giovedì 30 giugno 2011

Carlos Ruiz Zafón, “Le luci di settembre”.

Si continua a dire che il primo romanzo di Carlos Ruiz Zafón sia stato l’“Ombra del vento”. Ciò, non per l’erronea ragione - che verrebbe, peraltro, ormai smentita dai lettori più appassionati del popolare autore - che è stato il suo primo libro a venire pubblicato in Italia, pur essendo stato solamente il quinto ad essere stato scritto. No, l’“Ombra del vento” si dice che sia il primo romanzo di Zafón in quanto sua prima opera a rientrare nella cosiddetta narrativa per adulti. Manco a farlo apposta, del resto, con l’“Ombra del vento”, Zafón ha vinto il Premio Barry assegnato proprio al miglior romanzo d’esordio nel genere mistero.
Nonostante si continui a dire così, però, ora che sono state pubblicate in Italia le opere precedenti, c’è da chiedersi se anche queste non siano degne di essere annoverate nella narrativa per adulti e mettere per ciò stesso in dubbio un primato, almeno, e un premio. Dal canto suo, l’editore italiano sembrerebbe escluderlo, visto che afferma (così nella quarta di copertina di tutte le edizioni) che, prima di arrivare al successo col suo più fortunato romanzo, Zafón “ha cominciato la sua carriera nel 1993, con una serie di libri per ragazzi”, ma quando poi si vanno a cercare i titoli dei componimenti (o, com’è stato detto, i libri per ragazzi) pubblicati dopo il 1993, vengono fuori in ordine: “Il principe nella nebbia” (1993); “Il palazzo della mezzanotte” (1994); “Le luci di settembre” (1995); e “Marina” (1999), tutti libri, cioè, in cui appare inconfondibile lo stile e la semplicità del linguaggio alla Zafón e che, se non sono degni di essere annoverati come eccellenti, non lasciano intravedere alcun elemento che li distingua dal romanzo d’esordio nella narrativa per adulti e li renda, pertanto, adatti solamente ai più giovani.
Ho finito di leggere da poco “Le luci di settembre”, un romanzo noir. Da una parte, semplicissimo, vivace e coinvolgente, dall’altra, ricco di suspense, capace di evocare le paure più ingenue che con l’età si era pensato di aver perso e di fare affiorare la pelle d’oca temendo di venire presi di soprassalto dalle proprie spalle. E’ piacevole perché non è esagerato. Ci sono ombre, misteri, inseguimenti, colluttazioni e sono pure abbondanti, ma non sono mai pesanti o ridondanti. E così pure ci sono scie di pensiero che rivelano una morale dell’autore, a metà strada fra gli avvenimenti storici presupposti e la finzione narrata, ma anche queste non viengono mai imposte al lettore, essendogli semplicemente suggerite come eventuali vie di riflessione.
La storia è ambientata nell’estate del 1937 (poco prima, cioè, della seconda guerra mondiale) in un piccolo villaggio sulla costa della Normandia, Baia Azzurra. Lì, la vedova Simone Sauvelle ha trovato lavoro come governante presso il castello di Cravenmoore, di proprietà di un ex fabbricante di giocattoli, Lazarus Jahn. Con sé, Simone ha portato i propri figli, Irene e Dorian, che sono ancora giovani. I primi tempi lasciano presagire alla famiglia un futuro luminoso. Il padrone di casa è una persona affabile e generosa, Dorian ha avuto promesso di potere imparare l’arte di costruire i giocattoli, mentre Irene, dopo aver fatto amicizia con Hannah, la giovane cuoca, si è innamorata del cugino di lei, Ismael, un giovane marinaio che la porta a conoscere i rifugi e gli anfratti più segreti della costa e le racconta le storie e le leggende che vi sono legate. Sennonché, proprio i racconti di Ismael e, in particolare, quello su inspiegabili luci che si dice appaiano in settembre da un isolotto poco distante, lasciano presagire che c’è almeno un mistero irrisolto al quale gli abitanti della Baia Azzurra hanno dato troppo poco peso. Infatti, un giorno Hannah muore misteriosamente nel bosco e mentre i ragazzi iniziano le indagini per venirne a capo, si vedono costretti a scontrarsi con un potere oscuro che agisce in modo ancor più inspiegabile e che li riporta sempre alle luci di settembre.
Altro da aggiungere non c’è, se non l’invito a leggere un libro di svago perfettamente dosato ed apprezzabile, da posare poi sullo scaffale e ricordare, semplicemnte, come un momento di piacere.

lunedì 27 giugno 2011

Alethea Black, “Un giorno uno sconosciuto mi diede una chiave”.

