mercoledì 8 settembre 2010

Marie Fadel, Rafik Shami, “La città che profuma di coriandolo e di cannella”


Il libro coniuga il piacere di una passeggiata immaginaria fra le vie di Damasco e quello di apprendere, al tempo stesso, le ricette più tipiche della Siria, nella loro versione damascena.
Gli autori, fratello e sorella, vivono l’una ancora a Damasco e l’altro in Germania, in esilio forzato. L’idea del libro nasce dalle loro chiacchierate telefoniche tra un paese e l’altro, nelle quali, fra un ricordo personale e un accenno a fatti di pubblico dominio, vengono fuori curiosità, impressioni personali e, perché no, anche notizie storiche della capitale siriana, intervallate da numerose preziose ricette.
Le ricette, dal canto loro, oltre ad essere allettanti, sono descritte in modo tale da rivelare al lettore, oltre agli ingredienti con le loro dosi e le modalità di preparazione, gli accorgimenti utili a renderle quanto più simili a quelle volute dalla tradizione.
Inutile dire di più, se non che l’opera si presenta come assolutamente originale e suscita uno spirito emulativo.

Silvia Avallone, “Acciaio”.


Questo è un libro che più volte ho preso fra le mani in libreria e poi posato, certo di non volermi sorbire un mattone, quale appariva leggendone la sintesi velocemente. Dopo aver appreso, però, che ha vinto il Premio Campiello come opera prima ed è risultato finalista al Premio Strega, mi sono deciso a comprarlo, se non altro per saperne parlare.
Ecco cosa ne penso dopo averlo letto.
Non è un mattone, ma non è neanche una lettura distensiva.
Nello stile è facile, armonioso e scorrevole, mentre la narrazione appare alcune volte scontata e prevedibile, anche se ha il pregio di trattare avvenimenti crudi e descrivere personaggi tristi senza pesare troppo. Ciò, perché s’intuisce che, alla fine del tunnel, residuerà comunque la speranza per tutti di poter beneficiare, in misura maggiore o minore, della gioia di vivere. Anzi, proprio quella speranza il più delle volte viene vista come la molla per i personaggi per trovare il coraggio e la forza d’animo per evadere, se non altro coi sogni, dallo stato in cui versano quotidianamente.
L’ambientazione ricorda quella magistrale del “Non ti muovere” della Mazzantini ed è fatta di palazzi scalcinati di periferia, bambini che giocano per strada, urla e parolacce che volano dai balconi delle case e, soprattutto, dalle ciminiere della fabbrica che dà pane, fatica, speranza e a volte anche la morte.
Due ragazze, Anna e Francesca, sono al centro della scena, ma la scelta non è che occasionale, potendovi essere al posto loro qualunque altro dei personaggi descritti, essendo tutti parte del racconto e parte di un mondo fatto di ruggine e gatti smorti.
Qui, per citarne alcuni, si intrecciano, infatti, le storie dell’amicizia adolescenziale di Anna e Francesca, appunto, ma anche dell’amore trascinato fra Alessio ed Elena, della gelosia possessiva di Enrico, della sottomissione di Rosa, della pazienza di Sandra e della doppia vita di suo marito.
E’ dalla mescolanza delle loro vite, dunque, che si apre il sipario su uno spaccato verosimile, attuale ed anche molto ampio della nostra società, che non va aiutato come si fa per i bambini africani che muoiono di fame, non va sostenuto come si fa con le donne musulmane che si ribellano al burqa, non va protetto come si fa con le popolazioni indigene dell’amazzonia, ma che va comunque tenuto in considerazione tutte le volte che noi italiani ci interroghiamo chiedendoci: chi siamo?
Il premio attribuito a questo romanzo mi trova d’accordo, ma sol perché gli è stato conferito nella sua veste di opera prima. E’, secondo me, un più che valido incoraggiamento ad un’autrice di cui, sono certo, sentiremo parlare per parecchio tempo e di cui leggeremo opere ancor più belle di quella d’esordio.

Francesca Melandri, “Eva dorme”.


