scenica del tutto inesistente e nell’assenza anche di qualsiasi dialogo fra i personaggi, lascia immaginare le due donne calate in un contesto a loro familiare o in cui quantomeno si trovano a loro agio (io, ad esempio, me le immaginavo sempre l’una accanto all’altra. Forse talvolta che si tenevano per mano. In una stanza con divani e sedie ordinate. La televisione spenta e pochi rumori che provenivano dall’esterno. Il più delle volte, in un tardo pomeriggio, all’ora in cui cominciano ad accendersi i riscaldamenti in casa e fuori incombe il buio); il motivo più importante è che, usando il discorso diretto, la figlia, che per ovvietà non può avere vissuto la giovinezza insieme alla madre, sembra partecipare maggiormente ai suoi ricordi, mostrando quasi di averli fatti propri e di condividerli, descrivendo, così, un’intimità familiare, che purtroppo si rivela essere stata acquistata troppo tardi.
Il tema drammatico che il libro affronta, infatti, è l’inafferrabilità del tempo, raffigurata nel momento in cui l’amore fra le due donne protagoniste tocca il suo culmine, ma anche in quello in cui alle due donne non resta che assistere, a causa della malattia che riduce la memoria della madre, alla sua inesorabile dissoluzione.
Minimalista, impresso a grosse pennellate. Suadente.

mercoledì 9 febbraio 2011

Alessia Gazzola, “L’allieva”.

Fra le tante novità editoriali annunciate per lo scorso gennaio ce n’era una la cui autrice, prima di allora ignota al grande pubblico, veniva presentata come “capace di scrivere romanzi alla Patricia Cornwell con personaggi però simili a quelli di Bridget Jones... il tutto partendo dalla stessa terra di Camilleri”. L’autrice era Alessia Gazzola, medico chirurgo di Messina, specializzando in medicina legale, e il suo romanzo d’esordio “L’allieva”.
Un po’ perché incuriosito dalla presentazione, un po’ (devo anche dirlo) per campanilismo (regionale), il 27 gennaio 2011, giorno dell’uscita, il libro era già fra le mie mani.
Ora che ho finito di leggerlo, l’unica cosa che temo è di non essere in grado di riuscire a descrivere appieno il fascino che mi ha abbracciato dalla prima all’ultima pagina. Mai, infatti, in un sol momento ho creduto di annoiarmi o di perdermi in ridondanze e in lungaggini messe là apposta per allungare il brodo; anzi, al contrario, ho costantemente pensato di avere per le mani un’opera genuina, fresca, non originalissima (se penso proprio a Bridget Jones), ma di sicuro effetto. In una parola: deliziosa.
La voce narrante è quella della protagonista principale, Alice Allevi, una specializzanda in medicina legale (vi dice niente?) che, per una serie di coincidenze fortunose e sfortunate, si trova a risolvere da sola un caso di sospetto omicidio. Alice è, infatti, bistrattata dai professori del suo dipartimento e nessuno di questi è disposto a darle credito, prendendo sotto gamba le sue timide intuizioni. Lei è perspicace, si, ma anche alquanto goffa e combina-guai; è preparata, ma anche insicura; è affascinante, ma è pure ignara delle proprie potenzialità. E poi che dire della sfera privata? Purtroppo, anche in campo amoroso, ad Alice, le cose non vanno affatto come devono andare…
Il romanzo è la storia della rivalsa di Alice camuffata da thriller, che nel suo genere definirei anche picaresca. Al suo interno c’è tutto quel che ci si può aspettare dal suo genere: l’inconciliabilità fra la pura passione per l’attività professionale svolta e la diligenza che la stessa richiede, la poca trasparenza nei rapporti coi colleghi di lavoro, il rischio di trovarsi in situazioni difficili, se non anche pericolose, l’influenza dei rapporti personali sulla sfera lavorativa, e tante altre situazioni simili che portano la protagonista a perdere sempre più la stima di sé stessa, fino a quando, però, la verità e i sentimenti, inevitabilmente, cominciano a venire galla, restituendole o concedendole per la prima volta tutte le soddisfazioni che si sarebbe aspettata da prima.
E’ un bell’esordio, non c’è dubbio, per Alice Allev… ops, per Alessia Gazzola, volevo dire, che ha certamente attinto alle proprie esperienze (tant’è che ancora adesso mi domando quanto ci sia di autobiografico in questa simpatica favola) per portare a termine un’opera completa, ma al tempo stesso schietta, con pochi ma personaggi ma ben caratterizzati e priva di qualunque azione complicante che l’avrebbe appesantita inutilmente.
Lo indicherei particolarmente come medicina per recuperare il buon umore, come una cosiddetta lettura da spiaggia, da farsi peraltro senza disdegnare, sia pur incidentalmente, la riflessione su alcuni temi attualissimi e coinvolgenti come l’effetto della fuga di notizie o delle conclusioni affrettate nella fase delle indagini preliminari all’esercizio dell’azione penale.