Vi do un consiglio per una letturina facile facile da fare sotto l’ombrellone la prossima estate: Un giorno uno sconosciuto mi diede una chiave, di Alethea Black.
L’editore ha voluto celebrare questa pubblicazione come il primo romanzo dell’autrice, ma definirlo tale, cioè un romanzo, mi sembra un po’ eccessivo. Direi piuttosto che si tratta di un lungo racconto, uno di quelli, appunto, che fa piacere leggere quando ci si vuole lasciare trasportare dalla vaporosità di una favola, che non lascia strascichi di emozioni o residui nella memoria da continuare ad assorbire anche dopo che si è chiusa l’ultima pagina. Non sarà un caso, del resto, che dell’autrice si dice essere nota negli Stati Uniti d’America per avere pubblicato i suoi racconti su numerose riviste (ed avere per ciò stesso vinto ambiti premi).
Il fatto è che, prima di leggerlo, io me ne ero fatto un’idea del tutto sbagliata e, d’altra parte, non cercavo nulla da assaporare con la risacca del mare nelle orecchie o una brezza iodata fra i capelli (non ancora, quantomeno!). In sostanza, dando troppo credito a quella stessa voce (un po’ troppo frettolosa nell’esprimere giudizi) con cui poc’anzi non mi ero trovato d’accordo, mi ero finito col convincere davvero che “in questo suo primo romanzo [rieccolo!], Alethea Black ci consegna una storia intensa ed evocativa che parla di emozioni profonde, di nostalgia e di rimorsi, ma soprattutto della ricerca del senso da dare alla propria vita”.
Ora, vorrei dire anche che non ero alla ricerca del senso da dare alla mia vita, ma semplicemente che quella descrizione mi aveva convinto di poter trovare uno spirito davvero profondo in poche pagine, capace di suscitare in me forti sentimenti. Così, però, non è stato.
In ogni caso, così come ho cominciato, voglio continuare nel dire che questo libro, dal titolo peraltro anche molto affascinante, non è per niente da buttare, anzi. Ha uno stile che lo fa risultare davvero gradevole e piacevole da seguire. E poi la protagonista ti riesce ad entrare nel cuore sin dalle primissime righe, perché non puoi non immaginarla come una di quelle tue amiche ambiziose, ma che al tempo stesso stentano persino a volersi confrontare con la realtà, belle, ma nascoste, simpatiche, ma soltanto con chi vogliono loro e, soprattutto, che sanno non perdersi mai d’animo. Come dire, quindi: ti intenerisce.
Esattamente come in una fiaba, Leah, che è la protagonista di cui parlavo, riceve da uno sconosciuto una chiave, senza sapere cosa apra e a quale scopo sia stata consegnata proprio a lei. Per un caso della sorte, dopo un po’ di tempo, apprende di non essere la sola destinataria di una simile consegna, ma mentre il gruppo che si forma brancola nel buio, Leah, si convince sempre più che quella chiave (o la figura oscura che gliel’ha consegnata) vuole indurla a percorrere vie che altrimenti non avrebbe mai intrapreso. In tal modo, intesse nuovi rapporti umani, da cui dedurrà di potere trarre buoni profitti sia sul piano personale che professionale.
La fiaba finisce qui, quindi il lieto fine dovrete costruirvelo voi, o almeno immaginarlo. Una cosa è certa, però, nel frattempo, se avrete letto ad alta voce le pagine del libro, avrete consegnato ai vostri figli un sonno soave e degli splendidi sogni.

martedì 21 giugno 2011

Josè Saramago, “Cecità”.