Eva dorme è il primo romanzo della sceneggiatrice Francesca Melandri.
L’ho comprato perché un’opera prima desta sempre curiosità, ma soprattutto perché si presume sempre che il suo autore abbia dato il massimo per presentarsi al mondo dei lettori.
Alla fine non me ne sono pentito, nonostante abbia speso una cifra folle per averlo.
La storia è semplice: Eva Huber, altoatesina, figlia di un padre che lei sola non conosce e di una madre che ha subito le umiliazioni della povera gente negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, viene raggiunta telefonicamente da Vito, un ex carabiniere calabrese, l’unico uomo che stava per sposare sua madre e che, soprattutto, avrebbe degnamente ricoperto la figura del padre che lei non ha mai avuto. Vito sta per morire e vuole vederla per l’ultima volta, dopo trent’anni che fra loro non c’è stato più alcun contatto.
Nel viaggio in treno, l’unico mezzo di trasporto che trova disponibile nel giorno di pasqua, Eva ripercorre con la memoria i giorni della sua infanzia che hanno preceduto l’ingresso di Vito nella sua casa, fino a quello in cui lui, inaspettatamente, ne è uscito per sempre.
In modo più che originale, alternati ai capitoli narrati da Eva in prima persona (che portano al posto del titolo la numerazione dei chilometri percorsi in treno), ve ne sono altri narrati in terza persona (e che portano in luogo del titolo gli anni a cui si riferiscono), in cui un narratore esterno ripercorre la storia della famiglia Huber, dal 1919 fino al 1992, movendo dalle vicissitudini del nonno materno di Eva, Herman, fino ad arrivare a quelle di sua figlia Gerda, madre di Eva, e dei suoi fratelli.
Nel libro, quindi, c’è quasi un secolo della storia d’Italia, ma più precisamente (ed è proprio questo il punto), c’è un quasi secolo della storia di una piccola regione incastonata fra le Alpi italiane ed austriache che si chiama Alto Adige o Südtirol, la quale, se è divenuta formalmente già dal 1919 suolo italiano, non sempre viene riconosciuta come tale da chi ci vive né viene trattata come tale da chi vi deve far rispettare le leggi. Ci sono il fascismo ed il Südtiroler Volkspartei, ci sono Silvius Magnago ed Aldo Moro, ci sono la strage alla stazione di Bologna ed il rastrellamento di giovani ribelli svoltosi a Tesselberg (Val Pusteria) nel settembre del 1964, e tanto altro ancora. Restano fuori solo gli -ormai tardivi- accordi di Shengen del 1998, che eliminano ogni confine fisico fra Südtirol (Italia) ed Austria, quando ormai la globalizzazione e gli interessi sovranazionali hanno seppellito ogni interesse prima fatto valere con la forza e la violenza.
Il romanzo è, dunque, la rievocazione storica, in tempo di pace, di episodi, per lo più drammatici relativi ad una integrazione forzata di un popolo straniero in territorio italiano, che l’autrice stessa afferma in epilogo essere stati già dall’epoca insabbiati o, alla meglio, portati a conoscenza dell’opinione pubblica in forma molto attenuata, se non addirittura falsata.
Le prime pagine mi hanno fatto, non poco, storcere il naso, perché non comprendevo bene quale fosse l’oggetto del racconto, se un vero racconto vi fosse o se vi fosse quantomeno un filo logico da seguire. Poi, andando avanti ho cominciato a comprendere, e gustare, la narrazione, giungendo, come dicevo, infine, ad apprezzarlo.
Gli unici appunti che mi viene da fare sono che da una sceneggiatrice navigata come la Melandri (che, da quel che apprendo ora, ha firmato molte serie tv di successo, tra le quali Fantaghirò) mi sarei aspettato maggiori dialoghi, più fantasia ed una più attenta descrizione di luoghi, persone e cose; mentre, invece, tutto ciò è ridotto all’essenziale. Inoltre, che, seppur soltanto in rari casi, gli avvenimenti realmente accaduti sono trattati come su un manuale di storia moderna, in maniera troppo analitica.
In ogni caso, il libro, opera prima della Melandri, merita di certo una lettura.

Maurizio Maggiani, “Meccanica celeste”.