venerdì 4 febbraio 2011

Clara Sanchez, “Il profumo delle foglie di limone”

Juliàn e Sandra hanno vite completamente diverse. L’uno, ormai anziano, ha negli occhi ancor oggi i ricordi drammatici dei giorni vissuti nel campo di concentramento nazista di Mauthausen, ove era stato rinchiuso quale prigioniero politico; l’altra, neanche trentenne, si affligge per le difficoltà e i mali che la vita moderna reca con sé: la mancanza di lavoro, la paura di non riuscire a dare un padre degno al figlio che porta in grembo, l’apatia per mancanza di veri ideali.
Seppur distanti e apparentemente inconciliabili, Juliàn e Sandra, però, fanno conoscenza in un piccolo paese della Costa Blanca, in Spagna, ove scoprono essere complici involontari l’una dell’altro, finendo per sostenersi moralmente a vicenda e divenire amici.
L’occasione, nata dalla fantasia provocatrice dell’autrice, è data dal fatto che Juliàn, venuto a sapere che nel paesino spagnolo si è stanziata una stretta ma ben organizzata comunità di quei nazisti che aveva conosciuto, a sue spese, nel campo di concentramento in cui era stato rinchiuso durante la giovinezza, vi si reca con l’intento di potersi in qualche modo vendicare. Nello stesso paese, che diviene teatro di una singolare caccia all’uomo, Sandra cerca di dare un senso alla sua vita, stando per un po’ di tempo lontana dal caos delle grandi città e dalle opprimenti attenzioni della sua famiglia. Il suo tentativo la porta a familiarizzare con due gentili e apparentemente fragili signori anziani, Fredrik e Karin Christensen, che fanno le veci dei nonni che ha da sempre desiderato e che la accolgono in casa loro, prendendosi cura di lei, facendola sentire col tempo sempre di più parte integrante della famiglia. Ben presto, però, com’era inevitabile, anche per l’intervento di Juliàn, apprende che quei due gentili signori anziani sono stati tra i più sanguinari e spietati nazisti che hanno tratto fama e giovamento dal campo di Mauthausen.
Da quel momento, la storia diviene è un crescendo di spionaggi maldestri ed errori rocamboleschi, salvataggi per il rotto della cuffia e sudori freddi, rivelandosi non del tutto avvincente, ma destando un sicuro interesse.
Anche se l’opinione ricorrente su questo libro lo vuol fare rientrare fra quelli destinati a conservare la memoria storica della tragedia legata alle persecuzioni ed alle violenze operate dal nazismo, a mio parere, il vero tema, quello centrale, è la ricerca del sentimento puro dell’amicizia, sgrezzato dalle circostanze, dalle apparenze e dai secondi fini. Probabilmente il mio pensiero non sarà mai condiviso, ma la sensazione che ho è di vedere nell’elemento storico semplicemente un solco, sul quale la storia si dispiega destando l’interesse rinnovato al cospetto di fatti noti. Quel che mi convince maggiormente della mia opinione è il dato che la narrazione è affidata, in modo certamente originale, di capitolo in capitolo, a Sandra e Juliàn, alternativamente, e l’attenzione dell’uno e dell’altra è concentrata soprattutto sui rapporti umani, in generale, e sul rapporto di amicizia che nasce fra di loro, in particolare; sulle attenzioni, gli scrupoli di coscienza, le preoccupazioni, le angosce che condividono, sul piacere di rincontrarsi e di confrontarsi. Attraverso Juliàn, Sandra impara, infatti, a conoscere un passato di cui aveva sentito dire, ma sul quale non aveva mai riflettuto abbastanza, inoltre, arricchisce il suo presente, divenendo forte e più sicura di quanto non lo era mai stata, e si prepara ad affrontare meglio il futuro.
E, nel futuro di Sandra, per prima cosa c’è la nascita del figlio, quello stesso che ha portato in grembo per tutti i lunghi mesi che è rimasta in casa dei Christensen, che è stato partecipe della sua stessa avventura e il cui nome non potrà che rifletterne l’intensità.
Ciò è quel che nasconderà il suo nome, o meglio ancora, con le parole di Sandra rivolgendosi a lui: “lo que esconde tu nombre”, che poi è anche il titolo originale del libro.
A tal proposito, ancora una volta mi ritrovo a criticare la cattiva abitudine di cambiare il titolo, senza tradurlo semplicemente. “Il profumo delle foglie di limone”, per chi vuole ancora capire cosa c’entri, è semplicemente la prima sensazione olfattiva che la località della Costa Blanca aveva offerto a Sandra, appena giunta, lasciandole pregustare la permanenza soave, tranquilla e rilassante che, invece, non ha avuto.