Cosa succederebbe agli uomini di una nazione, se in pochi giorni diventassero tutti ciechi? Riuscirebbero a trovare una nuova forma di adattamento al loro stato, oppure no?
A un anno esatto dalla morte di Josè Saramago (18 giugno 2010) ho completato la lettura di “Cecità”, l’opera in cui, in modo spietato e tristemente pessimista, si tenta, non senza secondi fini, di dare una risposta a questi interrogativi.
Il romanzo è atroce per le scene che vengono rappresentate e per la crudezza di situazioni che, anche se inverosimili, divengono facili da immaginare. L’autore, infatti, sembra accompagnare per mano i suoi lettori in un mondo che lui stesso sembra avere scoperto da poco e del quale non riesce ancora a non stupirsi. Egli constata come, di fronte alle ovvie e più immediate conseguenze che ha portato la cecità colpendo l’intera popolazione, tutti i precetti, i sani principi, gli stessi valori morali, non hanno retto all’impatto dell’epidemia, lasciando il posto all’innata barbarie del genere umano, al suo egoismo, alla sopraffazione sul prossimo, alla paura di vedersi nuocere dagli altri e, dunque, al desiderio di fuggirne o di anticiparne le mosse violentemente.
L’obiettivo è puntato prevalentemente sull’effetto che la malattia ha provocato sulla società, piuttosto che sui singoli, anche se, sia pur sporadicamente, si sposta sulle impressioni personali e gli intimi pensieri. Ma sembra che questa duplice inquadratura sia destinata, comunque, allo scopo di porre a paragone il difetto fisico al centro della storia con una chiusura mentale che, nel pensiero dell’autore, risulta essere congenita nell’uomo, tanto da farlo apparire spesso, appunto, cieco.
La trama è creata ad arte per non fare mai stancare il lettore. All’inizio dell’epidemia, infatti, un gruppo sparuto di persone, che è quello a cui appartengono i primi a contrarre la cecità, viene forzatamente relegato in un ex manicomio, per evitare il dilagarsi del male e al tempo stesso poterne studiare le cause e la cura. Il manicomio, però, viene presto riempito di gente fino a scoppiare e il cibo, già scarso sin dall’inizio, per via della paura di quanti avrebbero dovuto consegnarlo di venire contagiati, non viene più somministrato. Diviene, dunque, presto una specie di lazzaretto, fetido e pieno di sporcizia, e al suo interno scoppiano risse e si compiono i peggiori crimini. Quando la situazione diviene insostenibile, durante un incendio, i ciechi decidono di fuggire, rischiando le pallottole dei soldati che li tengono di guardia, ma ad attenderli c’è una più amara rivelazione della realtà: anche i soldati e gli stessi membri del governo che li avevano rinchiusi sono a quel punto diventati ciechi, e con essi tutta la popolazione, e per le strade la gente girovaga come branchi di lupi affamati, insieme a cani che si nutrono delle loro carcasse, topi di fogna e spazzatura. L’acqua, l’elettricità, il gas sono inutilizzabili e nell’aria aleggia costantemente un odore di decomposizione.
Una sola donna, la moglie di uno del gruppo, misteriosamente, ha avuto fatta salva la vista, sin dall’inizio, in modo tale che, attraverso i suoi occhi, possiamo vedere ciò che accade.
Un libro atroce, come dicevo, ma al tempo stesso arguto e profondo. Direi, un’eccellente allegoria della specie umana, che ne evidenzia la vacuità dei propositi: se messo alla prova, infatti, l’uomo si dimostra pronto a rinunciare a tutti i valori che ha sposato, persino quelli che, per ironia della sorte, ha ritenuto parte della sua stessa natura.
Un libro facile da leggere, nonostante un’inspiegabile, ma chiaramente voluto, uso erroneo della punteggiatura: il punto quasi non esiste (chiude solo periodi di non meno di mezza pagina), essendo nella maggior parte dei casi sostituito da una virgola, mentre tutti gli altri simboli d’uso essenziale, come i punti interrogativi, i punti esclamativi, i due punti, le virgolette, e così via sembrano essere sconosciuti all’autore.
L’unica spiegazione che potrei dare a tale strana scelta è la fusione delle parole con un contesto caotico, impersonale, e il tentativo (ben riuscito) di poter ricondurre le stesse a chiunque. D’altra parte, a nessun personaggio è dato un nome, sia pur di fantasia, che lo identifichi, perché nella prova in cui l’autore si è voluto cimentare le azioni, le parole e le scelte possano così ricondursi a quelle di un qualsiasi uomo e non a quelle di uno solo di essi.