Mi tolgo tanto di cappello di fronte ad un romanzo che non è un romanzo, di fronte ad una rievocazione storica degli avvenimenti, dei personaggi, delle credenze popolari e dei desideri tenuti nel cuore per una vita intera in un mondo, qual è quello descritto dall’autore, fatto di poche case sparse, alcuni villaggi, e tanti volti che sanno fare parlare di sé; un comprensorio limitato, non meglio specificato se non col termine di “distretto” sulla parte più settentrionale degli Appennini; una civiltà chiusa in sé, ma al tempo stesso completa e fiera.
L’occasione è originale: a breve verrà al mondo la prima figlia del narratore (almeno, che sia femmina è quel che lui spera) e nel desiderio di lasciare alla nuova creatura la memoria dei luoghi in cui potrà, solo per scelta sua, vivere per sempre, si avvicendano e si intrecciano i personaggi bucolici, malinconici, strampalati e divertenti, saggi e mistici, dai nomi più suggestivi come la Duse, la ‘Nita, la Santarellina, l’Omo Nudo, l’Amanteo, Don Gigliante, il Valanga e così via, con avvenimenti storici del distretto o con altri di più ampia portata, già noti al resto d’Italia ed al mondo intero, come la strage alla stazione di Bologna o i conflitti mondiali del ventesimo secolo.
Anche la nascitura, infatti, se lo vorrà, come non manca di sottolineare il suo futuro padre, sarà parte di quel mondo, ed è perciò bene istruirla ad esso. Perché, come nella meccanica celeste, appunto, nulla avviene per caso e ad ogni causa consegue un effetto, così anche gli intrighi e i misteri, le amarezze e le speranze del distretto, in cui persino le leggi dello Stato stentano a penetrare, hanno da sempre funzionato come ingredienti di una vita sana e soprattutto libera, ed è bene preservarli.
Personalmente, non ho mai amato i romanzi in cui manca una vera e propria trama, ed è per questo che ho definito la Meccanica Celeste di Maurizio Maggiani un non-romanzo, ma l’opera è così accattivante ed ogni episodio narrato così curioso e interessante che l’attenzione e il coinvolgimento in chi legge rimangono sempre alti. Lo stile, del resto, è molto scorrevole, nonostante le lunghissime digressioni. Anzi, proprio la mescolanza di fatti che ne viene fuori, l’accavallarsi di ricordi, il saltare da un avvenimento ad un altro per poi tornare indietro, dà il giusto senso letterario che l’autore, ritengo, aveva immaginato: il desiderio del narratore (questa volta) di non tralasciare nulla, con la consapevolezza, però, di non riuscirvi, avendo troppe storie importanti e significative da raccontare.
Un libro da leggere e conservare come un bel ricordo.

Khaled Hosseini, “Il cacciatore di aquiloni”.




E’ certamente uno dei libri più conosciuti, più venduti e più letti degli ultimi tempi, e per questo non ha bisogno di nessuna presentazione. Mi limiterò pertanto a fare solo qualche breve considerazione, ora che anch’io, finalmente, ho avuto il piacere di leggerlo.
Anzitutto, non posso non rilevare che il clamore che ha suscitato nel mondo dei lettori sia da ritenere più che fondato. Pensavo, infatti, specie dopo aver letto decine di libri di autori mediorientali, come pachistani, siriani, turchi, eccetera, o quantomeno di autori che trattano storie ambientate in medio oriente, di ritrovarmi di fronte alla storia schietta e ormai, ahimè, consueta, di lotte intestine, incomprensioni politiche, maltrattamenti, fughe, prevaricazioni, rigidi principi o norme di comportamento sulle cui origini si indaga. Invece, ho trovato una vera opera letteraria che va ben oltre al retroscena politico e sociale dell’Afganistan e della sua cultura, pur senza prescinderne. E’, infatti, un’opera dai contenuti forti, ma dallo stile delicato ed accattivante; in cui sia il retroscena reale che la fictio narrativa risultano tanto drammatici quanto i volti dei personaggi, i dialoghi, le scene e gli avvenimenti sono descritti in maniera limpida ed espressiva da sembrare tangibili.
Per queste doti, che certamente l’hanno portato ad essere tanto apprezzato e amato dai lettori, il cacciatore di aquiloni può essere definito, a mio giudizio, l’antesignano di tutti i romanzi ambientati in medio oriente che oggi gli editori fanno a gara a mettere sul mercato (date una scorsa ai banconi delle librerie per rendervene conto).
Un merito in più, quindi, che merita di essere menzionato.
Sul punto, peraltro, non posso fare a meno anche di osservare, non senza ironia, che proprio il commento, l’unico, che si trova impresso sulla copertina del libro (“un libro indimenticabile, emozionante come pochi”), reca la firma di un’autrice sudamericana per eccellenza, Isabel Allende, quasi a simboleggiare il passaggio di testimone da una moda ad un’altra, che ci ha portati a spostare l’obiettivo da una regione remota della terra all’altra.
Infine, mi piace ricordare Il cacciatore di aquiloni, non soltanto perché suscita l’interesse ad approfondire le ragioni storiche che hanno permesso la drammatica ascesa di potere dei talebani in Afganistan, le stesse che, da ultimo, hanno portato a violente guerre che hanno interessato il mondo intero, ma anche perché, in termini più generali, invita a riflettere sulle conseguenze (spesso negative) del potere egemonico degli stati forti su quelli deboli, specie nel momento in cui questi ultimi vedono minacciata le propria stessa cultura e l’identità del loro popolo.