venerdì 28 gennaio 2011

Rebecca Hunt, “Il cane nero”

Più che un romanzo, il libro esordio di Rebecca Hunt, intitolato il Cane nero, andrebbe correttamente identificato come un lungo racconto. Infatti, sono poche le scene, pochi i personaggi, pochissimi se non inesistenti gli intrecci ed uno solo è il tema rappresentato: lo stato depressivo.
La storia è ambientata nei giorni che vanno dal 22 al 27 luglio 1964, sebbene -a onor del vero- di ambientazione c’è davvero poco o nulla, per cui, se non fosse per un unico riferimento storico di cui dirò fra poco, potrebbe dirsi collocato in qualunque epoca moderna.
Una giovane bibliotecaria inglese di nome Esther sente ancora con forza la morte del marito, avvenuta un paio d’anni prima. Questa circostanza la costringe a chiudersi in una crescente malinconia e ad allontanarsi dalla vita sociale. In modo originale (ma per niente avvincente), lo stato psicologico di Esther si materializza sotto forma di un cane nero, che si presenta il 22 luglio del 1964 alla sua porta, presentandosi col nome di Mr. Chartwell, e invade in poche ore la sua vita, allo scopo palese di volerla trascinare sempre più in basso, rendendola definitivamente e irrimediabilmente depressa.
Al racconto di Esther e del suo cane nero è alternato quello di Sir Winston Churchill, che sta per dare le dimissioni da parlamentare, al termine della sua lunga e gloriosa carriera (che avverrà, al termine del racconto, il 27 luglio 1964). Anche l’ex primo inglese è afflitto dallo stato psicologico che ha colto Esther, ma nel suo caso, oltreché per ragioni familiari, che vengono rivelate (quali la morte di due figlie, una per malattia giovanissima e l’altra suicida quand’era ormai matura), anche, come si presume, per le tante vicende difficili affrontate e legate al sistema politico e sociale del paese. Il suo cane nero è lo stesso che fa visita ad Esther.
In maniera -oserei dire- scontata, la storia si conclude con l’incontro fortuito fra Churchill ed Esther, alla presenza del cane, e da a entrambi l’opportunità di riflettere sul male che li ha colpiti e sulla possibilità di poterlo gestire, se non sconfiggere.
Il libro si legge presto presto. E’ una storia in cui ogni cosa viene da subito riversata sulle pagine, nonostante lo sforzo goffo e impacciato dell’autrice di volere ritardare la rivelazione di alcuni particolari (primo fra tutti, ad esempio, la morte del marito di Esther che, pur essendo evidente già a partire da pag. 3 o 4, viene celata fino a forse tre quarti del libro con punti di sospensione o con espressioni verbali che “dicono e non dicono” e che risultano delle forzature inutili). In sostanza, non è decisamente il tipo di racconto in cui ci si lascia trascinare dalla curiosità. Ma non è neanche quello in cui si apprezza la profondità di un pensiero o in cui si rimane colpiti dalla rappresentazione dei fatti o dall’alternanza fra realtà e finzione. Se poi si aggiunge, come ho appreso per caso solo dopo avere letto il libro, che il cane nero nella diffusissima tradizione britannica è una creatura d’invenzione simboleggiante i cattivi auspici, si rischia anche di togliere quel poco di originalità che il libro sembrava avere.
Tolto ciò, quel che resta, allora, è un dubbio: a parte i toni entusiastici dell’editore, che deve far cassa con un’opera di cui si è aggiudicato i diritti senza conoscerne i contenuti, mi chiedo cosa mai abbiano letto i recensori del Daily Telegraph, ai quali il libro è apparso “straordinario” o del Guardian, per i quali è risultato “esuberante [e] lo stile di Rebecca Hunt arguto e vivace. Sfrontato, originale e divertentissimo” o ancora dell’Observer che hanno suggellato un “esordio notevole” della Hunt, e infine dell’Independent, per i quali il libro “seduce, diverte e commuove”. Questo proprio non me lo spiego. Lo giuro.
Invito chiunque al leggerlo e a smentire la mia grande delusione.

martedì 25 gennaio 2011

Jonathan Coe, “La famiglia Winshow”.

Michael Owen viene assunto per scrivere “un libro tremendo, un libro senza precedenti, fatto in parte di memorie private, in parte di cronaca sociale, tutto mescolato insieme in una miscela letale e devastante”, ma quando gli viene dato l’incarico lui ancora tutto questo non lo sa. Lo apprenderà col tempo, conoscendo a poco a poco la famiglia Winshaw, i suoi segreti privati e le sue relazioni col mondo.
I componenti dell’ultima generazione della famiglia Winshow sono i simboli del potere, nelle sue diverse forme, nell’Inghilterra degli anni ’80. Politica, mercato azionario, produzione alimentare, armi, arte e informazione sono i luoghi in cui si esercita principalmente il potere e ogni Winshow trae profitto in modo quasi sempre illegale, poco trasparente e parassitario da ciascuno di tali settori, confidando nella carta vincente del sodalizio familiare.
Se, però, in un sistema che è fatto di corruzioni, ricatti e scambi di favori le armi si vendono con l’aiuto della politica, la produzione alimentare si incentiva con qualche ritocco sui mercati azionari e l’arte si riconosce solo dove la stampa che vale ne fa menzione, chi ne fa le spese è sempre e soltanto il popolo.
Mentre i personaggi accrescono la loro forza e le loro ricchezze in questo modo, dallo sfondo si vede accrescere il prestigio di Margareth Tatcher, il primo ministro inglese ricordato come la “dama di ferro”, per non avere avuto scrupoli nell’applicare le proprie leggi a svantaggio molte volte degli interessi delle masse, e sul fronte internazionale, si fa conoscenza con un certo Hussein, Saddam Hussein, che invece accresce la sua forza in Iraq, grazie alla complicità e agli aiuti degli Stati Uniti d’America, ai quali si affianca, per non essere da meno e per potere investire forze ed economie, l’Inghilterra.
Sebbene trovi un po’ d’imbarazzo a commentare l’opera, forse, più famosa di Jonathan Coe, solamente adesso, a distanza di diciassette anni dalla sua prima edizione, non posso tacere la meraviglia che ha suscitato in me quando ho ritrovato le capacità straordinarie dell’autore di mettere in scena un guazzabuglio di nomi, avvenimenti, pensieri, luoghi, dialoghi e chi più ne ha più ne metta, dedicandosi poi, con pazienza, per tutto il corso della narrazione, a districare i fili e sciogliere in nodi apparentemente più difficili, accompagnando quasi per mano il lettore, sino all’ultima riga, al bandolo della matassa. Non c’è un dialogo, infatti, che risulti semplicemente riempitivo o un dettaglio, anche banale, che non sia utile allo scopo finale. Tutto nell’accozzaglia troverà al termine il suo giusto posto e la sua corretta collocazione, come in un perfetto thriller che fa stare col fiato sospeso.
Autorevole, magistrale, unica, poi, è la capacità dell’autore di indugiare, quasi affondandovi, nei moti interiori dell’animo di Michael Owen, al quale, oltretutto, assegna in modo assolutamente originale il compito di essere anche il narratore per tutta la prima metà del romanzo, facendolo divenire poi, nella seconda parte, dopo un evento che non starò certo qui a raccontare (ma che ha un che di illuminante, almeno per Owen) un mero personaggio narrato.
La famiglia Winshow, come bene è stato detto, è un libro denuncia. C’è chi preferisce vederlo come una finestra sull’Inghilterra degli anni ’80, ma io preferisco concepirlo come un monito per le generazioni future, ancor più quando gli eventi narrati, seppur arricchiti da una notevole fantasia, tracciano la nascita di uno spirito prepotente ed egoista ancora ben noto al mondo contemporaneo e di cui, purtroppo, si conoscono anche le conseguenze, e nulla si fa per porvi rimedio.

giovedì 13 gennaio 2011

Michel Houellebecq, “La carta e il territorio”.