giovedì 1 luglio 2010

Wendy Law-Yone, “Il seme del papavero”.


Una piccola delusione per un libro che, nel complesso, comunque, mi è piaciuto.
Come spesso accade, le note critiche che accompagnano i romanzi, specie se sono fatte dagli editori che li commercializzano, tendono a sottolinearne qualità che non si rivelano affatto o che compaiono, ma in misura decisamente più ridotta di quel che si lascia intendere. Il risultato è che, chi si è lasciato convincere dalla quarta di copertina, al termine della lettura ne ha una delusione.
Così è capitato a me leggendo Il seme del papavero. L’editore lo ha definito “intenso ed emozionante… la storia di una donna e di una rivincita. Un viaggio pieno di luce e di colore dentro un’Asia vivissima e crudele”.
Sarà forse perché recentemente ho letto tanti romanzi di provenienza orientale, forse perché sento ancora le vibrazioni di “Shantaram”, di Gregory David Roberts, il sapore amaro di “Ombre bruciate” di Kamila Shamsie, le contraddizioni di “Mehwish parla al sole” di Uzma Aslam Khan, ma proprio nel seme del papavero non ho ritrovato quell’Asia vivissima e crudele a cui altri mi avevano abituato. Così come non mi è sembrato né intenso né tantomeno emozionante. Da qui la delusione.
Il libro, però, per fortuna mia che l’ho letto, ha altre qualità. La prima fra tutte è uno stile narrativo avvincente: l’autrice, infatti, ha scelto di ripercorrere la vita di Na Ga, la protagonista, intercalando il procedere lento delle giornate che precedono il ritorno al suo (ormai, divenuto) sconosciuto paese d’origine ai ricordi più o meno vivi delle vicissitudini che l’hanno accompagnata per tutta la vita, da quando, da bambina, è stata venduta come schiava, passando dalla promessa, poi tradita, di andare a vivere in America con la famiglia che per un breve tempo si era presa cura di lei, fino ad arrivare agli anni in cui è stata costretta alla prostituzione e al carcere. Il tutto, lasciando trasparire coi tempi giusti la mentalità di Na Ga, il difficile approccio fra la sua cultura e quella occidentale e le origini della confusione mentale in cui si trova all’epoca in cui viene raccontata la sua storia.
Un altro pregio che si deve riconoscere al romanzo è il tema trattato, dato che, come lascia bene intendere, quella di Na Ga non è una storia isolata, ma altro non è che una fra le tante in cui versano ancora oggi moltissime donne originarie delle zone più remote dell’Asia che solo chi come l’autrice, originaria della Birmania, ma ormai naturalizzata cittadina americana (seppur residente in Inghilterra), può raccontare.
Infine, il miglior pregio che ho ricavato dal libro è quello che si riassume nel detto: la speranza è l’ultima a morire. Se, infatti, per tutta la trattazione affiora costantemente il desiderio di Na Gadi dare un senso alla sua vita, ricevendo però anche, tutte le volte, una delusione, nel finale, come un fiore nel deserto, si concretizza un’amicizia, nata per caso, per errore, ma conquistata e, apparentemente indissolubile, e soprattutto che, sembra tale da assegnare finalmente una direzione a una vita che, finora, non l’aveva mai avuta.
“La via per Wanting”, ovvero per il luogo simbolico, la città, Wanting, in cui la narrazione concede definitivamente il dono di una vita che abbia un senso alla protagonista, peraltro, è il titolo originale del romanzo (The road to Wanting). Chissà perché l’editore italiano lo ha poi cambiato in “il seme del papavero”? Mah!

Jamie Ford, “Il gusto proibito dello zenzero”.


Se il romanzo narra la storia d’amore travagliata, commovente a tratti deliziosa e certamente avvincente di due ragazzini appena adolescenti negli Stati Uniti d’America del 1942, il libro racchiude ben altro.
Tanto per cominciare, i due ragazzini, Henry e Keiko, pur essendo americani a tutti gli effetti, per essere nati in America, provengono da famiglie asiatiche di paesi diversi: la Cina, nel caso di Henry, e il Giappone, nel caso di Keiko, il che, nel luogo e nell’epoca in cui si svolgono i fatti, si traduce in un ostacolo insormontabile all’espressione libera dei loro sentimenti. Quel che viene fuori, anche presto, però, non è -come ci si può aspettare dapprincipio- la trita e ritrita solfa sugli emigrati provenienti da ceppi culturali molto ben radicati che pretendono di far proseguire nei loro discendenti, nati in terra straniera, le usanze e le tradizioni del popolo di appartenenza.
Il tema, infatti, parte da questo ma va ben oltre.
Nel 1942 è in atto la guerra. Il secondo conflitto mondiale, che ha visto un’escalation vertiginosa di odio degli Stati Uniti d’America, e degli americani, nei confronti del Giappone, e dei giapponesi, dopo l’attacco di Pearl Harbor. Non solo, cioè, dell’odio metaforico fra nazioni che si contendono il controllo strategico, economico e militare dell’Oceano Pacifico, ma dell’odio vero, materiale, fra la gente del popolo, vissuto per le strade delle grosse città statunitensi. Un odio che è dilagato grazie soprattutto all’ignoranza, la quale è sempre rimasta indifferente ai dati reali, per prestare ascolto maggiormente alle apparenze. Proprio per questo, la drammatica sorte che è spettata ai giapponesi in America ha minacciato costantemente persino Henry che, essendo origini cinesi, ha avuto la sfortuna di avere i tratti somatici simili a quelli di Keiko.
In questa chiave ben marcata, il libro si spinge fino a dar conto di un vero paradosso storico che è sempre stato sottaciuto: gli Stati Uniti d’America, che un vero popolo con la sua identità e la sua storia non lo hanno mai avuto, a metà del ventesimo secolo si sono spinti fino al punto da relegare in campi di concentramento tutti gli uomini di etnia nipponica, formalmente sol perché era in atto la guerra contro il Giappone. Ciò senza pensare che i civili residenti in America provenienti dal Giappone erano americani allo stesso modo di tutte le altre genti che erano provenute dal resto del mondo. A chi, infatti, in quegli anni è venuto mai in mente di discriminare allo stesso modo gli oriundi Italiani o tedeschi che risiedevano in quel paese? A nessuno. Eppure, proprio i paesi da cui questi ultimi provenivano formavano col Giappone il famoso Asse Roma-Berlino-Tokio. Il paradosso ben delineato nel libro, allora, in termini più appropriati si definisce come una vera e propria manifestazione di razzismo, di violenza psicologica, di violazione di tutte le regole morali e di tutte le norme giuridiche sul rispetto della persona umana, che hanno fondamento nell’ignoranza ed in cui, ancora una volta, ahinoi, nello sfondo c’è la grande America.
Il libro è bello e profondo. E’ da leggere certamente, anche se a scriverlo è stato un proprio un americano.