La carta è il territorio. Mi sono messo a pensare cosa avrei scritto di questo libro e non mi veniva in mente un buon inizio. Mi sarebbe piaciuto, infatti, cominciare dalla fine - dalla fine del romanzo, intendo - ma poi non riuscivo a immaginare come riemergere per riportarmi ai suoi primi capitoli. Eppure è tutt’altro che un ginepraio di trame intrecciate o una storia dai troppi personaggi che finiscono per confonderti le idee. Né richiede un’attenzione particolare in ordine ai temi affrontati. E’ semplicemente un romanzo. O forse due. Beh, l’ho detto e ora non posso più tirarmi indietro.
Dopo un breve prologo, il libro si divide in tre parti a cui fa seguito un lungo epilogo. Il prologo e le prime due parti raccontano il periodo più fortunato della vita di Jed Martin, artista grafico che conosce presto il successo e che diviene ricco sfondato grazie ad una serie di circostanze volute più, se non esclusivamente, da chi lo circonda e sa sfruttare l’arte pura delle sue rappresentazioni, che non da sé stesso. E’ l’unico periodo in cui Jed instaura dei veri rapporti sociali. Venuto da una famiglia in cui la madre si era tolta la vita ancor giovane e il padre era spesso assente per ragioni legate al suo lavoro, Jed cresce, infatti, solo, fino al momento, appunto, in cui comincia il romanzo.
Giunto alla terza parte, invece, il lettore ha l’impressione di aver cambiato libro. Improvvisamente si trova fra le mani un thriller, con ambienti e personaggi diversi da quelli narrati fino a quel punto. Il commissario Jacelin si torva a dover risolvere il caso più misterioso e sconvolgente che gli sia mai capitato nella sua carriera: un killer spietato ha mozzato la testa della sua vittima e del suo cane ed ha poi ridotto a brandelli i loro corpi, sparpagliandoli nella casa di campagna in cui ha commesso l’omicidio. Solo negli ultimi capitoli, la storia di Jed e quella del commissario Jacelin si incontrano, dando la svolta alle indagini che si attendeva.
Nell’epilogo, invece, la narrazione si sposta fin oltre il terzo decennio del 2000, ad osservare da lontano quel che è stato e quel che ne è adesso di Jed; di quell’artista dalle grandi risorse che fece tanto parlare di sé intorno al 2010.
Lo interpreto come un romanzo che vuole riportare l’arte e il pragmatismo nei loro giusti ambiti. Uno spaccato, certo non comune e non immediatamente accessibile, del mondo contemporaneo, nel quale si osserva come la propensione all’arte non è solo o necessariamente fonte di grazia e di successo, ma può essere anche un fardello odioso per chi ne viene coinvolto, quasi fosse una malattia inguaribile. E, infine, in cui si rammenta, con fare sottilmente polemico, come persino il gusto estetico - oltre, s’intuisce, a tanti altri valori - può risultare il prodotto di una moda indotta dalla capacità di persuasione dei grandi nomi della stampa.
Per concludere, voglio segnalare, perché la cosa mi è sembrata straordinariamente originale, che l’autore si è fatto personaggio del romanzo, apparendo e scomparendo, insegnando ed apprendendo, in uno spirito cupo, ma pregno di tensioni, che lo avvicina enormemente al protagonista Jed. Ciò, senza dir della (anch’essa più che originale) sorte che ha assegnato a sé stesso.

mercoledì 5 gennaio 2011

Jean Michel Guenassia, “Il club degli incorreggibili ottimisti”.

Mi ero trovato a indugiare sul titolo di questo libro e in particolare sull’aggettivo “incorreggibile” anteposto ad “ottimista”. Non avevo idea del perché fosse stato scelto quello e non, ad esempio, il suo sinonimo “inguaribile”, ma avevo la sensazione che non rispondesse ad una scelta del tutto appropriata. Se, infatti, tanto “inguaribile” che “incorreggibile”, da intendersi entrambi nell’accezione figurata, si definiscono come incallito, accanito o irriducibile, l’“inguaribile ottimista” a me suonava più come un appellativo riferibile a chi ha ceduto, involontariamente, all’inclinazione naturale della sua personalità, che qui è l’ottimismo appunto, dalla quale non può essere liberato; mentre l’“incorreggibile ottimista” lo riferivo a chi, per sua scelta, si è dato un atteggiamento, un carattere, quasi a volere costruire artificialmente una personalità che niente e nessuno può riuscire a fargli cambiare. In sostanza, mi riusciva difficile pensare che l’autore del libro avesse immaginato un club di persone che avessero voluto instillarsi a forza un aspetto del carattere che, di norma, risulta innato. Così, intanto, sono andato subito a cercare il titolo originale, per verificare se quella scelta fosse dell’autore, del traduttore o addirittura dell’editore. Quel che ho scoperto, però, è che, per quanto il francese non sia la mia seconda lingua, quella scelta doveva essere stata fatta proprio dall’autore, sembrandomi fedele la traduzione di “le Club des incorrigibles optimistes”.
Dopodiché, non avendo altri appigli per darmi una risposta, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era cominciare a leggere. Alla fine mi sono reso conto di avere fatto un meraviglioso lungo viaggio nella Francia a cavallo degli anni ’50 e ’60 del XX secolo.
Due cose caratterizzavano la Francia di quell’epoca: il boom economico seguito al secondo conflitto mondiale e la guerra d’indipendenza algerina. Eventi, questi, che costituiscono lo sfondo della narrazione; uno sfondo che si potrebbe definire attivo, come una rete fluttuante in cui, inevitabilmente, i personaggi, prima o poi, finiscono imbrigliati. La trama del romanzo è costituita dalle esperienze adolescenziali di Michel Marini, figlio di immigrati italiani che si sono arricchiti a Parigi, che vivono tutte le incertezze legate al denaro, le ipocrisie del tempo e guardano con fare sospetto a tutto ciò che minaccia di compromettere il mondo in cui si sono ambientati. Nella vita di Michel che, da una vita agiata in una famiglia all’apparenza felice, si trova col tempo (a causa proprio di quello sfondo di cui ho detto) col non potere più confidare né nei suoi familiari né nei suoi amici coetanei, c’è un solo punto fermo: un club spontaneo, creato nel retro di un bistrò denominato Balto, frequentato in prevalenza da profughi dei paesi dell’Est, uomini che il più delle volte non hanno rinunciato ai propri ideali, ma che si sono trovati a fuggire da un regime che li ha fatti propri. Dopo avervi fatto capolino un giorno per pura curiosità, Michel viene presto accettato nel club come una mascotte o, più, semplicemente, come un diversivo alle storie, il più delle volte drammatiche, che ciascun socio si porta dietro dal suo paese d’origine.
Iniziano così a intervallarsi le vicende e i ricordi dei frequentatori del Balto con le nuove esperienze e la maturazione spirituale e morale di Michel. Il club si rivela presto, infatti, non soltanto un punto di ritrovo fra gente senza più amici e con una famiglia da dimenticare, ma anche un luogo di crescita e di sostegno vicendevole. Per quanto spontaneo, infatti, quella originale aggregazione di uomini ha poche ma rigorose regole e fra queste quelle di non rievocare mai il passato, accettando il presente e il futuro quale condizione che non può che essere migliore di quella da cui si proviene. E’ quindi un luogo in cui, posso dire adesso che ho finito di leggere, ci si costringe quasi a forza ad essere ottimisti. E con questo, il termine “incorreggibile” diventa certamente il più azzeccato!
Fra i tanti rimorsi di coscienza, i rammarichi e le nostalgie che trapelano nonostante le regole del club, il libro getta luce su un’epoca storica e su un regime i cui misfatti non finiscono mai di inorridire. Ma non di meno sono frequenti le sottili ironie e i mirabili scherzi del destino che rendono più accattivante il ruolo di chi apprende, parola dopo parola, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, che persino la messa in pratica degli ideali più puri ed elevati può finire per segnare tragicamente il destino di un popolo.